ebook di Fulvio Romano

giovedì 20 aprile 2017

La ministra ragazzina

LA STAMPA

Prima Pagina

La ministra ragazzina

«A scuola studiamo gli assiri e i babilonesi e poi accendiamo la tv e ci accorgiamo di non sapere nulla di quello che succede in Siria o in Medio Oriente». Lo ha detto Bernard Dika, presidente del parlamento degli studenti di Toscana, al ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli. Dika è molto stupito (come lo eravamo noi a nostri tempi) che i programmi di storia si fermino alla Seconda guerra mondiale, di modo che ai ragazzi è impedito di comprendere i fatti della contemporaneità. Un ministro avrebbe chiarito a Dika che la scuola non spiega ai ragazzi la contemporaneità (quello lo fanno tv e giornali, e se non ci si fida di tv e giornali ci sono approfondimenti a migliaia su Internet, o addirittura nelle biblioteche e nelle librerie) ma piuttosto gli dà le basi necessarie per comprenderla. La scuola non informa, istruisce. Quindi meno babilonesi e più attualità è una sciocchezza, perché se non si studiano i babilonesi non si capisce il Medio Oriente di oggi, se non si studia Odino non si capiscono nazismo e razzismo, se non si studia Pericle non si capiscono i fondamenti della democrazia, se non si studia Giustiniano non si capisce il diritto come scienza umana dell’Occidente. Questo avrebbe detto un ministro, e non importa se senza laurea, purché con un’idea del proprio ruolo. Invece Fedeli si è molto complimentata con Dika e ha promesso di interessarsi alla modifica dei programmi: meno babilonesi e più attualità. È che un ragazzo ha il diritto di essere un ragazzo, mentre un ministro ha il dovere di essere un ministro. 

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Mattia Feltri


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sabato 15 aprile 2017

Casaleggio jr, Di Maio e l’italiano a cinquestelle

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Italia

Casaleggio jr, Di Maio

e l’italiano a cinquestelle

«L’Olivetti ha lasciato un’aurea, in questo Paese, a partire da Ivrea ma in tutta Italia. Volevamo intercettare quest’aurea», ha detto, due volte, Davide Casaleggio alla convention di Ivrea. Forse intendeva dire «un’aura». I dati sui «romeni criminali», che hanno suscitato la protesta diplomatica della Romania, sono «inopinabili», insisteva Luigi Di Maio il giorno dopo. Forse intendeva dire «inoppugnabili» («inopinabili», in italiano, significa - fonte Treccani - «imprevedibili»). Sui romeni ha anche detto «io non ho nulla da cui scusarsi, se non si dovrebbero scusare quei radical chic cha stamattina mi attaccano sui giornali» (fonte: Corriere live, al minuto 18,40). Houston, abbiamo un problema con la lingua, nel Movimento cinque stelle. E non ci può aiutare «lo psicologo Gallini».

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Jacopo Iacoboni


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mercoledì 12 aprile 2017

Gli scambisti ( Mattia Feltri)

LA STAMPA

Prima Pagina

Gli scambisti

Che due assistenti parlamentari dei Cinque Stelle si siano finti giornalisti per intervistare il direttore del Tg1, Mario Orfeo, non è per nulla stupefacente. Infatti è noto che i politici, non sapendo fare politica, provano a fare i giornalisti, che è anche molto più semplice. E spiegano ai giornalisti quali notizie debbano prevalere, quali siano state occultate, quali capisaldi deontologici siano stati infranti. Ma i giornalisti, che non sono più tanto bravi a fare i giornalisti, sono diventati bravissimi a fare i politici, e spiegano alla politica che leggi bisognerebbe varare per sistemare i conti pubblici, rendere le città sicure, fermare l’immigrazione e ripulire l’aria. Alcuni giornalisti allora diventano politici e non sanno assolutamente fare politica, ma a quel punto hanno doppia autorità sul giornalismo. E in questo caos, chi fa i giornali? I magistrati, almeno quelli non ancora entrati in politica, che più pragmatici non spiegano ai giornalisti come si fanno i giornali, li fanno direttamente decidendo quali inchieste vanno in pagina, con che risalto, con quali obiettivi. E così i giornalisti che non hanno la passione per la politica si sono messi a fare i magistrati, e ogni mattina si chiedono quale giunta possano sgominare, o quale ministro cogliere con le mani nel sacco. Nel tempo libero, poi, siccome non le fa nessuno, i magistrati fanno anche le leggi con le loro sentenze. Dunque i processi si fanno sui giornali, le leggi si fanno in tribunale e le notizie le danno un po’ tutti, di modo che non funziona niente. Ma ci si diverte un sacco. 

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Mattia Feltri


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sabato 8 aprile 2017

Scossa di 3,3 mgt a Demonte, valle Stura di Cuneo


se L’america torna protagonista

LA STAMPA

Cultura

se L’america

torna

protagonista

Con il lancio di 59 missili cruise contro la base siriana di Shayrat, Trump ha punito il regime di Assad per l’uso dei gas contro i civili, dimostrando la volontà di far tornare l’America protagonista in Medio Oriente ostacolando i piani della Russia di Putin. Il declino dell’influenza Usa nella regione è iniziato nel novembre 2013 quando Obama ammonì Assad a non superare la «linea rossa» dell’uso dei gas contro i suoi cittadini minacciando un intervento militare che poi però non avvenne.

A dispetto di molteplici attacchi con i gas da parte del regime di Damasco. Con quella marcia indietro Obama indebolì la credibilità americana, minando ciò che più conta in Medio Oriente: la capacità di proiettare deterrenza. E generando un vuoto di potere nel quale, due anni dopo, la Russia si è inserita intervenendo proprio in Siria per consentire ad Assad di restare al potere e costruire attorno a tale successo strategico un nuovo equilibrio regionale con Mosca protagonista. Al disegno di Putin manca poco perché Assad ha quasi terminato la riconquista della Siria Occidentale - sua roccaforte - con l’eccezione però della provincia di Idlib, roccaforte dei ribelli islamici sostenuti dai Paesi sunniti. E’ nell’assalto a Idlib che gli aerei di Assad hanno usato il gas sarin commettendo l’errore che ha consentito a Trump di rimettere in gioco l’America riportando le lancette al 2013, ovvero usando la forza militare per far rispettare la «linea rossa» proclamata da Obama.

Basta guardare a cosa è avvenuto nelle ore seguenti per accorgersi dell’immediato impatto strategico. I Paesi mediorientali tradizionali alleati di Washington - Turchia, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Emirati del Golfo - hanno fatto quadrato attorno alla Casa Bianca come non avveniva dal 2011, anno d’inizio delle rivolte arabe, e ciò ha coinciso con il sostegno da parte di Londra, Berlino, Parigi e, pur con un linguaggio più prudente, Roma. Ovvero: se l’America torna a impegnarsi in Medio Oriente, la sua alleanza risorge nello spazio d’un mattino, riconoscersi nella capacità di Washington di proiettare stabilità e garantirla con la forza della maggior potenza militare del Pianeta. 

Ma il ritorno dell’America avviene al prezzo di una prova di forza con Mosca dalle imprevedibili conseguenze. Il Cremlino difende Assad a spada tratta, rafforza la presenza navale nel Mediterraneo orientale e minaccia contromosse sul fronte della sicurezza perché Putin non vuole rinunciare allo spazio strategico conquistato durante gli anni di Obama. La realtà tuttavia è che al suo fianco Putin si ritrova solo gli ayatollah di Teheran, gli Hezbollah libanesi e il regime di Assad: ovvero è praticamente nell’angolo, addio ambiziosi piani per basi ed affari da Suez al Golfo.

Inizia così la partita fra Trump e Putin sul riequilibrio di forze in Medio Oriente: entrambi hanno interesse a demolire il Califfato dello Stato Islamico ma, come avvenne nel cuore dell’Europa nel 1945, sono in gara per conquistare la capitale del nemico comune e assumere la leadership della ricostruzione regionale.

E’ una sfida che ha sullo fondo quanto matura nella West Wing della Casa Bianca: Trump riduce il ruolo dell’anima ideologica e populista del suo team, incarnata da Steve Bannon, e si affida ad una falange di pragmatici - il consigliere per la sicurezza H. R. McMaster, Jim Mattis al Pentagono, Rex Tillerson al Dipartimento di Stato e Steven Mnuchin al Tesoro - per rimettere l’America sui binari. E’ una direzione di marcia che spiazza tutti coloro che vedevano in Trump solo lo spregiudicato leader populista della campagna elettorale sottovalutandone il carattere da tycoon della Grande Mela: il risveglio per Putin è arrivato con un pioggia di cruise e il presidente cinese Xi Jinping lo ha vissuto in diretta nel resort di Mar-a-Lago in Florida mentre il Pentagono si affrettava a far sapere a Pyongyang e Teheran che le rispettive armi di distruzione di massa non erano più al sicuro di quelle di Assad. Resta da vedere se Trump riuscirà a trasformare questo blitz in una svolta strategica sufficientemente stabile e credibile da poter riportare l’America a guidare con fermezza l’alleanza di nazioni frettolosamente dismessa da Obama. In attesa di sapere se ciò avverrà, conviene riflettere sul suggerimento che Henry Kissinger suole ripetere ai visitatori d’Oltremare: «Mai prendere sotto gamba un Presidente degli Stati Uniti».

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Maurizio Molinari


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Ala prova dei fatti Salvini e Grillo si schierano con Putin...

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Italia

I populisti

all’italiana

alla prova

della realtà

Il bombardamento Usa in Siria ha scompaginato gli equilibri politici italiani, soprattutto quelli delle opposizioni, e anche la tradizionale contrapposizione tra interventisti e pacifisti, chiara al momento delle guerre anti-terrorismo di inizio secolo, e adesso più confusa. Alla vigilia del suo primo incontro faccia a faccia con il presidente americano, Gentiloni sta esplicitamente con Trump, giudicando perfettamente motivato dall’uso delle armi chimiche contro i bambini il blitz dell’altra notte. Alfano è sulle stesse posizioni. Dove invece si assiste a un capovolgimento è nelle file del populismo nostrano, da cui emerge un neonato partito putiniano di Salvini e Grillo.

Era stato comodo, finora, per il leader leghista, da un lato farsi fotografare con Trump durante la campagna per le presidenziali, esibire l’immagine come prova di un asse tra la nuova Lega nazionale e il leader mondiale del populismo, salvo poi ricavarne un’infastidita reazione dell’interessato. E dall’altro andare e venire da Mosca, vagheggiando un’amicizia con Putin finora mai confermata dalla solennità di un incontro formale. Dopo i missili in Siria, è venuto il momento di scegliere, e la scelta, per il leader leghista, è a favore della Russia e contro gli Usa, accusati, quasi con le stesse parole usate dai portavoce di Mosca, di agevolare la ripresa dell’Isis e del terrorismo islamico colpendo Assad.

Più o meno sulle stesse posizioni, ma con un di più di antiamericanismo e di attacco diretto contro Gentiloni a cui ha dato voce Di Battista, sono i 5 Stelle, secondo i quali l’errore peggiore di Trump è pensare «di rispondere a una guerra con un’altra guerra». La venatura pacifista, appena accennata, non ha nulla dei toni che accompagnavano, all’inizio degli Anni Duemila, i toni di una parte del mondo cattolico e della sinistra radicale rispetto alle guerre anti-terrorismo in Afghanistan e in Iraq. Ma sottende il disorientamento che emerge sulla rete e nell’area di riferimento del Movimento, con un rituale richiamo all’Onu, tenuta all’oscuro dell’attacco Usa, e con un’oggettiva, anche se non dichiarata come quella leghista, vicinanza alle posizioni russe.

In sostanza, alla prima seria prova internazionale e di fronte a un’evidente spaccatura del fronte populista, i due partiti che teorizzano uno spostamento della tradizionale collocazione internazionale dell’Italia sono usciti allo scoperto. Con qualche approssimazione e con l’imbarazzo di trovarsi da ieri avversari di quello che fino all’altro ieri era il loro alleato ideale.

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Marcello

Sorgi


La culla del neofascismo 5s descritta da una regista scandinava

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Italia

Beppe “il Grigio”, espulsioni e pistole

nel film che svela l’ascesa del M5S

Una regista danese, unica al mondo, ha assistito alle riunioni segrete 

«Dovreste vivere in Italia per capire cos’è la paranoia», dice Mario Giarrusso, senatore e attore prestato a interpretare se stesso, «è la cosa che ti fa dubitare dei tuoi stessi amici». La frase va finendo mentre Giarrusso è seduto in trattoria ad ascoltare quei suoi amici e colleghi che poco dopo saranno espulsi dal M5S: Francesco Campanella, Luis Orellana, Lorenzo Battista. Nel frattempo Giarrusso raccoglie minacce di morte e si compra una pistola che, con eccesso di immaginario cinematografico, porta con sé a letto. Siamo nel 2014 e la paranoia nel M5S è al suo culmine. Poi, resterà come una ferita e una cifra comportamentale, come un sapore in bocca che non va più via. 

Il documentario

Quasi due anni prima, una regista danese, Lise Birk Pedersen, ottiene, unica al mondo, di poter raccontare il M5S dal suo interno, seguendo nel privato e nelle riunioni quattro senatori grillini. Paola Taverna, Alberto Airola, Mario Giarrusso, Luis Orellana. Nessun velo, nessuna finzione, se non la posa attoriale che ogni tanto prende chi sa di avere una telecamera accesa intorno a sé. Il risultato è «Tutti a casa – Inside M5S», il documentario di Pedersen, ieri in anteprima al festival di Pordenone «Le voci dell’inchiesta». È un racconto lungo tre anni, dallo Tsunami tour di Beppe Grillo, le piazze piene che annunciavano, inascoltate, il maremoto politico, a un comizio del 2015 organizzato sulla coda di Mafia Capitale, che invece annunciava la scontata vittoria del M5S a Roma. 

In mezzo ci sono aneddoti divertenti e dolorosi. C’è quella volta in cui sempre Giarrusso, sfinito dalle discussioni con gli attivisti ai banchetti in Sicilia che spingono per l’accordo con il Pd di Pier Luigi Bersani, si addormenta nella cameretta di quand’era bambino, con la sciarpa del Catania sopra il letto e il padre che gli dice in dialetto di «tirar fuori le palle». Giarrusso è un omone addolcito dall’amore per la musica classica, dilaniato per mesi dai dubbi se accettare un compromesso con i dem. Chi invece non sente ragioni è Taverna, capace far piangere una senatrice, Michela Montevecchi. La scena si svolge durante l’assemblea che decreterà l’espulsione della collega Adele Gambaro, rea di aver accusato Grillo di scrivere post violenti («il Parlamento è una tomba maleodorante»). Interviene Taverna in italiano-romanesco: «Vojo che me fate il favore di levarve dai cojoni. Voi state qui per grazia ricevuta de Beppe Grillo, e state a sputà nel piatto in cui se magna…». Ma c’è chi della grazia ricevuta non sa che farsene, e vorrebbe fare politica, ragionare con la propria testa, come Orellana che nell’intimità dello sconforto dice: «Per il 99% degli attivisti Beppe è perfetto e non può sbagliare». Beppe li porta fino alle soglie del Parlamento, dove è un po’ cominciato e un po’ finito tutto. Poi riappare solo di tanto in tanto dal vivavoce di un iPhone, su quello di Vito Crimi, dove è registrato come «Il Grigio». La telecamera entra nelle assemblee e dà ragione ai retroscena che hanno raccontato i giornali, incuranti degli attacchi di un Movimento che si è subito rimangiato le promesse di trasparenza. Si vede come «Il Grigio» impone le scelte: «Fate come volete, ma sappiate che…»; la sua rabbia impietosa quando viene messo in discussione. 

Senza filtri

Dove si spegne lo streaming si accende l’occhio di Pedersen su semplici cittadini entrati in un gioco più complesso di loro, dove parlare liberamente diventa sempre meno gradito. La regista ha detto di aver cominciato senza sapere nulla del M5S, mossa da curiosità. La fortuna l’ha premiata e le ha permesso di raccontare cosa è successo davvero, senza pregiudizi e con quel rigore scandinavo che come nulla fa passare dal comico al drammatico. Le liti feroci, il potere di Grillo, il conformismo di alcuni, la ribellione di altri, le epurazioni, la deriva personalistica e autoritaria del M5S, Airola che preme Sì sul tablet per espellere Gambaro, l’addio amaro di Orellana: «Ascoltare cosa dicono gli altri dovrebbe essere lo scopo di chi sta in Parlamento». È un documento storico su un esperimento antropologico. E che parla di oggi, parla di quanto è successo a Genova, e potrebbe risuccedere. La parola onestà si sente riecheggiare fino al finale, a Roma, dove si chiude come si era cominciato, sui volti del pubblico a un comizio di Grillo che è anche spettacolo: «La manifestazione dell’onestà», dopo Mafia Capitale. Poco prima le telecamere mostravano Taverna e Airola fumare nelle stanze del Senato, dove è vietato farlo, inconsapevoli che l’onestà comincia sempre dal rispetto delle piccole regole.

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ilario lombardo


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domenica 2 aprile 2017

Libia, le tribù del Sud siglano la pace e si impegnano a bloccare i migranti

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Esteri

Libia, le tribù del Sud siglano la pace

e si impegnano a bloccare i migranti

L’Italia garante dell’intesa, firmata al Viminale dopo una maratona di 72 ore

Decisivo il ruolo del ministro Minniti con i leader di Tebu, Suleyman e Tuareg

Un accordo di pace tra le tribù del Fezzan, siglato in un clima top secret, venerdì sera al ministero dell’Interno, accelera la lotta all’emergenza dei flussi migratori. D’ora in poi si intensificherà non solo il controllo delle coste libiche, ma anche quello a Sud del Paese, lungo i 5 mila chilometri al confine con Ciad, Algeria e Nigeria. 

E se per il primo monitoraggio si è rivelata determinante l’intesa del 2 febbraio scorso tra il nostro presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, e il premier Fayez Al Sarraj, ora nel presidiare i confini della Libia meridionale diventa strategica la pace nel Fezzan, nel cuore del deserto del Sahara. Il patto tra le tribù Tebu e Suleiman è avvenuto alla presenza dei Tuareg e del vice premier libico Ahmed Maitig, con la supervisione del ministro Marco Minniti. 

Un altro passo avanti del nostro governo, nel caso specifico del titolare del Viminale, nell’assumere sempre più il ruolo di garante nella pacificazione strategica in Libia, indispensabile per affrontare il traffico degli esseri umani, ma anche la minaccia del terrorismo islamico.

Il patto, venerdì sera, è stato firmato nell’ampia e luminosa sala del consiglio del Viminale - quella in cui prima dell’utilizzo di Palazzo Chigi si riuniva il consiglio dei ministri - e maturato proprio grazie all’impegno di Minniti. Il quale, prima dell’appuntamento collettivo, ha incontrato a Roma singolarmente, negli ultimi mesi, i capi tribù Tebu, Suleiman e Tuareg, per ascoltare le ragioni di ciascuno. Sullo sfondo dell’intesa appena raggiunta non ci sono, infatti, regole e codici tradizionali, ma quella diplomazia del deserto basata sulla fiducia e sulla mediazione personale. 

E ora se ne raccolgono i frutti. Sul fronte libico meridionale, l’Italia interverrà con mezzi e risorse per la formazione del personale. «Sarà operativa una guardia di frontiera libica - annuncia il numero uno del Viminale – per sorvegliare i confini a Sud della Libia, su 5000 chilometri di confine. Mentre a Nord, contro gli scafisti sarà operativa la guardia costiera libica, addestrata dalle nostre forze, che dal 30 aprile sarà dotata delle 10 motovedette che stiamo finendo loro di ristrutturare». 

Lo stop alla guerra tra le tribù Tebu e Suleiman - che solo negli ultimi anni ha provocato 500 morti - segna una svolta sul fronte immigrazione sia per l’Italia, sia per gli altri Paesi europei. «Sigillare la frontiera a Sud della Libia - prosegue il ministro - significa sigillare la frontiera a Sud dell’Europa». 

La discussione è stata animata e intensa. Sessanta capi clan - chi in abiti occidentali, chi con la lunga tunica, il turbante e la tagelmust, la sciarpa bianca a coprire il volto – hanno discusso per 72 ore, al secondo piano del ministero dell’Interno, intorno a un enorme tavolo ovale in legno scuro. Protagonisti principali i capi degli Awlad Suleiman e i Tebu, ma c’erano anche i leader Tuareg. Per i Tebu è intervenuto il sultano Zilawi Minah Salah, per i Suleiman il generale Senussi Omar Massaoud mentre per i Tuareg, Sheikh Abu Bakr Al Faqwi. Il compromesso era quanto mai atteso, perché se è vero che l’Italia e l’Europa hanno molto da guadagnare dalla stabilità in Libia, è altrettanto certo che da quelle parti c’è stata una guerra e poi sei anni di caos istituzionale. Va quindi ricostruita una società dalle fondamenta e grazie alla pace raggiunta si potrà procedere alla realizzazione di opportunità di sviluppo alternativo ai profitti dei traffici illeciti, alla riapertura dell’aeroporto di Sebha e alla cooperazione transfrontaliera con le tribù sorelle in Ciad e in Niger. La riconciliazione tra i Tebu e i Suleiman permetterà inoltre alle due tribù di unire le forze per contrastare la criminalità, il terrorismo e lo jihadismo. Non va infatti dimenticato che, poiché l’Isis è ormai sulla difensiva in Iraq e Siria, diventa prioritario proteggere quest’area del Mediterraneo da un ritorno di foreign fighters. 

Ma una domanda si impone: la pace appena ufficializzata sarà mantenuta? Le premesse non mancano: «Per noi che siamo beduini, gli accordi sono un fatto di sangue» hanno detto i capi tribù salutando il ministro Minniti. La sua risposta non si è fatta attendere: «Io sono calabrese, e anche per la regione da cui provengo conta il sangue».

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grazia longo


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