ebook di Fulvio Romano

venerdì 27 ottobre 2017

Pavese inedito Un poemetto western sul suo giovane amore

LA STAMPA

Cultura


Ritrovato un componimento in terza rima dantesca

Ispirato da Salgari, contiene già l’immagine del perdente

Emerge dalle carte giovanili di Cesare Pavese un testo che, nonostante qualche fuggevole segnalazione, non era mai stato prima d’ora pubblicato. Anche se riveste un particolare interesse per la sua singolarità e, quantunque acerbo, risulta per vari motivi illuminante. Si tratta di un poemetto in terza rima dantesca (ne esistono tre canti e un frammento) intitolato Amore indiano e ispirato dalla lettura appassionata dei romanzi di Salgari, come la trilogia che compone Sulle frontiere del Far West

Proprio così, un poemetto western (ora leggibile in: Cesare Pavese, Inediti, edizioni Galata, 123 pagine, 12 euro) che prende le mosse dalla descrizione fascinosa della «prateria ondeggiante», colma di fiori e di erbe, paragonabile soltanto alla interminata distesa del mare. Là entrano in scena due cavalieri, un prode cow-boy e la sua innamorata. Lui si chiama Aroldo: «Pare un centauro col cavallo nero:/è alto, muscoloso e nei suoi occhi/un lampo brilla intelligente e fiero». Lei, Olga, «è una diciottenne giovinetta,/che, galoppando sul caval leggero,/gli occhi tien fissi nella sua diletta/guida, che si rivolge e le sorride». 

L’alter ego indiano

L’amore perfetto che li avvince, il clima idilliaco, vengono bruscamente turbati con la loro cattura da parte di un’orda di indiani appartenenti alla tribù dei Pawnees. Sono destinati alla tortura e alla morte, ma il giovane guerriero Oklahoma, figlio del grande capo Nuvola Rossa, opera di notte uno squarcio nella tenda in cui sono detenuti e li mette in libertà. È rimasto folgorato dalla bellezza della prigioniera e, pur di non vederla soffrire, rinuncia a un suo possibile possesso. Saluta colei che invoca come «Angelo bianco», mentre s’invola circonfusa dalle prime luci dell’alba: «Eccola già sul poggio. Si distempre /l’immagine divina in nebbia d’oro». 

Oklahoma, con il suo amore infelice, è il vero protagonista del poemetto. Lo sorprendiamo, al suo apparire, mentre, «i pugni stretti/ai due lati del volto, fiso il guardo,/medita tristemente i suoi difetti». Egli che si è appagato finora di scorrerie e stragi, sente sgorgare in sé un sentimento nuovo. Che si accompagna però alla sua riconosciuta inadeguatezza rispetto alla bellezza di Olga. Va detto a questo punto che Olga si chiamava la ragazza di cui si era perdutamente invaghito il Pavese ginnasiale. Questo, insieme a certi tratti caratteriali, lascia capire che Oklahoma è l’alter ego di Cesare. Ed in Aroldo va identificato l’amico Mario Sturani, che Pavese invidiava per la spigliatezza del tratto e il successo nelle frequentazioni femminili.

Questo poemetto, scritto da un Pavese quindicenne, appartiene al suo tumultuoso apprendistato poetico. Viene pubblicato a cura di Mariarosa Masoero e con un contributo di Felice Pozzo. La prima, figura tra i più sensibili e collaudati studiosi di Pavese; l’altro il più agguerrito cultore di Salgari. Da questa felice congiunzione, il testo viene dissezionato e sollecitato nelle sue varie componenti. Sarà il linguaggio, che si vuole improntato a un’alta retorica, disseminato di termini e rime inconsuete e tributario in particolare della Commediadantesca. Saranno i numerosi, scolastici riferimenti alla mitologia classica e alla Bibbia. Ma non mancano puntuali riscontri con gli scritti di Salgari. A partire dagli stereotipi rappresentati dalla sue eroine: quella Olga con la pelle alabastrina, i capelli luminosi, le labbra coralline, la flessuosa vitina (e ci aggiungerei «i dentini», disposti «a doppia fila di perline», che sono per Salgari uno degli attributi della venustà femminile). 

In questo componimento, non privo di ingenuità, colpisce un tratto che in Pavese si rivelerà duraturo: è la sua immagine di perdente, confermata dagli scacchi amorosi. Si avverte inoltre il primato che assegna in quel momento alla poesia, anche di fronte a tematiche che, come Amore indiano, potrebbero disporsi più agiatamente in forme narrative. E Salgari? Sembrerebbe congedarsi da lui come dalla sua giovinezza: «Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,/ quanto tempo è trascorso...». Così nella poesia di apertura di Lavorare stanca, datata 1930. Ma nell’agosto 1929 scriveva ancora all’amico Carlo Pinelli di avere «passato l’inverno rileggendo Salgari e il ciclo dei moschettieri». E nel 1931, ipotizzando una collana di narratori, scrive ad Arrigo Cajumi: «... non mi dispiacerebbe di vedere il dotto Melville a fianco del vecchio e sempre ottimo Salgari». La magia del grande affabulatore ha tardato molto a rarefarsi e dissolversi nell’immaginazione e nell’affezione del Pavese maturo. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Lorenzo Mondo


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