ebook di Fulvio Romano

martedì 24 ottobre 2017

Il leghista senza fazzoletto verde che ha conquistato anche i moderati

LA STAMPA

Italia


Le mosse del governatore per intercettare la protesta

C’è un dettaglio che riassume Zaia più di tante parole. Anche ieri, come nelle ultime apparizioni pubbliche, mancava il fazzoletto verde sulla giacca. Quello che, per capirci, ostentano i leghisti duri e puri (tra cui qualche suo assessore). Completo blu scuro, cravatta e camicia bianca. Profilo da governatore. È questa sua capacità di interpretare il malcontento esterno e di essere, al contempo, uomo interno alle istituzioni che va studiata. Tra i politologi c’è chi propone il paragone con Macron, il presidente francese che, in questi tempi di crisi europea, vorrebbe riformare l’Unione. Ma lui, interpellato sul tema, glissa: «Macron? No, guardi - dice a La Stampa - io vorrei cambiare qualcosa qui». E poi precisa: «In Veneto siamo gente pragmatica». 

Un pragmatismo fatto di poche parole chiave. Su cui Zaia si è costruito più di vent’anni di attività politica. L’autonomia, certo. Ma anche: l’efficienza amministrativa e la vicinanza al territorio. Una storia che va avanti almeno dal 1998 quando, appena compiuti i 30 anni anni, divenne il più giovane presidente di Provincia eletto in Italia. «La carriera politica del giovane Zaia (ha 49 anni, ndr), dura ormai da tempo. Ma nonostante gli incarichi, anche governativi, ha sempre saputo porsi come portavoce di una comunità e delle sue specificità», spiega il politologo veneto Paolo Feltrin. Già presidente della Provincia, già ministro delle politiche agricole e ora, per due mandati, presidente di Regione. Senza contare gli incarichi all’interno del partito. Zaia è un politico di professione, insomma. Capace però di farsi legittimare da un popolo che non vede di buon occhio - per usare un eufemismo - le élite.

Il segreto sta forse in un partito, il Carroccio, che per dirla con le parole di Toni Da Re, segretario della Liga Veneta, si è man mano istituzionalizzato. Il Carroccio è una tra le forze politiche più vecchie presenti in Parlamento. «Dai consigli comunali a quelli provinciali, dai banchi dell’opposizione al governo: siamo tra i pochi che riusciamo a creare una classe dirigente e amministrativa capace», rivendica Da Re. Tanto che qualcuno già concede candidature a premier. «No, non andrà a Roma dopo aver ricevuto un incarico così vincolante da milioni di elettori», dice però il segretario regionale leghista. Salvo poi aggiungere: «Certo, in politica ne ho viste di tutti i colori...». 

L’invito a candidarsi, ieri è arrivato anche dall’ex sindaco di Venezia e filosofo Massimo Cacciari. Zaia, da parte sua, ha respinto al mittente. «Io resto qui», ha tagliato corto. Fatto sta che ormai, dopo la scommessa vinta del referendum, è diventato un punto di riferimento a Nordest per tutto il centrodestra. Mantenendo un tono rassicurante, anche quando se la prende per i troppi migranti mandati dal Viminale in Veneto. Non a caso, qualcuno l’ha già definito il «Doroteo della Lega». E anche ieri non ha mancato di darne prova.

«Non dichiariamo guerra e non cerchiamo la rissa a livello nazionale. Incontreremo il premier Gentiloni quando il nostro progetto sarà pronto», ha spiegato. Nessuna caduta di stile, nessun richiamo a «Roma ladrona», niente di niente. L’unica battuta se l’è concessa nei confronti Maurizio Martina, il vicesegretario del Pd contrario alla consultazione referendaria: «Mi risulta che lui faccia il ministro dell’Agricoltura, non il presidente del Consiglio», ha specificato non con poca autoironia visto che in passato è stato, lui stesso, titolare del medesimo dicastero.

«Anche in campagna elettorale ha scelto toni moderati, non urlati», dice il politologo Feltrin. Che fa un esempio: «Per quanto riguarda la vicenda catalana, anziché cavalcarla, ha deciso di differenziarsi ribadendo mille volte che quello veneto era un referendum approvato dalla Corte costituzionale». E poi, ultimo aspetto da non sottovalutare, è stato capace di porre la questione in maniera trasversale, senza «fazzoletto verde» appunto. Una consultazione a-partitica. «Non è stato percepito come il referendum dei leghisti ma di tutti i veneti», conferma Feltrin. E conclude: «Certo è lui il vincitore. Ma dovrà fare molta attenzione adesso: anche Mario Segni, sull’onda del successo del referendum abrogativo delle preferenze, si presentò come leader nazionale. Anche lui aveva l’investitura del popolo, ma potrebbe non bastare».

[dav. les.]

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