ebook di Fulvio Romano

giovedì 20 dicembre 2018

Il mondo delle Rose piange David Austin


Riproduciamo qui un’intervista al grande giardiniere scomparso ieri comparsa sul Giornale di Brescia a cura di Elisa Rossi

Dalla rosa «Constance Spry» del 1961 alla «Desdemona» entrata in catalogo quest’anno. Nella contea dello Shropshire, nella regione delle Midlands Occidentali inglesi, ha sede il vivaio diDavid Austin, tra i maggiori esperti di rose inglesi.

Durante la sua attività ne ha create più di 200, ma ogni anno nel suo vivaio vengono prodotti 150mila incroci e vengono spedite in tutto il Mondo 250mila piante. È con uno scambio di e-mail con i suoi collaboratori che riusciamo ad intervistare il fondatore di questa impresa familiare, David CH Austin, oggi affiancato nella gestione dal figlio David JC Austin. La figlia Claire, alla quale il padre ha dedicato una bellissima rosa bianca, invece si occupa di piante perenni, iris e peonie.

Il giardinaggio è una passione di famiglia: come è iniziata? Crescendo in campagna mi sono appassionato alle piante da giovanissimo. Mio padre era amico di James Baker, un vivaista famoso per aver introdotto nuove varietà di perenni come il lupino da fiore Russel. Mi ha affascinato. E così ho iniziato a pensare a quali varietà poter migliorare fino a quando mia sorella Barbara mi regalò «Old Garden roses» di Edward Bunyard e così mi innamorai delle rose. Ordinai alcune rose moderne nelle quali intravedevo due vantaggi: a differenza delle rose antiche fiorivano dall’inizio dell’estate all’autunno e avevano una gamma di colori più ampia compresi il giallo e l’albicocca. È verso i vent’anni che decisi di ibridare rose con lo scopo di combinare il fascino e il profumo delle rose antiche con la rifiorenza delle moderne.

Cosa suggerisce ad un apprendista giardiniere? Ci sono solo due cose importanti da ricordare per coltivare rose con successo: la prima è scegliere una varietà affidabile, sana, profumata e rifiorente come «Olivia Rose Austin», «Desdemona» e «Lady of Shalott»; la seconda è preparare il terreno molto bene, incorporando, prima del trapianto, abbondante materia organica. Il resto è semplice. Basta potare in inverno, concimare in primavera ed estate, innaffiare e togliere le parti morte quando necessario. La potatura rende nervosi molti ma è facile: la regola con le nostre rose inglesi è ridurre i rami di un terzo o due terzi, dipende se vuoi un cespuglio più alto o più largo. Lei suggerisce di coltivare le rose con altre piante, perché? Per me è molto più attrattiva un’aiuola mista fiorita. Le nostre rose sono facili da collocare in una bordura per i colori e il portamento cespuglioso. In più le rose coltivare da sole sono molto più esposte a parassiti e malattie. Meglio associare le rose con le piante azzurre come la salvia «Mainacht» la campanula lactiflora, nepeta «Six hills giant», geranium «Johnson’s blue» e il geranium pratense «Mr. Kendall Clark». Tante le piante da associare come le digitali, viburni, ortensie, cornus, tageti o nasturzi.

Come nasce una rosa? E in quanto viene commercializzata? Quando si ibrida una rosa si guarda alle caratteristiche della pianta madre e padre. Dalla selezione iniziale le piante più interessanti vengono coltivate per otto anni. Solo poche varietà all’anno, dalle tre alle sei, vengono messe in catalogo. Per il nome poi sono ispirato dall’orticultura, dall’arte o dalla campagna. E dalle caratteristiche della rosa. 

Continuo a trovare ispirazione dal mio lavoro. Il mio sogno resta quello di quando ho iniziato: creare la rosa da giardino perfetta, che combini bellezza, profumo, rifiorenza e buona resistenza alle malattie con il fascino e la qualità che ci contraddistingue.

Elisa Rossi

mercoledì 28 novembre 2018

a PROTESTA DIVENTA BOOMERANG ( Panarari)

LA STAMPA

Cultura

la PROTESTA

DIVENTA

BOOMERANG

Massimiliano Panarari

Chi di Iena ferisce, di Iena perisce. Non si tratta di un film di Quentin Tarantino, ma della realtà della cronaca politica di queste giornate – o, forse, dell’iperrealtà che in epoca postmoderna risulta talvolta più reale del reale. E, di sicuro, lo scandalo che sta lambendo Luigi Di Maio, portato alla luce da Le Iene, si sta rivelando una vicenda piuttosto pulp per il vicepremier e ministro del Lavoro alle prese con un padre utilizzatore di lavoro nero nella propria ditta. I suoi numerosissimi sostenitori e follower invocano il principio per cui le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma nella fattispecie appare come una giustificazione «pelosa» e doppio-pesista, visto che il leader pentastellato ha costruito le sue fortune sull’invocazione assolutistica della virtù prepolitica dell’onestà, e ha ampiamente fatto ricorso all’argomento della colpevolezza genitoriale per attaccare il Pd. L’affaire familiare di Di Maio, con il doloroso balletto di «non so», prese di distanza e imbarazzi assume i tratti della nemesi. E conferma quanto il paradigma della neotv rimanga sempre rilevante e significativo in Italia nel dettare l’agenda politica (come aveva illustrato Umberto Eco, i cui scritti sul tema sono raccolti nell’antologia Sulla televisione, La nave di Teseo).

È precisamente una nemesi quella che va ora in scena (e in onda) perché il grillismo si rivela molto debitore dell’ideologia giustizialista, non solo nella sua versione politica – e di partito sponda di «una certa idea della magistratura» – ma anche (e, forse, specialmente) con riferimento alla giustizia fai da te e secondo i canoni della società dello spettacolo. Quella incarnatasi, giustappunto, in una serie di trasmissioni televisive – in primis, Striscia la notizia, Le Iene, e per qualche verso anche Chi l’ha visto? – da cui emerge una sostanziale sfiducia nei confronti della politica tradizionale e di establishment come strumento di risoluzione dei problemi, da sostituire nel nome di una ben maggiore efficacia ed efficienza tramite il piccolo schermo. Programmi di «infotainment 2.0» e «politica pop», come ha scritto lo studioso Gianpietro Mazzoleni – spesso imbevuti di intuizioni e trovate direttamente provenienti dall’armamentario del situazionismo – che si propongono con una funzione di denuncia e di servizio a favore dei cittadini; e che hanno contribuito in maniera potente alla costruzione del discorso pubblico del gentismo e di quel clima di opinione ispirato all’anti-politica di cui, non per caso, ha beneficiato innanzitutto il Movimento 5 Stelle. A partire, beninteso, dall’inoppugnabile dato di fatto di una corruzione praticamente endemica rispetto alla quale il neopopulismo si è presentato proprio come la ricetta utile a operare una bonifica. Ed ecco, così, Beppe Grillo che indossa i panni del «Gabibbo barbuto», e il giustizialismo neotelevisivo che ha fornito quadri dirigenti e frontman da inviare nei talk (come l’ex Iena Dino Giarrusso o l’ex «domatore di leoni» de La Gabbia Gianluigi Paragone). E, soprattutto, format comunicativi che si sono trasformati in «forma politica» e nell’informe e liquidissimo partito-movimento del M5S. E che ora si rivoltano contro i loro finora invincibili apprendisti stregoni, che hanno alimentato (e capitalizzato) la ribellione derivante dal disagio sociale e dal malcontento esistenziale. Un po’ come avvenne nella Rivoluzione francese, che divorò e spedì sulla ghigliottina gli stessi giacobini e montagnardi artefici del Terrore.

L’onda della contestazione, infatti, ha tutta l’aria di non fermarsi, e il cambio di paradigma che stiamo vivendo è esattamente quello dell’ingresso in un’era di neverending protest (la protesta infinita) alla ricerca permanente di nuovi imprenditori politici «contro». A meno di cambiare schema di gioco, e tipologia di offerta politica; ma gli (ex) antisistemici 5 Stelle, che ormai faticano sempre di più a scrollarsi di dosso la percezione di essere diventati anch’essi un pezzo del sistema, non sembrano esserne in grado, né volerlo davvero. 

@MPanarari

giovedì 22 novembre 2018

Il popolo è diventato una fiction

LA STAMPAweb

Cultura

La democrazia diretta e gli altri miti d’oggi nel nuovo libro di Massimiliano Panarari

Il popolo è diventato una fiction

E i populisti fabbricano la neolingua

E dunque, che cosa è attualmente il popolo? Oggi, come nel momento storico della Rivoluzione francese, rappresenta un’astrazione e una fictio (ovvero, se si preferisce, una fiction) di cui si servono la teoria politica e la dottrina giuridica per fondare la categoria di sovranità e la logica di funzionamento delle istituzioni. E, oggi, come allora, costituisce un terreno di battaglia politico (e di distorsioni e manipolazioni) rispetto al quale i neopopulismi hanno individuato il proprio vessillo nel maggioritarismo estremo. Che, nel nome della più nobile e gloriosa delle poste in gioco (la rappresentanza democratica) viene esteso in modo indebito e assolutistico facendo coincidere la volontà della maggioranza – o presuntamente tale, appunto – con quella generale di «tutto un popolo».
Peggio per le minoranze
Se le minoranze non la pensano così, e vogliono restare tali non conformandosi, peggio per loro, perché l’opinione pubblica si esaurisce de facto e in maniera consustanziale in quella della maggioranza. Quindi, zitte e mosca! Ed ecco così che la «totalità» (organicistica) del popolo viene a identificarsi con i propri rappresentanti populisti, che diventano i soli legittimati a parlare in nome e per conto del popolo tutto in quanto (sedicente) «comunità organica». 
E lo fanno, spesso, utilizzando un linguaggio creato ad hoc, perché quando un nuovo regime si insedia istituisce una neolingua, con la finalità di renderla l’idioma unitario del proprio (neo) popolo. Questa, come noto, rappresenta una delle intuizioni più durature di 1984 di George Orwell, la cui validità è stata ampiamente certificata dal marketing politico, dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive, che hanno dimostrato che si può vincere alla grande una campagna elettorale (e mantenere il consenso) proprio cambiando radicalmente i significati del lessico della politica e imponendo un’egemonia linguistico-culturale che obbliga gli avversari a inseguire da una posizione di debolezza e subordinazione. La narrativa populista ha sposato questa forma estrema di soft power (fondamentalmente brevettata a partire, seppure con tonalità diverse, dal reaganismo), che viene miscelata con i precetti dello spin doctoring e veicolata molto efficacemente attraverso i social media. 
Ricostruzione delle parole
Difatti, precisamente una neolingua è quella che viene dispiegata, giorno dopo giorno, dai due populismi postmoderni arrivati al governo dell’Italia, quello nazional-sovranista della Lega e quello camaleontico-postideologico del Movimento 5 Stelle, ambedue dichiaratamente «anti-sistema», e quindi impegnati a edificare – in maniera tra loro competitiva – un altro sistema (semantico), servendosi anche (e meticolosamente) della ricostruzione delle parole e della incessante fabbricazione ex novo dei frame linguistici. 
La neolingua orwelliana si basava sui principi della semplificazione e della limitazione delle alternative – esattamente come avviene nel discorso pubblico populista basato sulla polarizzazione, dove ogni tematica complessa viene sottoposta a un processo di riduzione ai minimi termini e di banalizzazione. E dove ci si deve schierare «con noi, o contro di noi»; una dicotomia obbligata e un manicheismo coatto in cui il «noi» evocato a ogni piè sospinto coincide in maniera alquanto plastica con l’ipostatizzata comunità organicista del popolo. Ragione per la quale chi non supporta le misure dell’esecutivo italiano legastellato – e, più in generale, chi non condivide le ricette populiste – finisce per essere relegato a una condizione di nemico a tutti gli effetti. 
In primo luogo, perché la polarizzazione anche linguistica si tinge di una connotazione moraleggiante, come nel caso della campagna anti-casta per antonomasia, quella riguardante i vitalizi. E come nella formulazione lessicale del «decreto dignità» del vicepresidente del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico, Lavoro e Politiche sociali Luigi Di Maio, la quale rimanda nuovamente a un piano etico e metapolitico che risulta centrale nell’ideologia sottile del populismo. 
La neolingua legastellata, infatti, batte e ribatte sempre sul livello simbolico (e il «muscolarismo»), che per il populismo è assai più rilevante delle politiche concrete. E lo mostrano, in modo inequivocabile, tutti i suoi architravi: le idee forza (la legittima difesa quale «valore non negoziabile» e l’«abolizione della povertà» tramite il cosiddetto reddito di cittadinanza), le ostentazioni di virilità nelle relazioni internazionali (l’Italia che è «stata un po’ prepotente», ma vincente nei confronti dei partner Ue, a detta del premier Conte, con riferimento a uno dei vari summit tenutisi tra Bruxelles e Strasburgo), le frasi ruvide da bar sport elevato da refugium peccatorum dei commenti a sproposito ad apparato ideologico e gli slogan pensati come tweet o soundbite televisivi: «La pacchia è strafinita» pronunciato da Salvini a proposito di migranti, profughi e clandestini infilati tutti nello stesso mucchio, facendo di tutta l’erba un fascio. 
Rovesciamento dei significati
Oppure il «vive su Marte» indirizzato al non allineato presidente dell’Inps Tito Boeri; le proiezioni utopico-futuristiche (o, se si preferisce, le fughe in avanti, come la delega ministeriale alla democrazia diretta o la mezz’ora gratis di Internet «per i poveri»); la scelta programmatica del politicamente scorretto e la polemica costante verso i «buonisti» (come le Ong); l’abilità nel rovesciamento dei significati («risorsa» che, da contributore straniero della previdenza nazionale, si converte nella sarcastica etichetta salviniana per indicare lo squilibrato nigeriano che ha assassinato un anziano a Sessa Aurunca nel luglio 2018). Sempre, e rigorosamente, all’insegna della logica della campagna elettorale permanente nella quale tendono a moltiplicarsi esponenzialmente i fattoidi (i cosiddetti «fatti alternativi»), la cui verosimiglianza frutto di manipolazione risulta inversamente proporzionale alla veridicità dei fatti autentici.
Massimiliano Panarari

domenica 18 novembre 2018

“Fiaccati da anni di politicamente corretto gli italiani vogliono trivialità e tracotanza”

LA STAMPA

Italia

ALESSANDRO PIPERNO lo scrittore stende IL pAESE SUL lettino dello psicanalista: “Per chi la pensa come me le prossime Europee saranno un tracollo”

“Fiaccati da anni di politicamente corretto

gli italiani vogliono trivialità e tracotanza” 

Alessandro Piperno ci ha sempre stupito con la forza e la crudeltà con le quali mette sotto la lente di ingrandimento i vizi della borghesia, i complicati rapporti tra uomo e donna, le loro paure e incertezze ma ora non riesce più a chiudere gli occhi. E come in una seduta di psicanalisi prova a raccontare la rivoluzione in corso nel suo Paese sdraiandolo sul lettino. 

Le ultime elezioni hanno stravolto completamente il panorama politico creando un vero e proprio choc per l’Italia. Cosa è accaduto? «E chi lo sa! Vede, sulla questione mi piace sempre citare il grande poeta russo Iosif Brodskij: “La politica è al livello più basso della vita spirituale”. Nel senso che sollecita gli impulsi più elementari e corrivi della nostra interiorità. Anche per questo me ne sono sempre tenuto doverosamente alla larga. Ecco, mettiamola così: dal 4 marzo scorso sono regredito al livello più basso della mia vita spirituale. Sono sull’orlo di una crisi di nervi. Leggo i giornali con avidità, consulto siti, guardo la tv, prendo a concionare a tavola e all’università come un tribuno, manca solo che mi metta a parlare da solo per strada. Alterno apprensione, sdegno a stupefazione. Assisto con orrore al tramonto del buonsenso. E per la prima volta in vita mia sento farsi strada il sospetto paranoico che sia tutto collegato. Le faccio un esempio». Mi dica. «Anni fa un mio amico che insegna negli Stati Uniti da decenni mi disse che non aveva dubbi: non solo Trump avrebbe vinto le primarie repubblicane, ma anche le presidenziali. Alle mie proteste piene di legittima incredulità mi zittì dicendo: “Gli americani sono stanchi della correttezza politica. Hanno bisogno di trivialità, franchezza becera, tracotanza”. Dio sa se aveva ragione. E a quanto pare, ad aver bisogno di certa roba non erano solo gli americani, ma anche gli inglesi, gli ungheresi, gli austriaci e gli italiani naturalmente. Del resto, ravviso una relazione sinistra tra l’oltranzismo del politicamente corretto e il trumpismo. Sebbene antitetiche, si tratta di dottrine violente, settarie, prive di ironia e di misericordia. Ci ha fatto mai caso? C’è qualcosa che assimila gli occhi spiritati di certi deputati grillini ai ghigni sarcastici dei leghisti». Quando è iniziata questa trasformazione? «Per quanto concerne l’Italia, sospetto che i vent’anni di guerra civile tra berlusconiani e anti-berlusconiani abbiano impartito alla gente una lezione di odio reciproco talmente viscerale che stentiamo ancora a liberarcene. E ritengo che la cosiddetta classe dirigente abbia giocato il ruolo mefitico e irresponsabile dell’apprendista stregone. Un Paese la cui élite insegna alla gente comune a odiare l’élite ha qualche serio problema di auto-coscienza». Ora avanzano i sovranisti. Sembra un’ondata inarrestabile. Per quale motivo? «Non bisogna essere un premio Nobel per capire che il peggior nemico della democrazia liberale è la crisi economica. Di colpo la gente ha ottime, legittime ragioni per incanaglirsi. Penso al piccolo mondo da cui provengo, la borghesia metropolitana, laica e operosa: nell’ultimo decennio ha subito un lento inesorabile declassamento sociale. Non oso immaginare come stanno tutti gli altri, ossia la maggioranza che già se la passava male. E come insegna Girard, il grande antropologo francese, quando la gente è in difficoltà, quando trema di paura, per prima cosa se la prende con chi sta molto meglio poi con chi sta molto peggio. Così il complottismo si allea al razzismo. La dietrologia paranoide dei grillini va felicemente a braccetto con la xenofobia dei leghisti. Da un lato si farnetica contro i poteri forti, dall’altro contro i finanzieri ebrei e gli immigrati. Le assicuro, non avrei mai creduto che un giorno avrei vissuto tempi del genere». E da qui come si arriva al sovranismo? «Il passo è breve. È come quando sei depresso e ti vien voglia di chiuderti in casa. L’infelicità, la tristezza, la miseria ti abbrutiscono e ti rendono sospettoso e guardingo. Chiudi a chiave la porta, abbassi le serrande. Ti viene naturale dare la colpa ai vicini di casa. Se stai così male sarà di certo colpa loro. Diventi lamentoso, capzioso, auto-indulgente. Non vedi l’ora di insultare qualcuno alla prossima riunione di condominio». Quale altro effetto ha avuto la crisi? «Ha incrinato quel muro di valori condivisi che George Steiner chiama il “pregiudizio liberal”: tolleranza, civismo, buone maniere. Tutto andato in fumo. Lo vede? Ormai parlo come un trombone». Cosa pensa del problema dell’immigrazione? «Penso che tra qualche anno guarderemo al nostro atteggiamento odierno con lo stesso orrore con cui oggi giudichiamo le cose terribili che succedevano in Europa settant’anni fa». Perché l’Italia ha così poca memoria? «Sa che l’ottanta percento dei miei studenti non sa cosa sono le leggi razziali e il restante venti percento ritiene che esse abbiano riguardato solo la Germania? Ho sempre diffidato della capacità redentrice della memoria. Alla questione ho dedicato anche un paio di libri. Ma questa ignoranza supera di molto le mie peggiori aspettative». Torniamo per un momento a un concetto che lei ha espresso e che mi ha colpito. Perché Trump e il politicamente corretto sono la faccia della stessa medaglia? «Perché sono espressioni di un pensiero rozzo e semplificato che si nutre di pregiudizi e si avvale di slogan e frasi fatte. Sono forme di estremismo che hanno silenziato il pensiero critico e hanno abolito il sano esercizio del dubbio». Per questo ha deciso di dedicarsi in modo più attivo alla politica?«Non la metterei così. Detesto gli scrittori impegnati. A Zola preferisco Flaubert, a Sartre preferisco Claude Simon, a Pasolini preferisco Gadda e Montale. Diciamo che per la prima volta nella mia vita mi scopro in apprensione per ragioni politiche». Lega e 5 Stelle sono alleati, ma anche rivali. Se si tornasse a votare cosa accadrebbe? «Al di là di tutte le goffaggini, le insipienze, gli abusi di potere, i tradimenti della parola data, il malgoverno mostrato a Roma e a Torino, l’offerta dei 5 Stelle resta fortissima (soprattutto quando c’è da decostruire), e se possibile quella della Lega lo è anche di più. Temo che per chi la pensa come me le prossime elezioni europee sanciranno il tracollo definitivo. Anche se spero di sbagliarmi». La seduta è finita, come vede il paziente Italia? «Che le devo dire? Il 5 marzo, quando mi sono svegliato, mi sono sentito come un nobile francese dopo la presa della Bastiglia. Temevo che volessero ghigliottinarmi. Diciamo che il mio relativismo mi mette in guardia da me stesso, spingendomi a chiedermi se per caso ci sia qualcosa che non ho capito, se in quello che sta capitando ci siano anche risvolti positivi che un signore di mezza età come me è incapace di valutare e di percepire. Non posso che augurarmelo naturalmente». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

massimo vincenzi

giovedì 15 novembre 2018

LA STAMPA

Prima Pagina

Gertrud e Karl

Breve storia di Karl Jaspers dedicata a chi si sente una vittima e un innocente. Nasce a Oldenburg, Bassa Sassonia, nel 1883. Si laurea in medicina, diventa psichiatra e filosofo. Nel 1933, con la salita al potere di Adolf Hitler e del nazismo, poiché sua moglie Gertrud Mayer è ebrea, entra nel novero dei potenziali nemici del Reich. Nel 1937 gli impongono un’alternativa: o lasciare la Germania o lasciare la moglie. Non lascerò né la Germania né mia moglie, risponde. Viene allontanato dall’Università di Heidelberg, dove studia e insegna. Si ritira a vita privata con Gertrud. Nel 1938 a ogni casa editrice tedesca è vietato pubblicare opere di Jaspers. Fa la fame, si ammala. Negli anni della guerra, per evitare a sé e a Gertrud l’eventualità devastante della deportazione, pare conservi pasticche di cianuro a portata di mano. L’arresto è in effetti stabilito, ma non c’è esecuzione probabilmente per l’avanzata degli americani. Nel 1946, a guerra finita, torna alla vita accademica. Tiene un ciclo di lezioni pubblicate in Italia da Raffaello Cortina col titolo La questione della colpa. Dice: «Noi tedeschi siamo obbligati, senza alcuna eccezione, a vedere chiaro sulla questione della nostra colpa e a trarne le conseguenze. La questione della colpa, più che essere una questione posta dagli altri a noi, è una questione che noi poniamo a noi stessi. Ci obbliga la nostra dignità di uomini». La colpa che riconosceva a sé era di avere sottovalutato il nazismo e di non essersi opposto per tempo e col dovuto vigore. E per questa ragione avvertì: «Ognuno è responsabile della situazione politica del proprio Paese».

domenica 11 novembre 2018

una folla non populista e positiva. Massimiliano Panarari

LA STAMPA

Cultura

una folla

non populista

e positiva

Massimiliano panarari

Una piazza positiva, e pro-positiva negli intenti e nelle aspirazioni. E una piazza progressista, nel senso dell’impegno a sostenere le ragioni dello sviluppo e a testimoniare l’importanza (e la necessità) di una visione di progresso.

La piazza è uno dei luoghi fondamentali della politica, via via negletta nella stagione attuale divisa tra l’invocazione della (spesso assai più sedicente che reale) democrazia diretta e le zuffe nei forum virtuali dei social (o nei salotti tv di certi talk show). E, dunque, è interessante, e ovviamente non casuale, che una critica costruttiva e garbata - come tipico dello stile sabaudo - a certe politiche di immobilismo e arretramento propugnate dal governo neopopulista sia passata per lo spazio pubblico (e fisico) di piazza Castello. Dove, come inno di partenza, sono risuonate le note di una celebre canzone di Jovanotti, Io penso positivo, per mandare con chiarezza il messaggio di un clima d’opinione improntato appunto alla positività, e non pregiudizievole nei confronti della sindaca Chiara Appendino.

Quella (strapiena) di ieri è stata una piazza non ideologica - o, se si vuole, postideologica - che, a partire dai temi della Tav e delle infrastrutture, ha rimesso al centro del discorso pubblico il significato del progresso per una comunità immersa in un contesto di palese e inarrestabile interdipendenza (visto che la globalizzazione della circolazione di persone e merci non si ferma a colpi di antistorici «No»). Una piazza edificata, dal punto di vista sociale, sulla trasversalità (oltre che sull’assenza di vessilli e bandiere di partito), popolata di professionisti, imprenditori, lavoratori, studenti, professori, famiglie e singoli, e che si era prefissata l’obiettivo di restituire all’attenzione generale le opinioni di una maggioranza (finora) silente perché sovrastata da minoranze organizzate e alquanto rumorose nella loro advocacy (e, soprattutto, nella loro volontà di imporsi). E una piazza progressista in un’accezione che, andando giustappunto oltre la destra e la sinistra, ha invocato l’andare avanti e lo sviluppo contro l’ideologia del populismo reazionario e del sovranismo regressivo – resiliente, quindi, rispetto alla decrescita che conduce a un futuro di infelicità ed è pervasa di quella che Zygmunt Bauman ha chiamato retrotopia (un’utopia - che qui sarebbe meglio etichettare come distopia - con la testa rigidamente rivolta al passato).

Una piazza decisamente subpolitica - per dirla alla Ulrich Beck - poiché animata dall’associazionismo e dalle articolazioni della società civile (a partire dal gruppo di donne delle professioni che l’ha concepita e costruita) e fondata sulle idee forza della bontà del progresso, della società aperta, della scienza, della tecnologia e della condivisione e ripartizione collettiva del benessere che ne deriva. Una piazza pacifica ed europea (come lo è la città di Torino) rispetto alle arene del rancore e della rabbia che hanno caratterizzato sempre più massicciamente, dal «Vaffa day» di Grillo in avanti, una certa idea della partecipazione di folla in questa nostra Italia disorientata e postmoderna.

Insomma, una piazza dell’azione affermativa; e, dopo la sua bella prova di forza tranquilla, è ora lecito anche attendersi che l’energia positiva dell’Onda Sì Tav dia origine a una piattaforma di proposte fattive. E, dunque, «un’altra piazza è possibile», per giunta piena di sorrisi e compostezza.

martedì 6 novembre 2018

L’incompetenza oggi paga solo in politica. Nella vita gli incompetenti soccombono.

LA STAMPA

Prima Pagina

Riprendersi il futuro

Un’analisi dell’osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli, pubblicata ieri sul Foglio, approfondisce bene alcune questioni già chiare. Prima, la robotizzazione riduce i posti di lavoro soprattutto nei paesi con pochi robot: Germania, Giappone e Corea del Sud, che ne sono pieni, hanno all’incirca il 4 per cento di disoccupati. Seconda, per ora i robot portano via il lavoro alla fasce medie: scompaiono i bancari, per esempio. Terza, i lavori più umili, ancora fuori dalla portata dei robot, come consegnare le pizze o servire ai tavoli, sono pertanto sempre più ambiti e sempre meno pagati. Quarta, è alta la richiesta di lavoratori con elevata competenza, e alto è il loro stipendio. In poche righe, ecco una spiegazione delle diseguaglianze. Come tutti sanno, l’arrivo delle auto fece fuori carretti e carrozze ma creò progettisti, operai, meccanici. Il vetturino disoccupato però non sapeva niente di pistoni. Ci spieghiamo meglio: al Politecnico di Milano il 95 per cento dei neolaureati in ingegneria informatica trova lavoro contestualmente alla laurea o entro sei mesi, il restante 5 per cento entro l’anno. La prima paga netta è superiore ai mille e 700 euro. Dall’anno accademico 2017-’18 sono usciti 258 ingegneri informatici, ma il Politecnico aveva dalle aziende quasi 4 mila e 700 offerte d’assunzione. Tutto questo bla bla, cari ragazzi, suggerisce che bisogna essere al passo coi tempi, perché i tempi non rallentano per aspettarci, e che l’incompetenza oggi aiuta in politica, ma soltanto in politica e per coincidenza astrale: nella vita, gli incompetenti soccombono. 


domenica 28 ottobre 2018

L’Italia corre diritta contro il muro”

LORENZO BINI SMAGHI Le agenzie di rating ci hanno rimandato in attesa di avere più informazioni sulla manovra

Si sta ripetendo il 2011, la frenata dell’economia cominciò con la salita dello spread. E l’esecutivo non lo ha capito

“Deficit al 3% e rischio recessione

L’Italia corre diritta contro il muro”

«Rimandati a settembre, come si diceva una volta», concede Lorenzo Bini Smaghi quando si arriva alle agenzie di rating e alla valutazione della credibilità dell’Italia. «Vogliono evitare giudizi su fatti che non conoscono», aggiunge l’economista fiorentino, già membro dell’esecutivo Bce, oggi presidente di Société Genérale e di Italgas, che però un’idea precisa di come andranno le cose se l’è già fatta. Vede il deficit al 3% del pil per tre anni, una pericolosa stretta al credito, un rischio di recessione e un governo gialloverde che gli pare «un treno lanciato contro un muro». «Mi pare proprio un rinvio del giudizio in attesa di ulteriori informazioni - spiega -, con l’indicazione che probabilmente verrà cambiato. Non gli darei troppa importanza, non è così drammatico come si poteva pensare».

Intanto hanno riscritto lo scenario macroeconomico. Meno crescita e più deficit... «Non sono i soli. Anche l’Ufficio parlamentare del bilancio, il Fmi e la Commissione Ue lavorano su ipotesi non in linea col governo. Personalmente, trovo basso il 2,7% il rapporto deficit/pil, perché nella manovra ci sono misure di cui non conosciamo la portata, entrate ed uscite da verificare. Gli interessi sul debito saranno almeno 0,1-0,2 punti in più. Ci sono forti probabilità che il disavanzo superi il 3%. Per i prossimi tre anni». Davvero? «Nello schema del 2020 è previsto il ricorso alla clausola di salvaguardia. Ritengo improbabile che vogliano aumentare l’Iva». In questo quadro perché insistono sul “non si cambia”? «Siamo in una fase in cui è venuto meno il ruolo della politica, intesa come quella cosa che deve rendere compatibile desideri e promesse con la realtà, magari anche spalmandoli nel tempo. Oggi abbiamo due partiti che ragionano meccanicamente, come un treno che non può cambiare binari e va contro un muro. Manca la capacità di mediare». Il governo si fa forza perché «il popolo è con noi»... «Proprio perché si ha il 60 per cento del consenso non ha senso creare queste turbolenze coi mercati e coi nostri alleati europei. A meno che la visione non sia di brevissimo termine e si pensi a votare subito dopo aver massimizzato gli effetti della manovra. Oppure che trionfi l’incapacità di fare la politica vera esercitando l’arte del possibile». A chi giova attaccare Draghi? «Se chi investe in Italia vede che attaccano il guardiano della stabilità, penserà che non si voglia la stabilità. Non è positivo per il Paese e nemmeno per la manovra stessa». SuperMario “il salvatore” ora è “l’anti-italiano”. «Mannò. Cosa vuol dire? E’ europeo. Sarebbe meglio avere un tedesco? Così facendo si riduce ulteriormente la credibilità del Paese come è capitato quando la Lega dell’Europarlamento non ha votato per Enria alla Bce. Mi sembra che il governo si stia specializzando in autogol». Come è successo? «O è una ingenuità nata dall’incompetenza. Oppure c’è l’obiettivo deliberato di cercare lo scontro a tutti costi. Comunque due ipotesi che spaventano chi deve decidere se investire in Italia o meno». Cosa rischiano le banche? «La perdita di valore dei titoli di stato erode il capitale. Poiché esistono dei vincoli patrimoniali, gli istituti reagiscono riducendo il credito. Tagliano i prestiti e chiedono ai clienti di rientrare. Non sono le banche, ma il sistema economico a soffrire». Qual è il pericolo?«L’economia che rallenta e rischia di andare in recessione nel quarto trimestre. È capitato nel 2011: le banche hanno ridotto il credito già nell’estate, appena lo spread è salito. Il pil italiano è sceso dello 0,6 nel terzo trimestre e nel quarto dello 0,9. La caduta è cominciata per effetto dello spread, già prima di Monti. Il fenomeno si sta riproponendo. Il governo, che pure si circonda di pseudo economisti, non lo ha capito». A sentire il ministro Savona si ha l’impressione che vogliano ristrutturare il debito e farselo pagare dall’Europa. «Lui lo ha scritto e detto. E la reazione degli altri paesi è stata “non abbiamo voglia di pagare il debito italiano”, lo ha hanno detto in tanti, da Kurz all’Afd. Il problema non è Savona, ma chi lo fa parlare. Butta benzina sul fuoco, dovrebbero dirgli di smettere. Non ha una posizione di rilievo nella Lega o nel M5S. Però, essendo Tria in una fase di ripiego, chi cerca di comprendere cosa succede in Italia ascolta Savona, e forse sbaglia». Draghi voleva mediare.«Sì, ha tentato di diffondere ottimismo per un’intesa sulla manovra con la Commissione e gli hanno sparato verbalmente addosso. E’ come se cercassero un pretesto per andare al voto o per fare delle manovre straordinarie, dando la colpa agli altri. D’altra parte, l’ampio consenso dei cittadini dà al governo l’illusione di poter fare qualsiasi cosa». Per poi prendersela con la speculazione e Soros? «Se uno dice “ce ne freghiamo e andiamo avanti” non fa altro che spingere a speculare ancora di più contro il paese, nella convinzione che si stia andando contro il muro. Siamo un paese piccolo sul Mediterraneo che si sta isolando».Il consenso resta elevato, però. Come se lo spiega? «Perché l’impatto reale su cittadini ancora non c’è stato. Ci sono per ora delle avvisaglie. La recessione non è ancora iniziata. Torno al treno. Corre ad alta velocità, il muro ancora non si vede, ma se non si rallenta lo schianto sarà violento». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

marco zatterin

mercoledì 10 ottobre 2018

Il primo passo ( dello Stato autoritario)

LA STAMPA

Prima Pagina

Il primo passo

La sicurezza viene prima dei diritti, ha detto ieri mattina in tv Edoardo Rixi, sottosegretario della Lega. Nessuno è sobbalzato, in studio, e probabilmente nessuno è sobbalzato a casa. Rixi stava parlando del ponte di Genova, in perfetta buona fede (che noia questa buona fede), e stava postulando il disastro. Lo chiamo disastro, altri lo chiamano fascismo, ma la definizione non è importante: non torneranno le camicie nere, i cerchi di fuoco, i balilla, la storia si ripete ma non copia mai da sé stessa. È invece vero che nell’anima italiana l’illiberalismo è sempre stato una scorciatoia e un sollievo, per tutti. Siamo pieni di leggi illiberali in nome della sicurezza: buona parte della legislazione antimafia è illiberale, ma c’è l’emergenza mafia; i sequestri preventivi dei beni dei (presunti) corrotti sono illiberali, ma c’è l’emergenza corruzione; le leggi antiproibizioniste sulla droga sono illiberali, ma c’è l’emergenza droga. Spesso, e non soltanto in Italia, si sacrifica qualche diritto in nome dell’emergenza e della sicurezza. Sono quote forse sopportabili, come fumare tre sigarette al giorno a corredo di una vita sana. Già è arbitrario decidere quali sono le emergenze e come affrontarle, ma quando le emergenze si moltiplicano o addirittura si ingigantiscono - l’immigrazione, la criminalità, i rom, le occupazioni abusive, i confini, i tecnici dei ministeri, la stampa, ora perfino la ricostruzione dei ponti - e a ognuna si dà una risposta illiberale, perché la sicurezza viene prima dei diritti, allora lo Stato autoritario ha già compiuto un passo.


sabato 6 ottobre 2018

Baviera, volano i Verdi (Ndb: sarà anche qui la nuova alternativa democratica?)

LA STAMPA

Esteri

Secondo i sondaggi gli ambientalisti hanno superato l’Spd nei consensi

Sono la vera opposizione a Cdu e Csu: primo test il voto del 14 ottobre

Baviera, volano i Verdi

S’incrina dopo 60 anni

il modello conservatore 

Oggi marceranno ancora una volta accanto agli ambientalisti ed ecologisti per partecipare alla grande manifestazione di protesta contro l’abbattimento della foresta di Hambach minacciata dai lavori di ampliamento di una grande miniera di carbone tra Colonia e Aquisgrana. Ma quello dell’ecologia non è più il tema dominante e centrale per il Bündnis 90-Die Grünen, il partito dei Verdi tedeschi. Il loro guscio esterno è ancora verde, ma il nocciolo si è tinto anche di rosso socialdemocratico, blu neoliberista e persino di nero conservatore. 

La crisi politica

Nel pieno di una crisi politica che sta sgretolando le fondamenta del bipolarismo tedesco, con il lento tramonto della cancelliera cristiano-democratica Angela Merkel e l’erosione di consensi dei «Sozialdemokraten» dell’Spd, sono proprio i Verdi ad essere diventati la nuova forza politica di centro senza la quale in Germania sarà arduo in futuro dar vita a stabili maggioranze di governo. In vista delle elezioni amministrative nelle regioni chiave della Baviera e dell’Assia il 14 e 28 ottobre, il partito raggiunge nei sondaggi la quota record del 18% attestandosi al secondo posto nella graduatoria dei principali partiti, prima ancora dell’Spd e della destra populista della AfD. 

A livello nazionale sono riusciti addirittura a raddoppiare i loro consensi dall’8,9% ottenuto alle politiche del 2017 agli attuali 17-18%. Una tendenza riscontrabile anche in numerosi altri Paesi europei, dalla Svezia all’Olanda, dove i vecchi ambientalisti di sinistra di un tempo conquistano fasce di elettori sempre più ampie e politicamente eterogenee. In una roccaforte del conservatorismo tedesco come quella del Baden-Württemberg, la regione di Stoccarda dominata un tempo dalla Cdu, da 7 anni a questa parte ad occupare la poltrona di governatore è il Verde Winfried Kretschmann che oggi difende anche gli interessi delle potenti lobby dei costruttori automobilistici Daimler e Porsche, e che ha appoggiato il recente inasprimento delle leggi sull’immigrazione.

Nella nerissima Baviera, la star della campagna elettorale è la verde Katharina Schulze, 33 anni, sempre sorridente, di bell’aspetto, moderata nei toni e politicamente pragmatica, e che con il suo carisma sta contribuendo al crollo di popolarità dei cristiano-sociali (Csu) che da oltre 60 anni dominano il loro feudo prealpino con maggioranze assolute e che adesso, col 33% delle preferenze indicate dai sondaggi, risc hiano nella peggiore delle ipotesi di ritrovarsi addirittura sui banchi dell’opposizione.

Le nuove alleanze

«I Verdi profittano molto della crisi d’identità dei due grandi partiti tradizionali, quello della Cdu/Csu e del Spd», spiega il politologo Oskar Niedermayer dell’università di Berlino. «Paradossalmente, però, i Verdi profittano sia in Germania sia nel resto dell’Europa anche dell’affermazione della nuova destra populista, rappresentando l’ultimo bastione credibile e autentico che resiste e non si è fatto contagiare dalla retorica xenofoba, intollerante e semplificazionista dei tribuni della destra». In Baviera, i Verdi di Katharina Schulze non pongono nessun veto ad una possibile alleanza di governo assieme ai cristiano-sociali del governatore Markus Söder e del leader di partito e Ministro degli interni Horst Seehofer. Stando ai sondaggi potrebbero però in teoria dar vita anche a una coalizione alternativa con socialdemocratici, liberali e la lista indipendente dei Freien Wähler. 

I tempi in cui i Verdi si definivano come gli antagonisti per eccellenza del centro-destra sono del resto tramontati. Oggi il partito è più che mai eclettico ed eterogeneo, viene votato sia dai dipendenti delle start-up metropolitane sia dai coltivatori di prodotti biologici della provincia, dalle donne come dagli uomini, dalle classi medio-alte ed imprenditoriali come da studenti e intellettuali. Classi che in Germania stanno molto bene, forse anche troppo, ma che nel loro benessere non vogliono rinunciare ad alcuni valori fondamentali, che solo i Verdi difendono attualmente in modo credibile: l’ambiente, la tolleranza, il multiculturalismo. 

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walter rauhe

La storia siamo noi

LA STAMPA

Prima Pagina

La storia siamo noi

Il ministero ha deciso di sopprimere il tema di storia dall’esame di maturità perché in dieci anni soltanto il tre per cento degli studenti ha deciso di affrontarlo. È un peccato che i ragazzi trascurino la materia più bella che c’è (parere personale) e che il ministero si adegui, facendone un soprammobile dell’istruzione. Forse è inevitabile se si pensa alla vicenda di Roberto Matatia raccontata ieri dal Foglio. Matatia è un imprenditore di Faenza che ha scritto un libro sulla sua famiglia sterminata ad Auschwitz, e per parlarne era stato invitato da una professoressa di un liceo classico del foggiano. Dopo qualche settimana, però, la professoressa si è scusata con Matatia: purtroppo non se ne fa nulla, altri insegnanti si sono opposti, a scuola niente politica, hanno detto. Ora l’incidente pare rientrato, a Matatia dovrebbe essere stato rinnovato l’invito, ma a questo punto che lo accetti o meno è secondario. Piuttosto risalta la bizzarria che insegnare ai ragazzi che cosa furono le leggi razziali (oggi, ottant’anni fa, il Gran consiglio del fascismo pubblicò la Dichiarazione sulla razza), e quali ne furono le conseguenze, sia derubricato a una bagatella politica. Specialmente nell’accezione infelice che si dà oggi al termine, desolante a ora tarda in birreria, figuriamoci in un liceo classico dove senz’altro sanno che politica deriva da Polis, le città in cui tutti erano chiamati a partecipare all’amministrazione della cosa pubblica e a soggiacere alla medesima legge. È nella Polis che nasce l’idea occidentale di democrazia. Ma se abbiamo questa considerazione della storia, non possiamo che avere questa politica. 


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giovedì 27 settembre 2018

Pensiero magico e lessico zero nel linguaggio giallo-verde

LA STAMPA

Cultura

il potere magico delle parole

nel linguaggio giallo-verde

Massimiliano Panarari

Il populismo e la sua narrativa si fondano anche sul «pensiero magico». Con l’arrivo al potere dei due partiti della «democrazia populista» (come la chiamava il politologo Robert Dahl) ci troviamo dentro una fase completamente nuova. E l’Italia torna a essere un laboratorio della crisi della democrazia rappresentativa.

Si tratta di uno stadio talmente inedito da annichilire quasi l’opposizione politico-parlamentare, producendo una crisi esistenziale di quei partiti di sistema (il Pd e Forza Italia) che cercano di contrastare la Lega e il Movimento 5 Stelle con gli strumenti della politica tradizionale e «razionale». Invece, questa è effettivamente la Terza Repubblica: non nel senso dell’approvazione di una qualche revisione costituzionale (almeno per il momento), ma dell’autentica rivoluzione in corso nel linguaggio e nelle forme del fare politica che – specie ora – sono sostanza.

Il pensiero magico, studiato da generazioni di antropologi e da psicologi come Jean Piaget, è un processo cognitivo prelogico in cui non viene messo bene a fuoco, o risulta alterato, il nesso causa-effetto. E non appartiene unicamente alle società primitive, ma capita a ciascun individuo di farvi ricorso durante la vita. La postmodernità, tra relativismo spinto e intercambiabilità delle interpretazioni, lo ha riportato in auge ampiamente, come mostrano la postverità e le fake news. E oggi, infatti, è dato vedere un pensiero magico prepotentemente all’opera nella comunicazione e nella propaganda del governo legastellato che, nella sua campagna elettorale permanente, sembra farsi beffe del principio di non contraddizione come di quello di realtà. Dalla polemica con gli alti funzionari che non si piegano agli annunci-promesse di vari ministri fino all’insofferenza per i numeri che non tornano nei provvedimenti più importanti e nel Def, è come se andasse in scena uno scontro tra la razionalità tecnico-politica (ritenuta troppo «calcolante») e un irrazionalismo politico-seduttivo preoccupato solo del consenso, e infastidito da limitazioni e rispetto delle compatibilità (le cifre del bilancio e del debito pubblico come il primato dello Stato di diritto). Giustappunto perché il neopopulismo postmoderno è incantatore e (ferocemente) anti-illuministico.

Nel pensiero magico talune parole hanno poteri miracolosi e soprannaturali, e funzionano come dei totem. Così, archiviato il «politichese» della Prima Repubblica e il linguaggio marketing-oriented della Seconda, siamo arrivati al «lessico zero» di Di Maio e Salvini. Vale a dire una politica linguistica che vuole azzerare la possibilità del dibattito, con concetti tanto basici che diventa impossibile dichiararsi contro (e in questo modo, nuovamente, si annulla l’opposizione, che ha un problema culturale e semantico, oltre che politico). Ed ecco allora: la «manovra del Popolo» (con il «popolo» vocabolo totem per eccellenza, ripetuto in ogni occasione), l’«azzeramento della povertà», l’«Italia sicura» d’ora in poi; e, anche se assomiglierà molto al reddito di inclusione degli esecutivi di centrosinistra, quello nuovo sarà di «cittadinanza», parolina magica e diretta.

Il neopopulismo disintermedia ed elimina (magicamente) la complessità e le problematicità del reale, presentandosi come capace di andare alla radice delle questioni e proponendo «soluzioni» che sfidano la logica (proprio perché basate su relazioni causali spesso arbitrarie). Che riscuotono, come mostrano il clima d’opinione e i sondaggi, moltissimi applausi. E hanno inaugurato un terreno di gioco totalmente altro rispetto alla concezione liberaldemocratica e socialdemocratica della politica. Un perimetro davvero alternativo (e preoccupante), come i fattoidi che vengono raccontati dallo storytelling sciamanico di certi politici apprendisti stregoni.

giovedì 13 settembre 2018

LA VOGLIA DI FERMARE I GIORNALI

LA STAMPA

Cultura

LA VOGLIA DI FERMARE

I GIORNALI

Alberto Mingardi 

Ieri il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Fra le altre cose, essa prevede che ogni Stato-membro debba assicurarsi che i produttori di contenuti, gli editori, ricevano compensi «consoni ed equi» per l’uso dei loro materiali da parte delle piattaforme on line. Semplificando, hanno vinto editori e partiti «tradizionali» e ha perso la strana coalizione formata dai cosiddetti «giganti del web» e dai partiti anti-establishment, fra cui Lega e Cinque Stelle. Questi ultimi, che solitamente hanno scarsa simpatia per il capitalismo, specie se americano, si erano allineati con le istanze della Silicon Valley.

Intanto, in Italia il ministro Di Maio annuncia una lettera alle società partecipate per indurle a smettere di fare pubblicità sui quotidiani. Si discute poi di eliminare l’obbligo di pubblicazione per la Pa (per esempio per gli avvisi di gara), con l’obiettivo dichiarato di colpire le imprese editoriali.

I cosiddetti populisti hanno per anni accusato i loro predecessori di voler asservire l’informazione: pensate alle polemiche, spesso condivisibili, sull’«occupazione» della Rai. Pensavamo fossero critiche, invece era un programma. L’attuale governo sta facendo esattamente ciò che rimproverava agli odiati Renzi e Berlusconi: prendere il controllo della Rai, usare la pubblicità delle partecipate a fini politici.

Più in generale, se la Silicon Valley non ama né Donald Trump né i suoi epigoni europei, questi ultimi sono convinti che il loro successo dipenda dal superamento dei media tradizionali. Attraverso i social, essi costruiscono, giorno dopo giorno, quel rapporto diretto fra elettori e eletti che è un ingrediente essenziale della loro ideologia. L’obiettivo è quello di mettere in scena una democrazia senza bardature, dove la rigidità delle regole non è più un ostacolo alla reazione immediata alle sollecitazioni del «popolo». Che poi del popolo considerino solo la frazione che li inonda di «like», non importa. E non importa neppure che «fare le leggi», pure quando le fa il governo, continui a richiedere un tempo incommensurabilmente diverso da quello del web. Ciò che conta è dare l’impressione di un’attenzione istantanea.

Piaccia o non piaccia, la storia della democrazia è anche la storia dei giornali. Il dibattito politico ha bisogno di confrontarsi con un’opinione pubblica informata e vivace. L’opinione pubblica, sosteneva Walter Bagehot, è «l’opinione di quel signore calvo seduto in fondo all’autobus». Con questo, voleva dire che l’opinione pubblica non coincide necessariamente con le idee delle classi dirigenti, e nemmeno con quelle delle persone più colte: coincide con il pensiero delle persone «comuni» che vogliono dire qualcosa sul modo in cui vengono condotti gli affari pubblici ma sentono anche il bisogno di farlo a ragion veduta.

La libera stampa non è perfetta, come nulla è perfetto a questo mondo. Essa è però la precondizione di un’opinione pubblica informata: che ha bisogno di una polifonia di opinioni ma anche di chi metta risorse e competenze per dare notizie, soprattutto se sgradite a chi governa.

Più che le singole iniziative, colpisce quindi il disegno, la guerra ai giornali. Per alcuni è il sogno romantico della democrazia diretta, senza filtri. Quei «filtri» sono tuttavia indispensabili per avere una informazione non frammentaria, che consenta di conoscere davvero quel che viene deliberato ed eventualmente di reagire ad abusi e soprusi. C’è un motivo se il potere vuole avere un rapporto diretto col singolo individuo. E’ che il singolo individuo, apparentemente emancipato da tutte quelle strutture che si interpongono fra lui e il governo, in realtà è disarmato. Inerme. Il suddito ideale.

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martedì 11 settembre 2018

i populisti avanzano perché gli avversari non si uniscono contro di loro

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Cultura

i populisti avanzano

perché gli avversari

non si uniscono contro di loro

Giovanni Sabbatucci

Le preoccupazioni dei democratici europei circa l’arrivo, con le elezioni di domenica, di una marea bruna destinata a sommergere la civilissima Svezia si sono rivelate, per fortuna, alquanto esagerate. Il Partito socialdemocratico ha perso qualche punto (dal 31 al 28,3%), ma ha mantenuto un primato che detiene ininterrottamente dal 1932. Il Partito «Svezia democratica» di Jimmie Akesson – populista di destra anti-immigrati con qualche traccia mai del tutto cancellata di un originario filo-nazismo – ha guadagnato il 3,7, arrivando al 17,6, ma non si può dire che abbia sfondato. Conservatori-moderati e partiti minori hanno sostanzialmente tenuto. 

Gli equilibri usciti dalle urne svedesi non sono dunque paragonabili a quelli dei Paesi dell’Est, scivolati in pochi anni alla condizione di democrazie illiberali e governati da maggioranze apparentemente inattaccabili. I numeri (fatta salva l’eccezione dell’anomalo «bi-populismo» italiano) ci rimandano piuttosto alla distribuzione delle forze che si sono affermate in questi ultimi anni nelle democrazie dell’Europa Occidentale, dove i partiti della destra nazionalista, anche dopo i recenti exploit, si collocano fra il 15 e il 25% del voto popolare: 21,3 % in Francia, 12,6 in Germania, 13 in Olanda, 21 in Danimarca, 17 in Finlandia (senza contare i neonazisti dichiarati, come Alba dorata in Grecia e Jobbick in Ungheria). Sono dati che sicuramente allarmano, anche perché si collegano in gran parte alla spinosa questione dei migranti, ma che in sé, ove restassero immutati, non dovrebbero minacciare il funzionamento della democrazia né impedire la formazione di maggioranze: del resto, se le forze anti-sistema occupano, poniamo, il 20% dello spettro politico, questo significa che il restante 80% resta, in teoria, disponibile per coalizioni di governo democratiche ed europeiste.

In teoria, appunto. Nella realtà il varo di governi di larga coalizione trova spesso ostacoli difficilmente sormontabili. Ciò accade per comprensibili differenze e diffidenze legate alle diverse matrici ideologiche, seppure ormai sbiadite, alle diverse proposte in materia di politica economica e sociale. Ma anche perché, in presenza di un rapporto di alleanza che tende a eternizzarsi, o a esaurirsi nelle vetuste retoriche frontiste, i possibili contraenti del patto temono, non a torto, di logorarsi, di perdere la loro identità, di esporsi indifesi all’attacco delle forze anti-sistema che sfruttano senza remore i vantaggi dell’opposizione irresponsabile. 

Si spiega in questa chiave la svolta che sembra delinearsi nella politica tedesca, con immediati e pesanti riflessi sull’intera scena europea. Costretta a convivere al governo con un partner socialista frustrato e insofferente, incalzata dalla concorrenza nazional-populista di Alternative für Deutschland, Angela Merkel sembra seriamente intenzionata a raccogliere i suggerimenti che le giungono dalla fronda interna al suo stesso partito, la Cdu, e più ancora da quella del partito-fratello (la Csu bavarese). La cancelliera – indicata fino a pochi giorni fa come riferimento indiscusso del fronte europeista e anti-sovranista – rinuncerebbe a opporsi frontalmente ai suoi critici e aspiranti successori; e mirerebbe piuttosto ad assecondarne le spinte, come in un match di judo, per poi assorbirle e depotenziarle, riportando il partito ai suoi originari connotati di forza moderata e ricostituendo un fronte conservatore europeo vincente in vista delle elezioni della primavera prossima. 

È una manovra classica della politica. E la storia, come è stato osservato, offre parecchi esempi in proposito: per restare all’Italia, possiamo pensare a Giolitti che cerca prima di cooptare i socialisti e poi di ammansire i fascisti (con i risultati che sappiamo). Quel che è certo però è che si tratta di operazioni ad alto rischio, che hanno qualche possibilità di riuscita solo se il traghettatore è in posizione di forza rispetto al traghettando e conserva fino all’ultimo la lucidità necessaria per tener fermi i propri obiettivi. In assenza di queste condizioni, è meglio salvaguardare le proprie posizioni, i propri valori e la propria identità, mantenere alto il livello del dibattito politico preparandosi, se necessario, a una lunga traversata nel deserto.

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venerdì 7 settembre 2018

Alba 6 settembre 2018: 44 mm di pioggia in un'ora ( tanti o pochi per un nubifragio? Sono tanti)

Il nubifragio di Alba del 6 settembre 2018: 44 mm di acqua in un'ora, 53 mm in 3 ore. Pochi o tanti? Sono tanti. Andando ad osservare le serie storiche troviamo, per Cuneo, il 5 luglio 1906 in un solo evento di poche ore caddero 122 mm d'acqua con gravi danni alla zona. Il 7 giugno 1921, sempre nel capoluogo, in un'ora e tre quarti caddero 68 millimetri...


sabato 25 agosto 2018

Ecco la strategia comunicativa del nazista Goebbels( tornata di attualità oggi, specie sui social)

1. Principio della semplificazione e del nemico unico.

E’ necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali.

2. Principio del metodo del contagio.
Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

3. Principio della trasposizione.
Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre.

4. Principio dell’esagerazione e del travisamento.
Trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave.

5. Principio della volgarizzazione.
Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.

6. Principio di orchestrazione.
La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”.

7. Principio del continuo rinnovamento.
Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse.

8. Principio della verosimiglianza.
Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

9. Principio del silenziamento.
Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario.

10. Principio della trasfusione.
Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali.
Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi.

11. Principio dell’unanimità.
Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

Orsina: il conflitto fra legge e consenso

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Cultura

il conflitto

fra legge e consenso

Giovanni Orsina

La politica migratoria di Salvini può essere osservata da tre punti di vista: l’efficacia, il diritto, il consenso.

L’efficacia è evidente. Fra l’altro, pone la strategia del leader leghista su una linea di continuità con quella del suo predecessore, Marco Minniti. Ma come – si dirà – quale gran risultato sarà mai, tenere in ostaggio centocinquanta disgraziati nel Porto di Catania? In sé bloccare la Diciotti è ben poca cosa, certo, ed è per tanti versi inaccettabile. Il messaggio implicito in quel blocco e in tutto il disegno che lo circonda risuona forte e chiaro, però: cari migranti, evitate proprio di partire. O, se partite, vedete bene di non seguire la rotta del Mediterraneo Centrale. Quel messaggio – difficile negarlo – è stato ascoltato: il flusso dal Niger alla Libia, ad esempio, si è ridotto del quaranta per cento; mentre gli immigrati che hanno scelto la via del Mediterraneo Occidentale, approdando in Spagna, sono saliti quest’anno a ventiseimila, dagli ottomila del 2017.

Che l’efficacia (di Salvini, ma anche di Minniti) sia stata raggiunta a scapito dei diritti dei migranti, e violando o quanto meno forzando il diritto internazionale, è altrettanto evidente. Non passa giorno che gli avversari del leader leghista non battano su questo chiodo, alternando il martello etico a quello giuridico. La loro opposizione, in linea di principio, è del tutto giustificata – ma trova un limite invalicabile nell’incapacità di dar risposta a una domanda essenziale: come sia possibile coniugare il rispetto sacrosanto dei diritti, e del diritto, con l’esigenza politica altrettanto sacrosanta che i flussi migratori siano governati.

La cultura dei diritti è una straordinaria acquisizione di civiltà che nel corso degli ultimi decenni è cresciuta molto, ma non sempre bene. S’è dilatata, in primo luogo: oggi tutti i bisogni e desideri si presentano travestiti da diritti. È esondata dal suo alveo storico, poi: lo Stato-nazione. Ha messo in ombra le indispensabili contropartite, in terzo luogo – quelle per le quali, se ci son dei diritti, bisognerà pure che ci siano dei doveri. Infine ha esasperato la propria natura, per così dire, perfezionistica: una volta riconosciuto, il diritto dovrà essere soddisfatto per intero, subito, non saranno tollerati compromessi. Con gli anni questi sviluppi, e l’ultimo in particolare, hanno reso il discorso dei diritti sempre meno capace di misurarsi coi limiti di un mondo concreto nel quale, inevitabilmente, non tutti i diritti potranno esser soddisfatti del tutto e per tutti. Chi si chieda per quale ragione le sinistre – che a quel discorso stanno aggrappate da quarant’anni, per convinzione o disperazione – perdano terreno ovunque in Europa e sembrino aver smarrito il contatto con la realtà, farebbe bene a cercare anche da queste parti.

Prese insieme, la concretezza della politica migratoria di Salvini (e Minniti) e l’astrattezza del discorso dei diritti possono render conto, almeno in parte, del consenso raccolto dal leader leghista. Pregiudizi razzisti e razzismo aperto sono diffusi ovunque, e non si vede perché l’Italia dovrebbe esserne immune. Difficile immaginare inoltre che la retorica salviniana non li abbia alimentati, o comunque legittimati. Non mi sembra impossibile ipotizzare, tuttavia, che in moltissimi italiani la convinzione che il flusso migratorio vada arrestato sia maturata sul terreno non tanto del pregiudizio, quanto del buon senso. Lo mostra con una certa chiarezza uno studio demoscopico Ipsos che Federico Fubini ha presentato sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso: più della xenofobia, pesa la persuasione che lo Stato italiano sia troppo fragile per gestire efficacemente i flussi migratori. Ossia il timore che, messa sotto eccessiva pressione dalla purezza adamantina del discorso dei diritti, la ben più prosaica realtà della Penisola finisca per spezzarsi, a danno di tutti. 

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venerdì 24 agosto 2018

I VICEPREMIER E LE SPALLATE AL SISTEMA Lucia Annunziata

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I VICEPREMIER

E LE SPALLATE AL SISTEMA

Lucia Annunziata

Non ha paura delle eventuali accuse dei giudici, «perché ho con me i cittadini». Non si fa smuovere dal dissenso del presidente della Camera Fico o dalle pressioni del suo stesso premier o del Quirinale: «Ognuno faccia il suo lavoro nel suo ruolo». Parlando da «ministro, italiano e papà» Matteo Salvini ha concluso una convulsa giornata di scontro rimanendo in trincea, e incassando la piena solidarietà di Luigi Di Maio. 

L’intervento sulla Diciotti segna un salto politico: c’è dentro un passaggio di toni che rende chiaro che lo scontro intorno alla nave si è fatto più alto.

Il No del vicepremier si erge contro la magistratura, il presidente della Camera, il premier del suo governo, e, infine, contro il Quirinale. Insomma, la polemica è stata portata nel cuore delle istituzioni. Con l’entusiastico consenso di Luigi Di Maio che, parlando a nome di tutto il movimento (sconfessando insomma Fico) vi aggiunge un proprio carico: chiede soluzioni europee già per oggi nella riunione convocata in Europa, «oppure non daremo più i venti miliardi all’Europa». 

C’è materiale per una crisi di governo, si sarebbe detto in altri tempi. Ma non è questo a cui pensano i due vicepremier. La loro è l’ennesima sfida all’equilibrio esistente del governo giallo-verde. Ma la critica alla democrazia rappresentativa per questa coalizione ha molto poco della dichiarazione ideologica; è piuttosto una efficace arma «pratica», un potente grimaldello per girare i rapporti di forza a proprio favore. 

Cosa vogliono guadagnare dunque ora Matteo e Luigi allargando lo scontro? Davvero pensano di poter bloccare Mattarella, Conte, Fico e i magistrati, tutti insieme? 

Bloccarli forse no. Ma metterli in imbarazzo, sì. Agli occhi dell’opinione pubblica (quel «papà» che fa tanto uomo comune) per alzare il tiro contro l’obiettivo di sempre l’Europa. Questa Europa che sulla vicenda dei migranti si è rivelata in verità di nuovo indifendibile. A parte i pochi gesti di solidarietà - fatti più che altro per compensare le durezze salviniane nei giorni della chiusura dei porti italiani - il famoso impegno sulla ripartizione dei migranti illegali fra tutti i Paesi europei è rimasto lettera morta. Nel caso attuale della Diciotti è successo di peggio. Questa volta infatti il No europeo non è stato rivolto a Salvini, ma all’Italia nelle vesti delle nostre massime autorità - il ministro degli Esteri Moavero, il premier e lo stesso presidente Mattarella. 

Salvini e Di Maio sanno tutto questo. I loro No parlano dell’Europa, ma servono soprattutto a esporre al pubblico la sconfitta diplomatica, la impotenza della più alte cariche dello Stato, la paralisi dell’Italia nel rapporto con questa Europa. orse finirà come sempre con una pecetta finale, una nuova polemica. Ma nel frattempo l’azione dei leader di Lega e M5S che sta umiliando 177 uomini e donne, è riuscita: a) a umiliare anche gli sforzi delle nostre istituzioni, b) a preparare il prossimo scontro con l’Europa, che è quello sulla prossima finanziaria, c) a collocare i due vicepremier, agli occhi degli elettori, come gli unici uomini di azione in un Paese con una classe dirigente piegata o corrotta. 

Fornendo contemporaneamente un’utile scusa a priori per eventuali sconfitte di questi stessi leader. 

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giovedì 23 agosto 2018

Hannah Arendt. L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”

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Cultura

L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”

Hannah Arendt

Così descrisse (nel ’51) 

i populismi

del Terzo millennio

Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché. 

Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne». Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».

Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».

Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (…) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».

Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».

E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale». 

In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero». 

La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».

Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.

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Christian Rocca


Meno 38 miliardi La fuga record degli stranieri dai titoli italiani

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Economia

Meno 38 miliardi

La fuga record

degli stranieri

dai titoli italiani

La sfiducia nel nostro Paese è ai livelli del 2012

Ma il banco di prova sarà la bozza della Finanziaria

I mercati, a modo loro, votano. L’urna non sta nelle scuole il giorno delle elezioni, ma nei portafogli dei gestori a partire da quello successivo. Se comprano, significa che il governo gli piace. Se vendono, c’è da preoccuparsi. Negli ultimi due mesi dall’Italia sono usciti 72 miliardi di euro. Gli ultimi dati della Banca centrale europea confermano un importante deflusso di capitali. Trentaquattro miliardi di euro a maggio, trentotto a giugno. Gran parte di questi sono obbligazioni statali - rispettivamente 25 e 33 miliardi - il resto sono titoli obbligazionari di aziende private. Per trovare dati così negativi bisogna tornare indietro con le lancette al 2012, nel momento più delicato del governo Monti, quando la Spagna è a un passo dal default delle banche e la zona euro vicina al collasso. La percentuale di detentori stranieri di Bot e Btp dimostra che l’Italia sta attraversando una crisi di fiducia non molto diversa da allora: due mesi fa erano il 33,4 per cento del totale, ora sono il 30,8.

Al lettore anti euro farà piacere sapere che nel frattempo è aumentata la quantità di titoli pubblici in mano alle banche italiane, ma è un’arma a doppio taglio: quanto più è alto il debito detenuto dai propri istituti, tanto più è alto il rischio di alimentare la spirale perversa fra rischio sovrano e rischio bancario. Non solo: l’uscita dei capitali esteri prima o poi si riflette su crescita e occupazione. 

Cosa sta accadendo? A parità di rendimenti (sono attorno al 3 per cento) l’aumento dei tassi di interesse voluto dalla Federal Reserve rende più conveniente spostare i capitali negli Stati Uniti e l’acquisto dei più solidi Treasuries. È un fenomeno di cui c’è traccia in tutte le economie emergenti, e che sta contribuendo alla nuova crisi argentina. Ma la ragione principale del deflusso è l’aumento della sfiducia verso l’Italia. Le prospettive di crescita dell’economia stanno peggiorando, e nel frattempo il governo promette di andare allo scontro con l’Europa per ottenere un aumento del deficit ben oltre lo 0,9 per cento scritto nell’ultimo Documento di economia e finanza. 

Il giudizio degli investitori non è pregiudizialmente contro il Movimento Cinque Stelle o la Lega. La fuga non è iniziata il 4 marzo, ma solo dopo l’accordo fra Di Maio e Salvini e soprattutto dopo le prime indiscrezioni sul programma di governo, a metà maggio. Basta guardare la serie storica della Banca d’Italia: a marzo il saldo era stato positivo per 22 miliardi, ad aprile per dieci. 

La domanda che si fa chi ha in tasca titoli italiani è piuttosto semplice: il governo riuscirà a mantenere le promesse elettorali senza sfasciare i conti pubblici? L’atteggiamento della maggioranza giallo-verde finora è stato ambiguo. Da un lato il ministro del Tesoro Giovanni Tria, che insiste in una strategia di prudenza e gradualità, dall’altra il resto del governo, che minaccia di sforare il 3 per cento nel rapporto deficit-Pil e dice apertamente di temere la tempesta perfetta sull’Italia. Non ne parlano solo Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ma ora anche il (solitamente) prudente Giancarlo Giorgetti. Più che una profezia che si deve autoavverare, un alibi grazie al quale chiamarsi fuori dalle regole. Il momento della verità sarà la bozza di legge Finanziaria per il 2019, a metà settembre. Se la manovra verrà percepita come una minaccia alla stabilità dei conti e alla sostenibilità del debito, la fuga degli investitori non potrà che proseguire. A gennaio verrà meno anche il piano Draghi, e ciò significherà un ulteriore aumento dei costi per finanziare il debito. È un passaggio dal quale dipende la sopravvivenza dello stesso governo. 

Twitter @alexbarbera 

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alessandro barbera