ebook di Fulvio Romano

lunedì 23 ottobre 2017

Dopo i Referendum...

LA STAMPA

Cultura

Nuovo tassello

nel mosaico

dello scontento

S e il trasferimento di competenze dallo Stato alle regioni fosse un fatto puramente amministrativo, i veneti e i lombardi che a milioni si sono messi in fila ieri ai seggi avrebbero commesso un grande errore. Da questo punto di vista la strada del regionalismo «freddo» adottata dall’Emilia-Romagna è molto più veloce e produttiva. Tanto che a Bologna puntano a incassare il via libera di Roma entro la fine della legislatura, appena pochi mesi dopo il fischio d’inizio della procedura. Le regioni governate dai leghisti hanno scelto invece una strada opposta, quella del regionalismo «caldo» strappato a suon di voti. E tutto indica che dovranno trattare con il prossimo governo che uscirà dalle urne a marzo. È dunque evidente che quella che si è giocata ieri è stata una partita al cento per cento politica, anzi in una stessa mano si sono intrecciate vicende politiche diverse. Almeno due: una interna alla Lega sulla direzione che deve prendere il partito, nazionale (come vorrebbe Salvini) o indipendentista- nordista (come quella iscritta al primo punto dello statuto del movimento); un’altra dentro il centrodestra, tra Lega e Forza Italia, per la supremazia nella coalizione e la futura spartizione dei collegi del Rosatellum.

E tuttavia, al di là delle convenienze e dei calcoli immediati sul cui prodest, forse l’aspetto più rilevante della consultazione «federalista» è un altro. Per comprenderlo bastava ascoltare le voci dei cittadini ai seggi, dagli artigiani ai commercianti, dai risparmiatori truffati dalla banche agli operai. Gente normale, a prima vista più di provincia che di città - non è un caso che nella cosmopolita e ricca Milano il referendum sia andato meno bene come affluenza -, più ceto medio che élite. Come se il voto, oltre al contenuto esplicito, quello scritto sulla scheda elettorale, contenesse anche un quesito nascosto ma altrettanto potente e motivante: siete soddisfatti o no dell’attuale stato di cose? E la risposta è stato un corale e gigantesco «no» che il governo e i partiti romani farebbero molto male a sottovalutare o a trattare con un’alzata di spalle. Siamo di fronte all’ennesima dimostrazione di quella rivolta contro «il mondo di sopra» da parte del «mondo di sotto», di un altro volto di quella protesta che ormai investe le classi dirigenti in tutti i Paesi europei. Il merito, ancora una volta, c’entra fino a un certo punto. Il Veneto, ad esempio, ha indicato come priorità, tra le materie su cui rivendica piena sovranità, anche la politica industriale. Davvero qualcuno può pensare che una piccola regione possa dire qualcosa su questo problema quando ormai la politica industriale - si pensi ai casi Ilva o Fincantieri - si gioca in una dimensione transnazionale? La Lombardia chiede di avocare a sé la ricerca. Ma di fronte alle università e ai centri di ricerca lombardi c’è la Cina, che nel 2016 ha investito in ricerca e sviluppo l’equivalente di 396 miliardi di dollari. È del tutto evidente che la dimensione regionale non è quella adeguata per la caratura mondiale delle sfide che abbiamo di fronte, almeno per quanto riguarda molte delle materie richieste dal referendum. Non è dunque la razionalità della proposta la chiave per interpretare il referendum, bensì la forza dello scontento. Un risparmiatore veneto, che ha perso i suoi soldi nel fallimento della Popolare di Vicenza, al seggio ieri ha detto di aver votato sì «per protestare perché il sistema Italia per me non funziona». Quel «per me» è il punto centrale. Chi ha votato ieri non è diventato improvvisamente leghista, ma si sente abbandonato dallo Stato, tradito dalla classe politica nazionale, e spera che una dimensione del potere più prossima, che parli nel suo stesso dialetto, possa dargli le risposte che cerca. Sta a Roma dimostrare che si sbaglia. 

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francesco bei


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