ebook di Fulvio Romano

martedì 31 luglio 2018

L’atletica corre più veloce dell’Italia

LA STAMPA

Cultura

L’atletica corre più veloce dell’Italia

giulia zonca

Sulle piste la seconda generazione va veloce, anticipa il cambiamento, accelera l’integrazione tanto che pure la definizione «figli di immigrati» si fa sempre più sfocata, distante, superata. Lo sport mescola, l’atletica italiana di più e per caso o per scelta è diventata lo specchio di quello che sarà, di una normalità che ancora la società non ha metabolizzato come tale e invece la nazionale azzurra sì.

Daisy Osakue che con l’occhio pesto dice «ho ancora più voglia di vincere per il mio Paese» è solo l’ultimo esempio, l’ultima voce di un gruppo che viaggia su un altro binario e fatica a concepire il razzismo perché effettivamente nella loro quotidianità non esiste. Sono abituati fin da piccoli al fatto ineluttabile che l’unica differenza sta nel cronometro, nella misura da raggiungere non certo nel colore della pelle. Si inizia presto, si vive tra palestra e campo, si sta sempre insieme e a ogni raduno la squadra cambia, nessuno ci fa caso. Poi capita che una staffetta tutta nera vinca una gara e che il successo venga registrato come novità. In effetti non era mai successo, ma per loro è naturale che capiti le quattro ragazze sono sia fiere di rappresentare il cambiamento sia seccate di essere valutate per questo. È tutto molto genuino, poco filtrato, tutto come dovrebbe essere eppure ancora non è. 

Loro viaggiano a un altro ritmo dentro un microcosmo in cui il cambio generazionale è continuo e il passaggio di testimone obbligato. 

I ragazzi che hanno dovuto aspettare 18 anni per una convocazione anche se sono nati qui si sono indignati per il voto mancato sullo Ius soli. Hanno raccontato le loro storie di talenti parcheggiati convinti che l’aria stesse cambiando e che la loro testimonianza fosse un contributo semplice, facile da capitare e da imitare. Hanno provato a convertire l’attesa forzata in motivazione e hanno spinto sulla passione come sono abituati a fare con i loro muscoli: di slancio, tutto di un fiato, convinti di essere sui blocchi, alla partenza di una nuova era. Solo che nessuno ha sparato il via. Lo Ius soli è sparito dal Parlamento ed è rimasto il loro freno. 

Osakue ha descritto l’emozione della prima maglia azzurra, inseguita per una vita, ha spiegato paziente e stupefatta che chi appende striscioni squallidi con la scritta «non ci sono neri italiani» non ha idea della fatica che fanno quei neri per correre, saltare, lanciare, giocare, competere per la bandiera italiana. E ora si trova faccia a faccia con una vigliaccata che puzza di razzismo e non sa cosa sta guardando, anche perché le hanno chiuso un occhio, ma lei sente l’odore della paura. «Diventerà forza per lanciare più lontano».

C’è stato il «MeTwo» della Germania stravolta dal caso Özil che ha rivendicato due anime, quella tedesca con cui è cresciuto e ha vinto un Mondiale di calcio, quella turca che gli resta nel cuore perché è la patria dei genitori. La nostra atletica crede nel valore che l’origine di ognuno si porta dietro e sventola la forza di questo miscuglio che si chiama Italia. 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Cottarelli: una manovra ad alto tasso di rischio

LA STAMPA

Prima Pagina

conti pubblici

una manovra

ad alto tasso

di rischio

La scorsa settimana è passato inosservato un fatto piuttosto significativo: la missione annuale di sorveglianza sull’Italia del Fmi è terminata senza la tradizionale «pagella». Gli economisti del Fmi hanno concluso che il governo non aveva ancora definito in modo chiaro le proprie linee di politica economica e il giudizio è stato rinviato a ottobre. Effettivamente, a due mesi dalla sua formazione, le linee del governo soprattutto in materia di conti pubblici restano del tutto indefinite. Quale sarà l’obiettivo per il deficit per il 2019 e come sarà possibile riconciliare le promesse del contratto di governo con i vincoli di bilancio? Cerchiamo di capirlo partendo da qualche numero.

Quest’anno il deficit (la differenza tra spese pubbliche e entrate) dovrebbe attestarsi intorno all’1,6 per cento del Pil, secondo il quadro definito in aprile dal governo precedente (forse un po’ di più visto l’aumento dei tassi di interesse e il rallentamento nella crescita ma non complichiamo le cose). Il prossimo anno avevamo promesso all’Europa di scendere allo 0,9 per cento, obiettivo da raggiungere facendo scattare le clausole di salvaguardia (in primis l’aumento dell’Iva). 

Una cosa sappiamo: questo governo non le farà scattare. Senza di loro il deficit per il 2019 salirebbe più o meno al livello di quest’anno. In uno dei suoi recenti interventi Tria ha indicato che questa sarebbe la sua intenzione: mantenere il deficit invariato (Tria parlava del deficit strutturale il che è un po’ diverso ma non entriamo in tecnicismi). Il problema è che questa posizione non lascia spazio né per le azioni previste dal contratto di governo (reddito di cittadinanza, flat tax, controriforma Fornero) né per l’aumento degli investimenti pubblici caro allo stesso Tria. Che fare?

Credo il governo, per evitare l’immediata reazione dei mercati, cioè un aumento dello spread, non presenterà una legge di bilancio palesemente insensata. Ma dovrà comunque dare qualcosa al proprio elettorato. Secondo me farà due cose. La prima è aumentare il deficit di qualche decimo di punto, magari portandolo al 2-2,1 per cento. Questo è il livello medio del 2016-2018, è insomma una cosa che può essere presentata come non troppo diversa, in termini di saldi, da quello fatto da Renzi («perché lui si e noi no?»). Secondo, adotterà ipotesi ottimistiche su alcune variabili fondamentali: sulla crescita del Pil (più crescita vuol dire più entrate), sull’inflazione (più inflazione fa crescere il Pil nominale e riduce il rapporto tra debito e Pil) e sulle entrate attese dalla pace fiscale (nonostante i recenti moniti di Tria in proposito). Questo consentirebbe di raggranellare 20-30 miliardi, cui si potrebbero aggiungere il riciclo di risorse già esistenti (i 10 miliardi degli 80 euro di Renzi, le spese per il reddito di inclusione che sarebbe inglobato in un inizio di reddito di cittadinanza) e qualche taglio di spesa (impossibile che Salvini non tagli le spese per i migranti). Certo, una parte di queste risorse andrebbe a finanziare le cosiddette «spese indifferibili» (voci di spesa che vengono rifinanziate di anno in anno, come le missioni all’estero) e la maggior spesa per interessi causata dall’aumento dello spread avvenuto da metà maggio. Ma resterebbe qualcosa di importante per finanziare nuove iniziative in linea col contratto.

Come reagirebbe l’Europa a una politica di questo genere, l’ennesimo rallentamento o inversione nel percorso di avvicinamento al pareggio di bilancio richiesto dalle regole europee? Non credo ci sarebbero troppo rischi nell’immediato. La Commissione Europea non potrebbe iniziare subito una procedura di deficit eccessivo in assenza di un dichiarato intento di eccedere il tetto del 3 percento. Potrebbe intervenire solo nella prossima primavera alla luce dei dati finali per il 2018. Ma mi sembra improbabile che la Commissione intervenga alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2019. I tempi sarebbero quindi lunghi.

Come reagirebbero i mercati finanziari? Nell’immediato la reazione potrebbe non essere troppo negativa. Magari ci sarebbe un aumento dello spread ma, in assenza di un evento che focalizzi l’azione della miriade di operatori di cui il mercato è composto (vedi sotto), il temuto balzo dello spread in un «territorio di non ritorno» potrebbe essere rinviato.

Tutto a posto dunque? Per niente. La politica sopra descritta allontanerebbe il deficit dal quel sentiero di discesa decisa che è assolutamente necessario raggiungere per mettere al sicuro i conti pubblici, ciò per evitare che il minimo scossone che ci arriva dall’esterno porti a un nuovo aumento del rapporto debito e Pil e quindi a un’immediata crisi di fiducia nella possibilità per l’Italia di restare solvente senza lasciare l’euro. Un qualunque shock recessivo scatenerebbe un attacco speculativo e un aumento dello spread che trasformerebbe una piccola recessione in una crisi profonda, una crisi da cui sarebbe più difficile uscire che nel 2011. Questa è la debolezza dell’Italia e i piani del governo, seppure mediati da Tria, seppure tollerati dall’Unione Europea, seppure in assenza di un’immediata reazione dei mercati, porterebbero a un aumento, non a una riduzione, dei rischi che fronteggiamo. Dobbiamo solo sperare di essere fortunati e che l’economia europea continui a crescere nei prossimi anni. Se questo non avverrà, saranno guai. 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Carlo Cottarelli

lunedì 30 luglio 2018

La settimana dell’ Africano

LA STAMPA

Cuneo

il tempo

Tra mercoledì e sabato

in pianura oltre 35 gradi

Era nelle giornate che seguivano gli ultimi «santi della pioggia» (San Giacomo e Sant’ Anna) che la civiltà contadina attendeva con rassegnazione l’arrivo del cuore della «canicola». Le giornate più calde ed afose dell’anno coincidevano, infatti, con il sopraggiungere, fin sulle colline e le montagne del Nord-Ovest, delle folate africane spinte dall’anticiclone mediterraneo, tipiche dei primi giorni di agosto. 

L’ultimo esempio l’anno scorso, con temperature che nemmeno nel bollente 2003 si erano osservate. Un exploit che sembra in procinto di ripetersi tra mercoledì e sabato, quando le massime supereranno, specie sulle pianure Sud orientali, Alessandrino e Vercellese, i fatidici 35°, cifra meteo delle afose estati. 

A loro volta le minime si collocheranno ben al di sopra dei 20°, accentuando il senso di soffoco di queste giornate subtropicali. 

L’Africano domina e soltanto le vette o le alte valli alpine saranno coperte da nuvoloni convettivi e bagnate a tratti da temporali di calore, specie tra mercoledì sera e la mattina di giovedì. 

Nel weekend

Il culmine del caldo comincerà a scemare da sabato con il sopraggiungere di qualche nuvola in più che, specie domenica, potrebbe dare il segnale ad una moderata svolta, con ripresa di temporali e calo delle massime, che avverrà all’inizio della prossima settimana. 

romano.fulvio@libero.it 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

fulvio romano

Kinshasa 1974. Muhammad Alì re d’Africa

LA STAMPA

Cultura

la strategia vincente Contro il campione in carica, più giovane e favorito

Muhammad Ali re d’Africa

Kinshasa ’74, per sette round

incassa i colpi di Foreman,

all’ottavo lo manda al tappeto

Kinshasa. Zaire. Mobutu. Una capitale dell’Africa nera. Un Paese. Un dittatore. E con loro tutta l’America. E il resto del mondo. Con gli occhi puntati sul quadrato di un ring illuminato dai riflettori nel buio della notte al centro della giungla. Per un incontro di boxe? No. Per una sfida epica destinata a segnare per sempre non solo la «nobile arte» ma anche l’immaginario di chiunque quel 30 ottobre 1974 abbia assistito in diretta al Match del Secolo o abbia visto in seguito Quando eravamo re, il film documentario di Leon Gast uscito nel 1996 dopo ben 22 anni di gestazione su quella notte indimenticabile.

Alle quattro di notte

Sì, perché fu alle 4 di notte, in ossequio alle esigenze delle televisioni collegate innanzitutto con gli Stati Uniti e poi col resto del Pianeta, che su quel ring salirono George Foreman e Muhammad Ali. Foreman aveva 25 anni ed era il campione del mondo in carica dei pesi massimi. Ali di anni ne aveva 32 e quel titolo che gli era appartenuto lo voleva indietro. Un’impresa riuscita solo a Floyd Patterson, prima di allora. E giudicata quasi impossibile dai bookmaker, che davano per scontata la vittoria di Foreman, e dalla maggior parte dei commentatori: non solo perché Foreman, un’autentica macchina da guerra degna di un Achille dall’ira funesta, aveva sette anni in meno dello sfidante ed era all’apice della carriera pugilistica, ma anche per una malcelata insofferenza nei confronti di quel negro che non sapeva stare al suo posto, e che dopo essersi rifiutato di partire soldato per la guerra del Vietnam si era convertito all’islam rifiutandosi di portare ancora il nome da discendente di una stirpe di schiavi che si era ritrovato alla nascita in quel di Louisville, ovvero Cassius Clay. 

«A certi non piaccio perché sono un uomo nero che si batte per la sua gente», aveva detto dopo aver conquistato per la prima volta il titolo mondiale battendo Sonny Liston a Miami. Era il 25 febbraio 1964, e il giorno dopo Cassius Clay aveva cambiato nome e fede religiosa. La decisione di non partire per il Vietnam gli era costata nel 1967 la revoca del titolo e l’arresto, nonché la radiazione dall’albo pugilistico, a cui era stato riammesso solo nel 1970. «Non sono andato in Vietnam perché credo che ognuno abbia il diritto di vivere in pace a casa sua. Non vedo perché anche uno solo dei neri americani privati della loro terra avrebbe dovuto andare a combattere contro chi stava tentando di difendere la propria terra».

Tutto lo stadio dalla sua parte

Ma dopo il ritorno sul ring Ali aveva perso al Madison Square Garden contro Joe Frazier e poi anche contro Ken Norton, due sconfitte che erano sembrate ai più l’inizio del suo viale del tramonto. E la maggior parte degli scommettitori, americani e non, quella notte puntò su Foreman, soprannominato Big George per le sue doti di picchiatore, ma anche Zio Tom dopo che alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 aveva sventolato sul podio una bandierina americana, gesto che alla popolazione nera degli Stati Uniti era parso una chiara presa di distanza rispetto alla protesta degli sprinter Tommie Smith e John Carlos, passati alla storia per aver alzato il pugno chiuso delle Black Panthers al momento della loro premiazione.

Fu così che il match di Kinshasa si attirò l’attenzione del mondo mesi prima che venisse disputato: ma non solo perché avrebbe potuto sancire la definitiva uscita di scena di Ali o per le questioni politiche che dividevano i due pugili afroamericani. Don King, alla sua prima esperienza in veste di organizzatore di un incontro di boxe, aveva fatto firmare ai due un contratto che prevedeva una borsa di 5 milioni di dollari. Soldi che lui non aveva, e che lo avevano costretto a cercarsi uno sponsor importante. Mobutu, ansioso di fare pubblicità a sé stesso e al suo Zaire, si era rivelato il partner ideale.

Così, durante quell’estate del 1974 in cui la Germania Ovest di Beckenbauer aveva vinto il suo secondo titolo mondiale battendo l’Olanda di Cruijff, Ali e Foreman si erano allenati duramente per mesi nel Paese africano, in modo da abituarsi al clima tropicale. E tra una corsa sotto il sole e una scarica di pugni al sacco Ali non aveva mancato di lanciare continue provocazioni all’avversario, riuscendo a portare dalla sua la popolazione locale. Quando i due, alle quattro di quella notte, salirono sul ring, la folla presente allo stadio Tata Raphäel urlava «Ali Bomaye!». «Significa “Ali uccidilo”», spiegò agli americani il commentatore Bob Sheridan, The Voice of Boxing. 

Pugni micidiali

Muhammad Ali iniziò il match inaspettatamente, attaccando Foreman, che però superato il disorientamento iniziale già alla fine del primo round cominciò a picchiare duro com’era nel suo stile. Ali comprese che se avesse tentato di rispondere colpo su colpo, il giovane avversario lo avrebbe sfiancato. Allora, a partire dal secondo round, cambiò completamente tattica: si appoggiò alle corde del ring, e senza quasi opporre una qualche difesa prese a subire passivamente i pugni micidiali dell’altro. Superò in questo modo anche il terzo round, quello in cui fino a quell’incontro nessuno in precedenza era riuscito a non farsi mettere ko da Foreman. E continuò a incassare in una drammatica dimostrazione di stoicismo per il resto del match, oltretutto beffandosi del campione del mondo in carica: «Ehi, mi avevano detto che sapevi picchiare più forte».

Mai nessuno così

Foreman, esasperato dalla resistenza dell’avversario e dalle sue provocazioni, continuò a picchiare con furia ancora maggiore. Ma così facendo, ripresa dopo ripresa, poco per volta si stancò al punto da non essere capace di parare i colpi che Ali aveva ripreso a sferrargli, colpendolo prima sul collo, dopo essersi appoggiato a lui, e poi sul volto. Al quinto round Foreman sembrò incerto sulle gambe. Al sesto, in quel caldo tropicale, era ormai stanchissimo. Fu all’ottavo round che Alí si staccò dalle corde per colpire Foreman prima con un gancio sinistro e poi con un diretto al viso. Per un lunghissimo istante Foreman si immobilizzò. Quindi barcollò attraverso il ring e si schiantò sul tappeto. 

Nessuno prima di quella notte che nel frattempo era diventata mattina aveva esibito una tale capacità di resistenza in un incontro di boxe, e una simile abilità strategica. Muhammad Ali, colui che sapeva danzare sul ring come una farfalla, aveva incassato centinaia di colpi alle reni e alla testa senza dare alcun segno di cedimento. Quando nel 1997 ricevette l’Oscar per When We Were Kings, ormai vittima del morbo di Parkinson, fu proprio Foreman ad aiutarlo a salire sul palco hollywoodiano. «L’ho odiato per una vita, ma poi ho capito che quella notte fu lui il più grande», ammise Big George.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Giuseppe Culicchia

lunedì 23 luglio 2018

Il Tempo della Settimana

Cuneo

il tempo della Settimana


Erano questi giorni in cui iniziava la «Canicola», il tradizionale periodo più caldo dell’anno. Le ultime tempeste atlantiche si erano ormai infrante al di là o al di qua delle Alpi e l’intero Nord-Ovest poteva aprire così le porte all’Anticiclone che, salvo imprevisti avrebbe poi dominato per un mese intero. 

Regolare come il calendario astronomico questa mattina la stella Sirio (il «Canis» degli Antichi) è sorta insieme al Sole e sembra promettere, come da tradizione, la ripresa del caldo. È prevista quindi la rimonta dell’alta pressione, finora latitante o fatta arretrare, come tra venerdì-sabato e ieri, dall’ennesima «tempesta» Nordatlantica che nelle basse Langhe cuneesi ha portato temporali da 70 millimetri d’acqua in poco più di un’ora. 

Trascorsi nella notte gli ultimi rovesci in particolare sul Piemonte meridionale il sereno riprende gradualmente quota, riservando però sempre spazio a nuvole pomeridiane e serali, nella giornata di domani, sulle zone premontane settentrionali. 

Eclisse totale di luna

Questo alternarsi di spazi sereni e annuvolamenti pomeridiani o serali sarà ancora la cifra meteorologica dell’intera settimana, con però temperature massime più alte, che supereranno anche i 30 gradi, e un indebolirsi della foga temporalesca. Nuvole e piogge potranno tornare soprattutto nel pomeriggio di venerdì per poi, si prevede, lasciare osservare l’eclisse totale di Luna. Si tratta della più lunga di questo secolo, che sarà visibile per più di un’ora e mezza a partire dalle 21,30 fino ad oltre le 23. Bel tempo è previsto nelle giornata di sabato e domenica.

romano.fulvio@libero.it

fulvio romano

sabato 21 luglio 2018

82% Gli italiani che non riconoscono una fake news

LA STAMPA

Cultura

Il numero del giorno 

82% 

Gli italiani che non riconoscono una fake news

Per fortuna questa notizia esce su carta, perché se fosse pubblicata sul web, otto italiani su dieci non riuscirebbero a capire se si tratta di una bufala. Non è una provocazione luddista, ma il risultato allarmante del rapporto «Infosfera» presentato ieri dall’Università Suor Orsola Benincasa. L’87% degli italiani non pensa che su Facebook o Twitter si possano apprendere notizie credibili, anche se crede che l’informazione negli altri luoghi della Rete sia professionale e attendibile. Se l’82% non riconosce una bufala sul web, il 77,30% del campione rappresentativo intervistato non se ne fa un cruccio: per loro le fake news non indeboliscono la democrazia. Anzi, è cambiato proprio il paradigma: per il 96,61% il sistema di informazione non è la dimostrazione che la democrazia italiana è in salute. Tradotto: gli italiani non pensano più che i giornali debbano essere il cane da guardia della democrazia, basta la Rete a garantire la libertà. Almeno fino a quando non ci sarà chi chiuderà i loro account. Speriamo che in quel momento sia rimasto qualcuno a fare la guardia. 

andrea fioravanti

Spagna, la donna forte e il giovane rampante

LA STAMPA

Esteri


sfida nel Pp per cancellare le ombre di Rajoy

Casado favorito sulla ex vicepremier Sáenz de Santamaría: il congresso dei popolari sceglie il presidente

Dalla sua nuova scrivania nell’ufficio del catasto Mariano Rajoy ha guardato con rabbia il suo Partito Popolare dividersi: «Ma che fanno, litigano in pubblico?». La colpa della rottura di questo tabù, in realtà, è sua: due mesi fa se n’è andato, tornando alla vecchia occupazione, senza nominare un successore. Così, il Pp spagnolo si è visto costretto ad aprirsi ai meccanismi democratici finora sconosciuti: le primarie. 

A chi toccherà subentrare a Mariano lo si scoprirà oggi pomeriggio, al congresso di Madrid si arriva dopo la votazione interna degli iscritti (pochi, solo 8.000), adesso tocca ai 3 mila delegati. I contendenti sono due e la partita è serratissima, da una parte c’è Soraya Sáenz de Santamaría, la vicepresidente del governo Rajoy, leggermente in testa nelle primarie di due settimane fa e dall’altra Pablo Casado, volto giovane e più radicale, che strizza l’occhio (senza dirlo) ai movimenti populisti europei, che in Spagna finora non hanno fatto alcuna breccia. La partita è complessa, la distanza tra i due è ristretta e in pochi si azzardano a pronostici, anche se i più coraggiosi puntano qualche euro su Casado, che ha stretto alleanze pesanti con i colonnelli del partito.

La sfida è importante, non soltanto per il futuro della destra spagnola, ma anche per il Paese: chi vince oggi, infatti, sarà con tutta probabilità il candidato presidente del governo alle prossime elezioni, previste, al più tardi, per la primavera del 2020.

La perdita del governo, patita da Rajoy dopo una mozione di censura del parlamento che ha consegnato il potere al socialista Pedro Sánchez, è stato uno choc. I popolari hanno vissuto questo ribaltone (perfettamente costituzionale) come un’usurpazione e hanno sete di rivincita. Ma come un fantasma nel congresso di Madrid la convitata di pietra è la corruzione, vera causa della caduta del governo. La sentenza sul caso Gurtel, una rete di appalti assegnati a imprese amiche in cambio di ricompense a tutti i livelli, ha coinvolto il partito, condannato per aver partecipato «a titolo lucrativo» alle vicende. 

Dopo il ritorno a vita privata, Mariano Rajoy è tornato sulla scena con un discorso d’addio ad alto tasso emotivo, con parole di orgoglio del ruolo della politica («criticata da quelli che mai hanno alzato un dito per gli altri»), senza trionfalismi, ma rivendicando il pragmatismo «della moderazione». 

Ma Rajoy ha tenuto a tenere lontano l’ombra sulla sua immagine più che sfiorata dalla sentenza Gurtel: «L’esercizio della politica a volte può essere amaro e ingiusto». Coerentemente con il suo proposito iniziale, non ha voluto dare indicazioni di voto, ma è noto che l’ex premier sia seccato che il suo auspicio, «non litigate», non sia stato seguito. Il principale accusato della rottura dell’unità popolare è proprio Casado, che cercando di interpretare un voto di cambiamento ha finito per criticare l’operato dei sei anni di governo del Pp e quindi Rajoy stesso. 

Nella sfida tra Sáenz de Santamaría e Casado si confrontano mondi distanti e non solo per generazioni: lei avvocato dello Stato, con una certa popolarità in quelli che si potrebbero chiamare i poteri forti, porterebbe avanti una linea moderata, «siamo di centrodestra», ripete scandendo la parola «centro». Termine che invece scompare nei discorsi di Casado, giovane anagraficamente (classe 1981), ma legato alla vecchia guardia del partito, primo fra tutti l’ex premier José Maria Aznar attualmente al margine del Pp, ma pronto a tornare in sella.

Le proposte più dure

Le differenze sono emerse in questi giorni di campagna, Soraya aperta ai diritti civili, Pablo difensore della «famiglia tradizionale». Unanimità nel mostrare la faccia cattiva con gli indipendentisti catalani. Ma Casado è andato al di là: «Dobbiamo mettere fuorilegge i partiti che vogliono rompere la Spagna». Retorica dura, da opporre alla distensione socialista. 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

francesco olivo

venerdì 20 luglio 2018

Zuckerberg choc “Non cancellerò post che negano l’Olocausto”

LA STAMPA

Italia

WASHINGTON

STATI UNITI

Zuckerberg choc

“Non cancellerò

post che negano

l’Olocausto” 

Mark Zuckeberg di nuovo nella bufera, stavolta per l’Olocausto. Il fondatore di Facebook ha detto che non intende cancellare dal suo social network i negatori della strage degli ebrei, perché anche se non comprendono bene cosa sia successo, non lo fanno intenzionalmente. Con questo, oltre a provocare critiche per il tema scelto allo scopo di spiegare la sua posizione, ha dimostrato anche la leggerezza con cui Facebook considera il problema delle fake news e delle informazioni false, diffuse allo scopo di dividere e provocare reazioni sbagliate.

L’incidente è nato da un’intervista col sito Recode, durante la quale Kara Swisher gli ha chiesto perché il suo social network non bandisce utenti come InfoWars, che ha sempre negato la strage dei bambini avvenuta nella scuola di Sandy Hook, perché la considerava un trucco usato per spingere la gente a chiedere di limitare la vendita di armi. «Io - è stata la risposta di Zuckerberg - sono ebreo, e ci sono persone che negano che l’Olocausto sia avvenuto. Trovo queste posizioni profondamente offensive. Ma alla fine dei conti, non credo che la nostra piattaforma dovrebbe cancellarle, perché ritengo ci siano cose che persone differenti posso prendere in maniera sbagliata. Io non penso che sbaglino in maniera intenzionale. Tutti sbagliano qualcosa, e se eliminassimo gli account quando qualcuno capisce male alcune cose, diventerebbe un mondo difficile dove dare una voce alla gente e sostenere che ci tieni». La polemica è scoppiata immediatamente, ed è diventata così intensa che il giorno dopo Zuckerberg è stato costretto a pubblicare una rettifica: «Io personalmente trovo le negazioni dell’Olocausto profondamente offensive, e assolutamente non intendevo difendere le intenzioni delle persone che lo negano».

Il punto però non è questo. È ovvio che Mark ha sbagliato, perché in genere chi nega l’Olocausto non lo fa commettendo un errore in buona fede, ma con la precisa volontà di cancellare quella tragedia per ragioni politiche o razziali. Il problema più generale è che Zuckerberg non riesce ad accettare la responsabilità di Facebook per le opinioni a cui offre una piattaforma, come dovrebbe fare ad esempio un giornale. Non riconosce di essere un editore, ma si considera solo uno strumento. E fino a quando non cambierà questa opinione, con le relative iniziative da prendere per garantire l’appropriatezza dei contenuti pubblicati, i suoi guai continueranno. 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

PAOLO MASTROLILLI


mercoledì 18 luglio 2018

Quella passione contrastata di Trump per Putin...

LA STAMPA

Esteri

Russiagate, Trump

fa marcia indietro

“Mosca ha interferito

nelle presidenziali”

Attaccato per la sua difesa di Putin a Helsinki: 

“Accetto le conclusioni della nostra Intelligence”

Investito dalle critiche arrivate anche dai suoi più stretti alleati a causa dell’atteggiamento compiacente mostrato nei confronti di Vladimir Putin, Donald Trump fa marcia indietro. Il presidente Usa ha dichiarato di «accettare» le conclusioni delle agenzie di intelligence Usa sulle interferenze russe nelle elezioni, di avere «piena fiducia» e offrire il massimo «sostegno alla grande intelligence americana». Il presidente, in una dichiarazione dalla Casa Bianca ha detto di voler «fare una precisazione» e si appella a un errore di pronuncia durante la conferenza stampa a Helsinki». Trump ha comunque ribadito che queste interferenze «non hanno avuto alcun impatto», che «non c’è stata nessuna collusione» con la sua campagna elettorale. 

In ogni caso restano i veleni. Ieri è emerso che i consiglieri gli avevano consegnato un dossier di circa cento pagine, per contrastare Putin sugli attacchi digitali lanciati allo scopo di interferire con le elezioni americane. 

Il dossier dello scandalo

Trump però lo ha ignorato, decidendo all’ultimo minuto di impostare la strategia del vertice di Helsinki sulla compiacenza con il leader del Cremlino. La rivelazione del «Washington Post» ha versato benzina sulle polemiche già infuocate riguardo alla condotta di Donald con Vladimir, che stavolta ha provocato dure critiche dagli stessi compagni di partito. Oltre al direttore nazionale dell’intelligence Coats, che ha difeso l’Fbi e le altre agenzie, ribadendo che Mosca ha interferito con le elezioni, anche i due leader di Camera e Senato, Ryan e McConnell, hanno preso le distanze sottolineando che la Russia non è amica degli Usa. Anche se poi, nel primo voto al Congresso dopo il vertice, i repubblicani hanno respinto la mozione dei democratici che condannava le frasi di Trump. In ogni caso, il consigliere Bolton sarebbe in imbarazzo, e il capo di gabinetto Kelly in via d’uscita. 

Collusione e interferenze

Al di là della retromarcia di ieri sera, le critiche a Trump riguardano due aspetti: primo, le interferenze elettorali; secondo, la sua strategia geopolitica. Sul primo punto è ovvio che il presidente voglia demolire il Russiagate, perché l’inchiesta potrebbe abbatterlo, se dimostrasse la collusione tra la sua campagna e Mosca, o portasse alla luce interessi inconfessabili che spingono Donald tra le braccia di Vladimir. Il problema però è che Trump non riesce a distinguere tra la collusione e le interferenze. È possibile, in altre parole, che il Cremlino abbia attaccato il processo elettorale americano per aiutarlo, senza che lui lo sapesse. 

Demolire l’ordine

Il secondo problema è la strategia geopolitica del presidente, che il giornale amico «Wall Street Journal» ha criticato in un editoriale, definendola «Trump First Doctrine», ossia la dottrina che mette Trump al primo posto, invece dell’America. Il viaggio europeo ha dimostrato che il capo della Casa Bianca intende demolire l’ordine mondiale degli ultimi 70 anni, costruito dagli Usa a loro beneficio. Lo dimostrano gli attacchi al G7 e alla Ue, e lo scetticismo verso l’Alleanza Atlantica: «Ho avuto un buon incontro alla Nato - ha twittato ieri -, ma è stato migliore quello con Putin». Ciò avviene per almeno tre motivi. Primo, il presidente ha un’insofferenza personale nei confronti degli organismi multilaterali. Secondo, la dottrina «America First» si basa soprattutto sul successo economico, anche a scapito delle alleanze tradizionali. Terzo, Trump predilige un nuovo ordine globale basato sui rapporti con gli uomini forti tipo Putin e Xi, piuttosto che perdere tempo con le pastoie democratiche dei Paesi europei e della Ue. 

Questa visione, ammesso che venga articolata organicamente dal capo della Casa Bianca, non convince diversi repubblicani, che iniziano ad opporsi. 

quBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

paolo mastrolilli

martedì 17 luglio 2018

Ed ora... l’occupazione della Rai ( il regime scalda i cingoli)

LA STAMPA

Italia

Rai, l’editto dei 5 Stelle:

esclusi Santoro e Minoli

Voto online sul cda: nella cinquina l’inviata del Tg1 che seguiva i grillini

Nelle riunioni del M5S in cui si è arrivati a scegliere la cinquina per il Cda Rai che oggi andrà al voto sulla piattaforma Rousseau, due nomi sono stati particolarmente al centro dell’attenzione, soprattutto nella prima fase. I grandi esclusi: Michele Santoro e Giovanni Minoli. I due giornalisti, un pezzo della storia televisiva e della Rai, sono stati liquidati quasi subito dal M5S. Il motivo? Lo spiega così una fonte che ha partecipato al comitato nomine dei grillini: «Perché avrebbero fatto i fenomeni, facendo tutto di testa loro». Invece nel post di ieri sul blog è scritto chiaramente che «sono stati individuati profili pronti a impegnarsi nella realizzazione della nostra visione di tv pubblica». 

Con la nuova legge, sui sette membri del Cda, quattro sono scelti da Camera e Senato. Due spettano al governo (il Tesoro). Uno è di nomina interna Rai. A diverso titolo hanno partecipato alla selezione la deputata Mirella Liuzzi, già firmataria della proposta di legge di Roberto Fico, il deputato Stefano Buffagni, il ministro Luigi Di Maio che ha tenuto per sé la delega alle Telecomunicazioni, l’ex giornalista tv, oggi senatore, Gianluigi Paragone, membro della Vigilanza, mentre si è tenuto informato il portavoce del premier, grande conoscitore dei meccanismi televisivi, Rocco Casalino. 

Troppo strutturati, troppo autonomi, secondo i 5 Stelle, sia Minoli sia Santoro. Si potranno giocare le loro chance in Parlamento ma è difficile che soprattutto Santoro la spunterà, perché Lega e M5S hanno intenzione di spartirsi tre poltrone, di lasciare un posto a Forza Italia e nulla al Pd. «Se pensi a Netflix non puoi puntare su Santoro. Lui è il campione di un modello tradizionale di tv. Sarebbe stato un ottimo direttore di rete qualche anno fa» spiega Paragone.

Ma il veto su Santoro è frutto di un rapporto che non è mai stato semplice tra i grillini e il conduttore. Tanta ammirazione ma anche grandi litigate. Santoro, che due anni fa arrivò a definire il M5S «destra pura», ha dedicato diversi editoriali critici ai grillini e ha sempre rifiutato di rispettare le condizioni poste su domande e ospiti per avere i big nel suo talk. I 5 prescelti invece sono un docente universitario, un producer, una manager che ha lavorato per una società di produzione tv, la Freemantle, che è stata tra i principali fornitori Rai. Ma c’è anche Paolo Favale, avvocato ex dirigente Rai, che si è appena visto riconoscere come illegittimo dalla Cassazione il suo licenziamento per motivi sindacali. Infine l’ha spuntata Claudia Mazzola, l’inviata del Tg1 che, fonte Wikipedia «segue fin dagli esordi il M5S, diventando uno dei maggiori esperti italiani del fenomeno grillino». Nel 2014 il blog l’apostrofò brutalmente, accusandola di «servizietti». Negli anni però i grillini hanno imparato ad apprezzarla e lei si è conquistata la stima dei vertici. Per il Pd, che parla per bocca di Michele Anzaldi, è « il trionfo del conflitto di interessi, l’apoteosi della lottizzazione»

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

ilario lombardo

lunedì 16 luglio 2018

Non è un post-fascismo. È un protofascismo...

Leggete questo articolo di Fintan O’Toole pubblicato ieri sul The Irish Times e tradotto da Alex Brunori. 



Ho tradotto l'articolo di Fintan O'Toole pubblicato ieri sul The Irish Times. Cosa sono dieci minuti del mio tempo di fronte all'importanza della comprensione di questo momento storico?

https://www.irishtimes.com/opinion/fintan-o-toole-trial-runs-for-fascism-are-in-full-flow-1.3543375?mode=amp

"Per capire cosa sta succedendo nel mondo in questo momento, dobbiamo riflettere su due cose. Una è che siamo in una fase di test. L'altra è che ciò che viene testato è il fascismo - una parola che dovrebbe essere usata con attenzione, ma dalla quale non bisogna sfuggire quando è così chiaramente all'orizzonte. Dimenticate il "post-fascismo” - quello che stiamo vivendo è il proto-fascismo.

È facile liquidare Donald Trump come un ignorante, non da ultimo perché lo è. Ma di una cosa ha una comprensione acuta: i test di marketing. Si è creato nelle pagine dei pettegolezzi dei tabloid di New York, dove la celebrità viene prodotta con storie oltraggiose che in seguito puoi confermare o negare, a seconda di come reagisce la gente. E si è ricreato nella realtà TV, in cui le trame possono essere regolate in base alle valutazioni. Dì qualcosa sui media, nega di averlo detto, cambialo un po’, ripeti.

Il fascismo non sorge improvvisamente, in una democrazia. Non è facile convincere la gente a rinunciare alle proprie idee di libertà e civiltà. Bisogna fare delle prove che, se ben fatte, servono a due scopi. Fanno abituare la gente a qualcosa da cui potrebbe inizialmente rifuggire; e permettono di perfezionare e calibrare. Questo è ciò che sta accadendo ora e saremmo dei pazzi a non volerlo vedere.

Uno degli strumenti fondamentali del fascismo sono i brogli elettorali - li abbiamo visti all’opera nelle elezioni di Trump, nel referendum sulla Brexit e (con meno successo) nelle elezioni presidenziali francesi. Un altro è la costruzione di identità tribali, la divisione della società in polarità reciprocamente esclusive.

Il fascismo non ha bisogno di una maggioranza - di solito arriva al potere con circa il 40% di supporto e poi usa il controllo e l'intimidazione per consolidare quel potere. Quindi non importa se la maggior parte della gente ti odia, a patto che il 40% ti supporti in modo fanatico. Anche questo è già stato sperimentato.

E naturalmente il fascismo ha bisogno di una macchina di propaganda così efficace da creare, per i suoi seguaci, un universo di "fatti alternativi", impenetrabili alle realtà indesiderate. Ancora una volta, i test per questa tecnica sono in fase avanzata.

Quando hai fatto tutto questo, c'è ancora un passo successivo cruciale, di solito il più difficile di tutti. Devi indebolire i confini morali, portare le persone all'accettazione di atti di estrema crudeltà. Come i segugi, le persone devono annusare il sangue. Gli si deve istillare il ​​gusto per la ferocia.

Il fascismo fa questo costruendo un senso di minaccia, che si fa provenire da un gruppo esterno, meglio se già disprezzato. Ciò consente ai membri di quel gruppo di essere disumanizzati. Una volta raggiunto questo obiettivo, puoi gradualmente alzare la posta, passando per tutti gli stadi, dalla rottura delle finestre fino allo sterminio.

È questo prossimo passo che viene testato oggi sul mercato. Viene fatto in Italia dal leader di estrema destra e ministro per l'interno Matteo Salvini. Come la prenderebbe la gente se respingessimo le barche dei rifugiati? Diciamo che vogliamo registrare tutti i Rom e vediamo quali pulsante preme il pubblico. Ed è stato testato da Trump: vediamo come reagiscono i miei fan ai bambini che piangono nelle gabbie. Vediamo come reagirà Rupert Murdoch.

Vedere, come hanno fatto la maggior parte dei commentatori, la traumatizzazione deliberata dei bambini messicani come "errore" da parte di Trump è un'ingenuità colpevole. È un periodo di prova - e la sperimentazione è stata un enorme successo. La scorsa settimana Trump ha affermato che gli immigrati "infestano" gli Stati Uniti: è un test di marketing per vedere se i suoi fan sono pronti per il prossimo passo nel linguaggio, che è ovviamente "parassiti".

E la diffusione di immagini di bambini piccoli trascinati via dai loro genitori è una prova per vedere se queste parole possono essere sopportate anche come suoni e immagini. È stato un esperimento - è finito (ma solo in parte) perché i risultati sono stati ottenuti.

E i risultati sono abbastanza soddisfacenti. Ci sono buone notizie su due fronti. In primo luogo, Rupert Murdoch ne è felice: i suoi commentatori di Fox News si sono superati in crudeltà barbariche: facendo rumori animali alla menzione di un figlio con la sindrome di Down, descrivendo i bambini che piangevano come attori. Non si sono fermati di fronte a nessuna bassezza, anche i bambini di colore migranti sono bugiardi. Quei singhiozzi di angoscia sono tipici del comportamento manipolativo degli estranei che arrivano da noi per infestarci - non dovremmo forse temere una razza della quale persino i bambini possono essere così subdoli?

Secondo, ai fan più accaniti il test è piaciuto da morire: il 58% dei repubblicani è a favore di questa brutalità. I punteggi di approvazione complessivi di Trump sono saliti ormai fino al 42,5%.

Questo è molto incoraggiante per l'agenda proto-fascista. Il processo di emarginazione del mondo democratico è iniziato. I muscoli di cui le macchine della propaganda hanno bisogno per difendere l'indifendibile vengono flessi. Milioni e milioni di europei e americani stanno imparando a pensare l'impensabile.

E se quei migranti fossero annegati nel mare? Che cosa succede se quei bambini rimangano traumatizzati per tutta la vita? Hanno già, nella loro mente, varcato i confini della moralità. Sono, come Macbeth, “yet but young in deed“. I test andranno avanti, i risultati analizzati, i metodi perfezionati, i messaggi affinati. E poi verranno le azioni.

Proteggiamo la nostra libertà con tutto il potere delle nostre democrazie e continuiamo ad essere coraggiosi, per tutto ciò che dovremo affrontare ".

Il melting pot sconfigge i nazionalisti

LA STAMPA

Cultura

il messaggio oltre il campo


Gianni Riotta

Mai mischiare, come apprendisti stregoni, sport e politica, si finisce sempre in fuorigioco. La Federazione americana squalificò, nel 1968, gli atleti neri Smith e Carlos, che salutarono la medaglia olimpica in Messico protestando per i diritti civili, e i due divennero eroi per una generazione. Il Cremlino ordinò ai pallanotisti sovietici, alle Olimpiadi di Melbourne, 1956, di pestare gli ungheresi, e quella piscina rossa di sangue, dopo la repressione della rivolta democratica di Budapest, fece il giro del mondo

A Mosca ieri tutto era allestito perché l’internazionale populista, nazionalista, filorussa, mobilitata dai suoi poderosi siti online, festeggiasse il presidente Vladimir Putin, con il vicepresidente del Consiglio italiano Matteo Salvini, il premier ungherese di destra Viktor Orban, scommettendo con discrezione sulla vittoria della squadra croata, nazione cattolica, senza islamici o emigranti. Di fronte, la Francia multietnica del presidente Macron, che ha vinto a sorpresa le elezioni giusto battendo populisti di destra, Le Pen, e sinistra, Melenchon, cittadini europei di origine africana.

Ma quando Putin ha dovuto consegnare coppa e medaglie, sotto un diluvio formidabile ed improvviso che ha fatto la doccia ai leader, mentre lo staff cercava invano un ombrello, la sceneggiatura politica s’è stazzonata peggio dei blazer blu. La squadra francese ha mostrato a miliardi di persone un’Europa aperta, libera, che sa mantenere le tradizioni - i giocatori francesi cantavano a squarciagola la Marsigliese, con la passione di vecchi soldati - ed accettare nuove culture e generazioni. Del resto il tentativo, condotto con abilità da gruppi di pressione organizzati online, di reclutare la Croazia nella Legione Sovranista era maldestro, se il giocatore premiato come migliore, Modric, ha papà serbo, e viene per questo contestato dagli ultras, fedeli alla fede fascista ustascia. La Russia ha schierato un brasiliano di nascita, la Svizzera kosovari, tanti Paesi hanno mandato in campo multinazionali del pallone, secondo le frenetiche derive del nostro secolo, capace di dividere e integrare.

Così ieri a Mosca, dopo un’avvincente finale, davanti a Putin che oggi vedrà un altro leader contrario all’immigrazione, Donald Trump, al vertice di Helsinki, un Macron in versione per una volta gioiosa e i Bleus di tanti colori han fatto festa. E l’illusione, antica e feroce, di un’Europa bianca, cristiana, ostile, barricata in un castello medievale di pregiudizi e bugie, sembrava dissolversi almeno per una notte, tra pioggia, gol, abbracci fraterni.

Facebook riotta.it

domenica 15 luglio 2018

“Con un uomo solo al comando si violano le regole dello Stato”

LA STAMPA

Italia

UGO DE SIERVO Il presidente emerito della Consulta sul vicepremier

“Preoccupante l’assenza di collegialità fra ministri nelle scelte cruciali”

“Con un uomo solo al comando

si violano le regole dello Stato”

Persino un uomo pacato come il presidente emerito della corte Costituzionale Ugo De Siervo si dice «preoccupato della bulimia politica di Matteo Salvini». 

Lo sconfinamento continuo dei ruoli non porta a un rischio d’incostituzionalità? «Salvini evidentemente ha una forte personalità che esercita, in quanto ministro agli Interni, in un modo discutibile dal punto di vista della normativa costituzionale e in particolare della legge generale del funzionamento del governo del 1988, che affida competenze esclusive e non rinunziabili al presidente del Consiglio dei ministri». Che talvolta appare esautorato a favore di un sol uomo: Salvini. «È così. Non a caso, dopo la nota e non normale telefonata del Presidente della Repubblica al premier, alcune cose in teoria sembrano essere mutate. Il presidente Conte infatti finora era stato assai riservato…». Che rischio intravede in questo modo di procedere? «Intanto che non vi sia un indirizzo uniforme e sufficientemente autorevole del governo, ma l’assunzione di un potere del tutto improprio da parte di un solo ministro…» C’è il rischio di una deriva autoritaria? «Preferirei non fare ipotesi catastrofiche. Limitiamoci a giudicare vicende certamente preoccupanti che si stanno manifestando sotto gli occhi di tutti. Io mi auguro che tutto ciò non si collochi nella prospettiva di un regime autoritario. Certo è preoccupante vedere la faciloneria con cui si fa a meno di altri ministri e della collegialità del governo. Su scelte come quelle dell’immigrazione sarebbe invece auspicabile il contrario». A quanto pare, questo tipo di politica paga: Salvini risulta primo nei sondaggi. «Che un politico momentaneamente abbia successo non vuol dire che ciò che fa sia compatibile dal punto di vista costituzionale e giuridico». Salvini sembra ignorare una norma fondamentale dello Stato democratico: la separazione dei poteri. «Tra le tante, questa mi sembra la più grave, perché qui davvero, in modo irresponsabile, si teorizza che un ministro degli Interni possa decidere su misure limitative della libertà personale. Far dipendere l’irrogazione di sanzioni restrittive dal Ministro degli Interni è fuori da ogni regola». Tutto, però, gli viene perdonato. Perché? «Forse, cinicamente, le persone aspettano qualche scivolone. Forse non si rendono conto della gravità di ciò che sta accadendo». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

paolo colonnello

sabato 14 luglio 2018

Solo la Romania con meno laureati di noi

LA STAMPA

Cultura

Il numero del giorno

27%

La percentuale dei laureati in Italia

Siamo tra i Paesi in Europa con meno laureati, peggio dell’Italia c’è solo la Romania. Se è vero che abbiamo fatto passi avanti, negli ultimi anni, sul fronte del recupero degli abbandoni scolastici ed è aumentato il numero di coloro che studiano fino alla scuola superiore, è anche vero che la situazione sullo stato dell’istruzione presenta aspetti molto preoccupanti, ancora di più se i numeri vengono paragonati a quelli degli altri Paesi dell’Unione europea. 
Siamo infatti penultimi - seguiti soltanto dalla Romania - per numero di laureati; la quota di coloro che abbandona gli studi (il 14%), dopo essere diminuita per alcuni anni, dal 2008 non registra miglioramenti; la quota dei neet (i giovani che non studiano e non lavorano) resta la più elevata tra i Paesi dell’Unione europea (sono oltre due milioni) e gli immigrati arrivati negli ultimi 9 anni hanno livelli di istruzione assai bassi. Un quadro allarmante fornito dall’Istat nel Report 2017 sui «Livelli di istruzione della popolazione e i ritorni occupazionali».


venerdì 13 luglio 2018

Ottant’anni fa le leggi razziali

LA STAMPA

Cultura

Il fascismo si adegua all’ideologia nazista

Ottant’anni fa le leggi razziali

La svolta con il decalogo anti-ebraico

pubblicato nel ’38 sul giornale di Mussolini

È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». È il 14 luglio del 1938, e sul Giornale d’Italia appare un articolo anonimo intitolato «Il fascismo e il problema della razza», meglio conosciuto come «Manifesto della razza». Il «Manifesto», poi ripreso da tutta la stampa italiana, è un «decalogo» che, al primo punto afferma che «le razze umane esistono». I punti successivi dichiarano che esiste una gerarchia tra le razze (concetto, quest’ultimo, «puramente biologico»), che esiste una «pura razza italiana», e che «è tempo che gli italiani si dichiarino francamente razzisti». Al punto 9 gli ebrei vengono descritti come «non appartenenti alla razza italiana» e si conclude con il decimo e ultimo punto secondo il quale «I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in alcun modo».

Tra i firmatari vi sono alcuni dei migliori scienziati italiani, tra i quali Guido Landra, Nicola Pende e Sabato Visco. Anche se sembra che solo Landra sia stato l’autore del testo, nessuno degli altri firmatari si oppone a questa serie di orrori scientifici. Con il loro prestigio, questi docenti universitari «certificano» una serie di affermazioni che nulla hanno a che vedere con la scienza. 

Scienza opportunistica

È il primo passo degli scienziati italiani in favore del razzismo, voluto da Mussolini per suscitare odio nei confronti di una minoranza e per ottenere consenso attorno a una serie di provvedimenti che, nei mesi e negli anni successivi, escluderanno i cittadini ebrei di religione ebraica dalla società. I motivi che hanno spinto il dittatore a scatenare la campagna antiebraica sono noti: creare un nemico interno contro il quale mobilitare la società, a suo parere ormai troppo «imborghesita», e avvicinarsi ancora di più alla Germania nazista. 

Una politica caratterizzata da uno straordinario cinismo voluta da Mussolini in persona, senza alcuna pressione dall’esterno. Il «Manifesto» ha un effetto molto forte sull’opinione pubblica. Il Regime fascista esprime apertamente per la prima volta la sua vocazione apertamente razzista e, soprattutto, dichiara che una minoranza è un corpo estraneo alla comunità nazionale.

Sconcerto

In un primissimo momento, gli italiani osservano queste leggi con un certo scetticismo. Un forte e radicato sentimento antiebraico in Italia non c’è. La comunità ebraica è piccola, perfettamente inserita nella società e nelle istituzioni. Come tutti, gli ebrei hanno partecipato alle guerre, hanno dato il loro contributo alla società, alla cultura e all’economia italiane, e molti hanno anche aderito al fascismo. Si tratta dunque di una trovata propagandistica che non avrà conseguenze? 

E invece alle parole seguono, con ritmo incalzante, i fatti. In agosto gli ebrei sono costretti a dichiarare la propria «appartenenza razziale», cioè censiti. È una operazione che viene giustificata con la necessità di capire le esatte dimensioni del «problema ebraico», per analizzare «l’influenza» degli ebrei sulla società. È un modo per far capire all’opinione pubblica che gli ebrei sono troppi, e che il loro «potere» deve essere limitato. 

Zelanti esecutori

A settembre segue l’esclusione degli ebrei dalle scuole e dalle università. A novembre le leggi razziali vere e proprie, con la cacciata dagli impieghi pubblici, dalle professioni, dal partito fascista, dall’esercito. Agli ebrei è anche vietato di sposarsi con gli «ariani», come gli italiani stanno scoprendo di essere.

Una serie di leggi, seguite da una propaganda incessante e pervasiva che, passo dopo passo, deve convincere gli italiani che gli ebrei sono una «razza» e che rappresentano un pericolo per la propria società. Le parole dell’odio, mascherate da argomenti razionali e oggettivi convincono una parte, forse neanche piccola, dell’opinione pubblica che è necessario difendersi contro una minoranza diversa, infida e mai realmente leale nei confronti del paese che li ha accolti. Mussolini ha buon gioco nel resuscitare gli antichi pregiudizi della tradizione cattolica, mentre una parte degli italiani è immediatamente pronta ad approfittare dei posti di lavoro lasciati liberi dai perseguitati.

La politica antiebraica iniziata nel 1938 non è senza conseguenze, e non soltanto per le vittime.

Sono molti, troppi gli italiani che, per far carriera, per mettersi in mostra davanti ai gerarchi in camicia nera si dichiarano razzisti, pubblicano articoli antiebraici, rompono i rapporti con amici e colleghi ebrei. Sono tanti, troppi, quelli che fanno il vuoto attorno ai conoscenti e ai vicini di casa ebrei. Ma soprattutto sono tanti, troppi quelli che, durante l’occupazione tedesca, nel 1943-1945, collaborano con i nazisti nella caccia all’ebreo, caccia che si conclude, sempre, ad Auschwitz.

Una politica nata nel 1938, per volontà di un dittatore, apparentemente innocua, apparentemente «giusta» e «necessaria» per «difendere gli italiani», si trasforma, nel corso degli anni, nell’armamentario politico e ideologico che porta allo sterminio.

Amedeo Osti Guerrazzi

Amodio: “È questa la deriva populista



Il penalista: qui non è più il magistrato a dettare la pena, ma sono gli istinti della gente

Amodio: “È questa la deriva populista 

Si rinnega il garantismo del nostro sistema”

Il professor Ennio Amodio, uno dei più importanti penalisti italiani, emerito di procedura penale a Milano e tra gli estensori del codice processuale del 1989, è preoccupatissimo. Al punto di aver deciso di raccogliere in un libro, di prossima pubblicazione, il compendio del credo giustizialista giallo-verde. Che considera una regressione culturale senza precedenti. 

È una deriva giustizialista, professore? «C’è qualcosa di più. Il coacervo di umori, sentori e pretese di cambiamento che esprimono il credo politico del nuovo governo in tema di giustizia penale è qualcosa di diverso da un’ideologia. È un richiamo a intuizioni e sfoghi che scaturiscono dalla paura della criminalità». Una giustizia «istintiva»? «In realtà, siamo di fronte a istinti che mirano a dare delle risposte puramente emotive e s’ispirano sostanzialmente alla pratica della vendetta tribale». La legittima difesa. È davvero una legge prioritaria? «Niente affatto. La legittima difesa è l’emblema della giustizia populista. Si vorrebbe dar vita alla licenza di colpire a morte chiunque osi profanare un domicilio per commettere un furto. Non importa se il ladro stia fuggendo o non abbai armi. È un fai da te punitivo. Tutto ciò non ha evidentemente nulla a che vedere con la giustizia, così come modernamente intesa. La “pena di morte domiciliare” di conio leghista risulta piuttosto apparentata con un altro rimedio punitivo ancestrale: il linciaggio». E poi c’è questa nuovo disegno di legge per la riscrittura del reato di tortura. «È veramente incredibile: si vuole creare uno spazio di immunità alla polizia che usi metodi vessatori, volendo ratificare modalità di comportamento che secondo tutto il movimento garantista internazionale dovrebbero essere invece decisamente stroncate». Pene più dure, scarcerazioni ridotte, manette agli immigrati. Ma verso che Stato stiamo andando? «C’è da pensare che proseguendo su questa strada si arrivi a concepire una giustizia privata, affidata alle mani delle vittime e sottratta a qualsiasi controllo delle autorità. Come se si intendesse regredire a una forma di società nella quale contano soltanto le sofferenze delle vittime e queste debbono tradursi immediatamente in pene applicate in modo arbitrario e frettoloso, nei confronti del primo che venga arrestato dalla polizia». È il sentimento popolare, dicono...«Sì, appunto. Ci si schiera su posizioni che comportano l’erosione dei poteri della magistratura, tanto è il sentimento popolare che detta in che modo deve essere punita una persona. E dunque l’avversione a ogni riduzione delle pene. Deve sempre essere inflitta la massima sofferenza al colpevole e quindi va evitato l’intervento della magistratura.  È lo stravolgimento dei principi del nostro sistema. La deriva populista rinnega la cultura del garantismo su cui è edificato il processo penale moderno. Si può chiedere al presidente Conte di alzare la sua bacchetta di giurista sui dioscuri che lo affiancano per invitarli a rileggere Beccaria o, almeno, le norme della nostra Costituzione che precludono ogni sbandamento verso forme di giustizia a furor di popolo?». p. col. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Londra, Lampedusa

LA STAMPA

Prima Pagina

Londra, Lampedusa

Cari ragazzi, noi ce la siamo spassata. Siamo andati a Londra alla fine degli Anni Ottanta e all’inizio dei Novanta, ed è stato così per noi, e dopo per quelli più giovani di noi, fino a oggi. Si andava a caso, all’avventura. O anche solo per vacanza. Qualcuno restava là. Qualcuno tornava dopo qualche anno, stanco di spillare birre ma arricchito di un inglese che qui gli si è rivelato provvidenziale. Qualcuno non è tornato più: è diventato il direttore del fast food o del negozio di scarpe. Qualcuno ha fatto carriera. Qualcuno studiava la sera e si è messo negli affari o è diventato medico. A Londra ci sono circa 250 mila italiani e tremila sono medici. Oggi si va a Londra e si può girarla da mattina a sera parlando italiano: trovi connazionali ovunque, in farmacia, al ristorante, nei musei, guidano pure i taxi. Londra è un incredibile euforico meticciato, un rimescolamento di sangue e intelligenze, una città in cui nessuno sta con le mani in mano, travolta di energia, cantieri su cantieri, vita giorno e notte. È una città aperta e forse non lo sarà più. Il premier Theresa May ha detto stop. Potranno entrare in Gran Bretagna soltanto i lavoratori specializzati. Chi è senza arte né parte, come eravamo noi, resta fuori. Il sogno di andare là e trovare la strada si spegne. Cala l’ombra su quel tripudio di gente, colori, lingue, su quella enorme medusa che ha risucchiato o creato i migliori cervelli di due o tre generazioni. Ora Londra è una città che, come quasi tutto il mondo ricco, i poveri non li vuole: fanno spavento. Cari ragazzi, noi ce la siamo spassata. Voi riavrete i confini, e saprete chi ringraziare. 



giovedì 12 luglio 2018

Sorgi: l’intesa perfetta dietro il teatrino dei finti screzi

LA STAMPA

Italia

Lega-M5S,

l’intesa perfetta

dietro il teatrino

dei finti screzi 

L’attracco della nave Diciotti con il suo carico di 67 naufraghi di varie nazionalità non ha posto fine alle polemiche tra Salvini e Di Maio sull’immigrazione e su altro. Mentre il premier Conte, nei ritagli di tempo del vertice Nato di Bruxelles, tornava a parlare del problema con Merkel e Macron, i due vicepremier hanno continuato per tutto il giorno a rincorrersi: strano destino per due leader che hanno costruito il loro successo sulle critiche al teatrino della politica, salvo poi metterne su uno quotidiano a uso e consumo dei rispettivi interessi elettorali.

Di Maio ha aggiunto un attacco (assai rischioso per il carattere dell’obiettivo scelto) al ministro Savona, per le sue affermazioni di martedì a proposito dei rischi del sistema euro, mentre Salvini fino a sera insisteva per indurire il trattamento per gli immigrati della Diciotti, sulla quale aveva preteso di far salire anche la polizia, dopo la ribellione di alcuni di loro contro il tentativo di riportarli in Libia. Una messinscena a puro favore di telecamere, come quella che il leader leghista prepara in occasione del prossimo incontro con la sindaca di Roma Raggi per affrontare il problema dei rom nella Capitale.

Ma al di là delle quotidiane iniziative di propaganda i due (non) alleati continuano ad andare perfettamente d’accordo e a risolvere di comune intesa tutte le più spinose questioni aperte sulla strada del governo. Ultime, ma non in ordine di importanza, le implicazioni del «decreto dignità» dopo le critiche di imprenditori grandi e piccoli alle riduzioni di flessibilità sul mercato del lavoro. Venendo incontro alle richieste del collega leghista, Di Maio ieri ha annunciato il ritorno ai voucher in settori più tradizionalmente a occupazione stagionale come il turismo e l’agricoltura. Si tratta, con evidenza, di uno spiraglio destinato ad allargarsi, anche se il ministro dello Sviluppo economico ha raccomandato al Parlamento di trovare il modo di limitare l’uso di questi strumenti. Sarà interessante, a questo punto, vedere quali saranno le reazioni della Cgil, che aveva accolto favorevolmente il «decreto dignità»; ma sui voucher, denunciandone l’abuso, era arrivata a proporre un referendum: evitato in extremis nel 2017 dal governo Gentiloni, modificando la legge destinata a essere abrogata nelle urne.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

marcello sorgi

sabato 7 luglio 2018

Invalsi e invalidi mental-culturali

LA STAMPA

Prima Pagina

Se vi gira la testa

I risultati dei test Invalsi appena pubblicati dimostrano - perdonate la brutalità della sintesi - che la scuola non fa così pena, ma gli italiani sì. Il livello di istruzione dei nostri ragazzi cresce costantemente sebbene rimanga il divario fra top e low perfomer (gergo), cioè fra i bravi e gli asini. E siccome gli asini stanno soprattutto al Sud, sono lampanti le cause sociali e le responsabilità politiche. Nel complesso, secondo i rilevamenti internazionali, gli studenti italiani sono nella media in quanto a comprensione del testo. Il disastro invece sono gli adulti. Analoghi rilevamenti dicono che gli adulti italiani sono penultimi in Europa: uno su quattro afferra soltanto frasi brevi e sette su dieci rimediano giramenti di capo di fronte a brani di ordinaria complessità. Succede perché, finita la scuola, smettiamo di leggere. Per noi i libri sono giusto un divertimento, e nemmeno tanto divertente. Il conseguimento del famoso pezzetto di carta ci esenterebbe dal continuare a studiare, e così non restiamo al passo col mondo. Ora s’è fatto schiamazzo sul sottosegretario alla Cultura, la leghista Lucia Bergonzoni, che ha confessato di non toccare libri da tre anni. Ma anche Paolo Gentiloni ammise che a Palazzo Chigi non c’era tempo nemmeno per sfogliarne, e Giuseppe Laterza gli segnalò che leggere non è un piacere ma un dovere. E se non ce lo mettiamo in testa, continueremo a esibire ministri che non distinguono un congiuntivo da un canguro. E non sono sciccherie, queste. Diceva una brava: «La dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero». 


mercoledì 4 luglio 2018

Gentiloni: M5S e Lega ci sono già costati più di cinque miliardi

LA STAMPA

Italia

L’ex presidente del Consiglio: “Credo che questo sia un governo pericoloso. Non perché 

durerà trent’anni. Anzi, se uno lo dice, è perché teme di non arrivare a dodici mesi”

Gentiloni: M5S e Lega

ci sono già costati

più di cinque miliardi

Hottenuto un piccolo ufficio, tre metri per quattro ricavati dentro un ex convento di suore, a due passi da Montecitorio e proprio dentro questo austero contesto spunta un Paolo Gentiloni tagliente come mai prima d’ora: «Credo che questo sia un governo pericoloso. Non perché durerà 30 anni. Anzi, se uno lo dice, è perché teme di non arrivare a 12 mesi. Ma perché anche in poco tempo si può far male all’Italia in modo consistente, incrinando gli sforzi compiuti negli ultimi anni – da Monti in poi - per risalire la china. Una cosa è certa: non possiamo continuare a dipingere questo governo come una com pagnia di buzzurri e sprovveduti. Credo invece che dobbiamo prendere sul serio la novità che rappresentano».

A sinistra si è detto: il governo più a destra della storia, ora dentro il decreto-dignità qualcuno scopre anche piccole dosi di Cgil… «Se dobbiamo contentarci delle definizioni circolanti, quella di nazional-populista mi pare la più convincente. Questo populismo danneggia l’economia. Fino al mini-decreto dell’altro giorno non era stata presa alcuna decisione economica. Tuttavia se uno facesse il costo economico degli annunci di questi 2-3 mesi, registrerebbe già alcuni significativi danni alla nostra economia, che si possono stimare già in svariati miliardi». Miliardi? «Se il governo fa certe affermazioni sul nostro debito e sulle regole europee e tutto questo raddoppia lo spread - passato da quota 120-130 del 2017 a 230-240 - questo significa l’1 per cento in più rispetto allo stock dei titoli di Stato che dobbiamo vendere quest’anno: un “costo” di circa 5 miliardi e mezzo in più. Se tu dichiari la pace fiscale, facendo riferimento ad un condono al di sotto dei 100mila euro, di fatto collochi una mina molto significativa sotto la cosiddetta rottamazione. Secondo la stima degli addetti ai lavori, con un costo enorme. Se poi aggiungi il rinvio di misure come lo split payment, la fatturazione elettronica, quanto costano questi rinvii? Qualche altro miliardo». Il decreto-dignità si occupa di diritti dei lavoratori. Il Pd non si sente spiazzato?«No, perché partendo da due obiettivi sacrosanti – incentivare le imprese a non delocalizzare, aiutare il lavoro stabile rispetto a quello saltuario – l’effetto è quello di creare ostacoli. Se anziché aiutare le imprese, le ostacoli, il saldo di questa operazione è avere meno lavoro e meno investimenti in Italia. Se un’impresa deve decidere se investire nel Sud, dove i nostri governi hanno creato un insieme di vantaggi straordinari e qualcuno gli dice che questo insieme di opportunità è subordinato nei prossimi cinque anni ad alcune rigidità, all’imprenditore non resta che preparare il suo studio legale… Investire al Sud è una sfida, non c’è la coda. E il rischio? Che te ne vai in Bulgaria, in Albania, in Ungheria…». Con voi sono diminuiti gli sbarchi di migranti in Italia ma alle elezioni il Pd ha preso una batosta, mentre Salvini – senza emergenze ma cavalcando il tema – ha un boom di consensi: che significa? «Il boom? Se dopo un mese non ci fosse un aumento dei consensi, questo sì che sarebbe insolito. Ma Salvini sembra che voglia fare una Lega con i nemici dell’Italia e il primo effetto potrebbe essere quello di “regalare” il Brennero all’Austria. Che non sarebbe il massimo per chi voleva sostituire l’inno di Mameli col “Va’ pensiero”!». Nel Mediterraneo la chiusura dei porti alla lunga non può diventare un deterrente? «Da quella sponda c’è un altro rischio altrettanto serio: da decenni l’Italia è considerato il Paese campione del dialogo. Ma se cominci a prendere a male parole quelli della sponda Nord e della sponda Sud, se diventi un Paese minaccioso, l’eredità che hai conquistato non è per sempre. Un Paese in cerca di guai, può avere dei guai. Rischia di diventare non un Paese più sicuro, ma un Paese a rischio». Davanti a questo governo il Pd sembra avere un lessico stanco e ripetitivo, quasi coltivasse un retropensiero: aspettiamo che si facciano male da soli. La stessa disputa se fare il congresso tra 9 o fra 12 mesi si commenta da sola, o no?«Non vedo cosa ci sia da aspettare. Questo è un governo pericoloso, che non va sottovalutato, la sua tenuta potrebbe rivelarsi più breve di quel che si pensa. Dobbiamo essere pronti. Preparando un’Alleanza per l’alternativa. Con un lavoro che non sarà facile, per mettere assieme forze diverse e numerosissime. Non solo partiti, ma forze civiche, movimenti impegnati per l’ambiente e la legalità. È un Alleanza tutta da costruire». Nel Pd si è fatto avanti il governatore del Lazio Zingaretti: non le pare che sia un ottimo leader da tempi ordinari? Per far rinascere il Pd non servono carisma, visione, struttura? «Se 3 anni fa qualcuno avesse detto: servono due leader carismatici, a nessuno sarebbero venuti in mente Di Maio e Salvini, che - lo dico da appassionato del “genere” - ha fatto un’operazione politica con i fiocchi. Le qualità di chi sceglieremo, le scopriremo, vivendo. Alle Europee 2019 il Pd lotterà per essere il primo partito e potrebbe diventarlo, con significative conseguenze anche sulla politica italiana». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

martedì 3 luglio 2018

Buche e mazzi di fiori

LA STAMPA

Prima Pagina

Un mazzo di fiori

Giovanna, che ha ottantasette anni e vive in periferia a Palermo, l’altro giorno è scesa in strada con strumenti da muratore e ha sistemato una buca. Era lì da mesi, e la signora s’era scocciata d’aspettare e ha provveduto. Siccome a Roma ci sono circa 2 milioni e 800 mila abitanti e altrettante buche, se ognuno di noi facesse come Giovanna domani sera la capitale sarebbe un biliardo. Fra l’altro si rischia anche una multa: qualche anno fa un volenteroso di Foggia riparò una buca e dovette pagare 850 euro al Comune perché sprovvisto dell’autorizzazione a intraprendere lavori pubblici. Potremmo chiedere a Virginia Raggi una specie di sconto comitiva: 500 euro di multa a ogni buca riparata e non se ne parli più. In totale fa quasi un miliardo e mezzo e in un colpo abbiamo sistemato anche il debito comunale. Questa potrebbe essere una possibilità. La seconda possibilità è fare come Beppe Grillo: «Buche? Quali buche? Io non ne vedo». Ogni tanto lui viene a Roma e dice che ci siamo inventati tutto. È successo anche domenica, ha piazzato un altoparlante sul tetto dell’auto e ci ha urlato dentro che di buche zero, neanche una. Se Grillo volesse, ce lo accompagniamo noi a vedere le buche. Si prende una mezza giornata e gliene facciamo vedere sei o settecentomila. Possiamo anche portarlo a vedere le due buche per cui sono cadute dalla moto Elena Aubry e Noemi Carrozza, una a maggio, l’altra un paio di settimane fa, ventisei anni la prima, venti la seconda. Sono morte. Eh, Beppe, ti va? I fiori li portiamo noi.