ebook di Fulvio Romano

venerdì 24 febbraio 2017

E Casaleggio sognava un mondo senza tassisti

LA STAMPA

Italia


Grillo era contro le querele, «bavaglio dai potenti»: ora i grillini minacciano querele e esposti un giorno sì e l’altro pure. Casaleggio predicava il francescanesimo: ora i parlamentari ricevono in media oltre diecimila euro tra indennità e rimborsi (per non dire degli europarlamentari). Erano per le Pussy Riot, ora sono con Putin. Erano contro lo stadio, poi forse no, poi forse sì. Eccetera eccetera eccetera. Incoerenti anche con la loro stessa storia: Raggi vede in piazza i tassinari e s’affretta a unirsi, «sono con voi». Poi il disastro e le botte squadriste. E pensare che, in Veni, vidi, web, Gianroberto Casaleggio descrisse «il mondo perfetto» decretando l’estinzione dei tassisti e sognando un mondo in cui «petrolio e carbone sono proibiti insieme alla circolazione di macchine private. I mezzi pubblici sono gratuiti». Ottima idea; giriamola ai democratici tassinari romani.

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Jacopo Iacoboni



lunedì 20 febbraio 2017

Il suicidio perfetto e i suoi effetti (Sorgi)

LA STAMPA

Cultura

Gli effetti

del suicidio

perfetto

Si tratti o no dell’ultimo capitolo di una vicenda che se fosse un film s’intitolerebbe «Il lungo addio», la scissione di cui fino a tarda sera i due tronconi del Pd si rinfacciavano le responsabilità avrà subito conseguenze disastrose sul governo, sul Parlamento e sul Paese. Per questo, da Renzi e dai suoi avversari, ci si sarebbe aspettati un di più di cautela e lungimiranza, invece dello psicodramma a cui si è assistito. Un partito che esprime il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio, la gran parte dei ministri, i presidenti di quindici regioni su venti, i sindaci di grandi città (anche se non più Roma e Torino), i vertici delle maggiori imprese di Stato - e l’elenco potrebbe continuare -, un partito che pur senza aver vinto le elezioni si trova ad assolvere il ruolo di architrave del sistema, peraltro traballante, ecco, un partito così, prima di dividersi e aprire consapevolmente una fase di instabilità, avrebbe dovuto quanto meno pensarci meglio.

Eppure non si può dire che non ci abbiano riflettuto, anche se la sensazione rimasta, dopo una ventina circa di ore di dibattito da martedì in poi, è di aver seguito un copione scritto in anticipo, con la minoranza che fino all’ultimo ha contestato a Renzi, dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, la legittimità di guidare il partito.

ancor più quella di ricandidarsi alla segreteria, accusandolo di voler dar vita a un congresso-farsa. E l’ex premier che al massimo ha cercato di spaccare il fronte dei suoi avversari, e a un certo punto, complice l’intervento conciliante del governatore della Puglia Emiliano all’assemblea, sembrava quasi esserci riuscito.

Sulla carta, fino a domani, tutto è possibile, anche se ciascuna delle due parti in lotta, per favorire una ricomposizione, dovrebbe perderci la faccia. Ma a volte anche l’imprevedibile si realizza: basterebbe, in fondo, che i contendenti sollevassero gli sguardi dai rispettivi ombelichi, o aprissero le finestre delle stanze in cui s’è svolto il loro braccio di ferro, per accorgersi di ciò che potrebbe accadere. Il governo, finora condannato dalle incertezze del Pd a una precaria navigazione, condotta solo grazie alla pazienza e alla perizia del nocchiero Gentiloni, da oggi non ha più una chiara maggioranza al Senato né nelle principali commissioni parlamentari. Chissà con quali argomenti il ministro dell’Economia Padoan si ripresenterà stamane a Bruxelles, per discutere con i suoi interlocutori europei del dissesto dei conti pubblici e della necessità o meno di una manovra.

Le Camere che dal 5 dicembre lavorano, sì e no, un giorno e mezzo a settimana, per mancanza di accordo politico anche sulle questioni più urgenti, avranno in compenso due nuovi gruppi parlamentari, con presidenti, vicepresidenti e relativo appesantimento del lavoro, già affollato di rinvii, delle conferenze dei capigruppo, che dovrebbero fissare il calendario delle principali discussioni e votazioni del Parlamento, ma da due mesi e mezzo faticano a farlo.

Nel frattempo, nel Paese, non potrà che accentuarsi la campagna elettorale permanente che si trascina da quattro anni: da quel 25 febbraio 2013, cioè, in cui gli elettori italiani non riuscirono ad esprimere nelle urne uno straccio di equilibrio politico che consentisse al Parlamento di dar vita a una maggioranza stabile e a un governo. Fino al 4 dicembre, inaspettatamente, era stato miracoloso il percorso virtuoso delle riforme, abbattute tutt’insieme dal voto referendario. Si trattava, adesso, in condizioni sempre più complicate, di riportare in porto in tempi e modi razionali la nave della legislatura. Ma anche questa ragionevole prospettiva è stata capovolta dall’assemblea del Pd che ha sancito la rottura. Nei suoi oltre vent’anni di vita, il centrosinistra, e poi l’Ulivo, l’Unione e il Pd, ci avevano abituato a ogni sorta di turbolenza. Ma un suicidio così perfetto non si poteva neanche immaginare.

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Marcello Sorgi


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mercoledì 15 febbraio 2017

l procuratore dei minori: “Dovevano chiamarci” “Questi blitz sono inutili

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Italia

“Questi blitz sono inutili

Una telefonata e avrei detto no

a quella perquisizione”

Il procuratore dei minori: “Dovevano chiamarci”

«Sarebbe stata sufficiente una telefonata, e avrei sconsigliato la perquisizione. So bene che le forze dell’ordine hanno agito in modo formalmente corretto; ma non mi risulta che la Finanza abbia competenze particolari sui minorenni. Quanto accaduto dimostra che troppo spesso non vengono compresi la specificità e la potenziale fragilità dei ragazzi d’età inferiore ai diciott’anni».

Cristina Maggia è il procuratore minorile della Liguria e accetta d’intervenire sulla tragedia di Lavagna. 

La legge consentiva ai militari di perquisire ed è stato fatto con cautela. «Non ne dubito, ma quando ci si rapporta a soggetti così delicati occorre ulteriore sensibilità». Cosa si doveva fare? «Bastava chiamarci, siamo sempre reperibili e il confronto tra i magistrati e chi sta operando sul campo è fondamentale. Nessuno può avere la certezza che l’epilogo sarebbe stato migliore, ma perlomeno avremmo chiesto: “Che ragazzino è? Siete sicuri di voler perquisire la casa?”. Stiamo parlando di un incensurato che ha ammesso il possesso della droga, peraltro hashish e in quantità limitata. E che con ogni probabilità non sarebbe incorso in provvedimenti gravi, con il riconoscimento dell’uso personale». Lo spaccio davanti alle scuole è un problema serio. «Certo, il punto è quale strada si percorre per contrastarlo. Io comprendo e condivido la preoccupazione dei presidi, ma i passaggi successivi rischiano di sortire effetti storti: i dirigenti scolastici denunciano, le forze dell’ordine intervengono senza interpellare chi per professione approfondisce la devianza minorile. E soprattutto senza pensare alle potenziali conseguenze di operazioni che sugli adulti hanno tutt’altro esito». Ovvero? «L’azione penale sui maggiorenni ha fine repressivo, sui minorenni di recupero. Se arresto quattro spacciatori maggiorenni la conseguenza è circoscritta a quelle persone, alle loro famiglie, al loro ambiente, è accettato e previsto. Ma se scatta qualche provvedimento su uno studente con 10 grammi di hashish, moltissimi s’identificano in lui e le ricadute sono su ogni ragazzo della scuola. Se un sedicenne che studia, è un ragazzo modello e non ha precedenti con la giustizia, viene sorpreso con poco stupefacente, non reagisce come il criminale “cattivo”, ma sprofonda. Mentre la priorità è aiutarlo a riprendere la strada della correttezza, non sanzionarlo». Cosa si deve fare per tenere insieme esigenze non facilmente conciliabili? «Non servono blitz, ma indagini costruite, appostamenti che consentano d’individuare con certezza i pusher seriali per concentrarsi su di loro. Eppure quando dico certe cose durante i tavoli di coordinamento, noto facce sorprese sia fra gli esponenti delle forze dell’ordine che tra alcuni miei colleghi della magistratura ordinaria...». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Sinistra-grillini l’impossibilità di un’alleanza (Sorgi)

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Italia

Sinistra-grillini

l’impossibilità

di un’alleanza

Le dimissioni di Paolo Berdini da assessore all’Urbanistica della giunta del Campidoglio chiudono l’incresciosa vicenda che s’era aperta dopo le sue dichiarazioni alla “Stampa”: per quanto infatti Berdini avesse cercato di recuperare con una lettera al “Fatto quotidiano”, in cui rinnovava l’offerta di collaborazione alla sindaca, esponendo un suo personale programma edilizio, la Raggi era stata categorica fin dal primo momento. Respingendo “con riserva” le dimissioni dell’assessore che l’aveva definita impreparata al suo ruolo e, quel che è peggio, aveva allungato ombre sulla sfera personale dei rapporti con il suo stretto collaboratore Salvatore Romeo, la sindaca aveva chiaramente fatto intendere che l’assessore era giunto al capolinea. E anche di fronte al tentativo di Berdini di recuperare un filo di interlocuzione, aveva tagliato corto, mettendolo in pratica nelle condizioni di lasciare subito, prima ancora che si riuscisse a provvedere al suo rimpiazzo. Così l’uscita è maturata con le nuove “irrevocabili” dimissioni di ieri sera, accompagnate da un comunicato in cui l’ex-assessore provava a elencarne le cause politiche (le periferie della Capitale abbandonate da una giunta ormai tutta assorbita dal problema stadio), pur sapendo che non sarebbe servito a cancellare le vere ragioni della sua rottura con la Raggi e con i 5 stelle.

Il “caso Berdini” e il modo in cui s’è concluso sono serviti anche a dimostrare, se ancora ce ne fosse stato bisogno, l’impossibilità di stabilire alleanze normali con M5s o di collaborare da esterni nelle amministrazioni conquistate dal Movimento. Non è un mistero che questa era stata, fin dall’inizio della legislatura, nel 2013, l’ipotesi di lavoro a cui si era accostata una parte del Pd bersaniano, di fronte alla “non vittoria” del proprio leader e all’ineluttabilità, per governare, dell’alleanza con il centrodestra. Il fallimento dell’incarico di governo a Bersani e dell’aggancio dei grillini aveva già fatto emergere l’indisponibilità del Movimento a qualsiasi genere di alleanza e insieme la superficialità con cui un pezzo di Pd aveva ritenuto di poter attrarre il Movimento, fondato sulla protesta e sull’antipolitica, in un’area di centrosinistra. Questo tentativo di esercitare una sorta di egemonia su M5s, approfittando delle dimensioni impreviste della vittoria romana e della difficoltà della sindaca di mettere insieme un’amministrazione in grado di gestire i problemi della città s’è ripetuto, in un certo senso, con l’ingresso di Berdini nella giunta Raggi, e successivamente, proprio in questi giorni, con la mobilitazione della sinistra radicale romana a favore di una ricomposizione della frattura con la sindaca: puntualmente rivelatasi impossibile, com’era da prevedere.

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Marcello

Sorgi


martedì 14 febbraio 2017

L'ultimo azzardo del leader ( Sorgi)

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Cultura

L’ultimo

azzardo

del leader

Alla direzione del Pd che dopo i risultati del referendum doveva decidere sui destini della legislatura, del governo, e di conseguenza del Paese, è andato in scena il più classico del dialogo tra sordi, tra Renzi e la sua maggioranza che ha lasciato avvertire qualche scricchiolio, da una parte, e gli avversari della minoranza dall’altra. Al di là di qualche pallido tentativo di ritorno alle buone maniere, tra gente che in molti casi non si rivolge più la parola da tempo e si parla solo attraverso interviste a giornali e tv, i due schieramenti, divisi in quattordici correnti, sono rimasti ciascuno sulle sue posizioni. 

Renzi punta a far svolgere il congresso del suo partito in tempi brevi, entro aprile o maggio, per andare alle elezioni anticipate entro giugno, o al massimo settembre. Bersani ha chiesto che la legislatura arrivi alla sua scadenza naturale, in nome della necessità di dare al governo la possibilità di affrontare i più urgenti problemi italiani, e di posporre l’esigenza del Pd di rilegittimare il proprio vertice, misurando consensi e dissensi tra i propri iscritti ed elettori.

Ma poiché ridurre all’essenziale - Renzi sì o no - il dibattito interno, incarognitosi e giunto alle soglie di una scissione a meno di dieci anni dalla nascita del Pd, non sarebbe stato possibile, senza aggravare il penoso clima interno, e peggiorare in diretta tv l’immagine del più grande partito di governo, per quattro ore si è assistito a un confronto non del tutto mediocre sui destini della sinistra mondiale insidiata dal populismo arrembante, dalla destra trumpista e xenofoba vincente, dalla globalizzazione calante. Una discussione a tratti perfino interessante, per chi voglia farsi un’idea del panico e del senso di accerchiamento che accompagna una delle poche classi dirigenti di centrosinistra rimaste alla guida di un Paese importante come l’Italia, mentre tutt’attorno, dall’Inghilterra alla Francia all’Olanda, i nostri maggiori partners provano come possono a fronteggiare le proprie crisi politiche e quella più complessiva dell’Unione Europea. E una prova abbastanza esplicita - sebbene si sia trattato dell’inizio abbastanza estemporaneo di un dibattito destinato a proseguire - che anche il Pd, come quasi tutti i democratici e i socialisti nel mondo, di fronte alle sfide che tutt’insieme s’è trovato davanti non ha altre risposte che una sorta di indietro tutta, rispetto all’assunzione dì responsabilità che avevano caratterizzato le sinistre dell’inizio degli Anni Novanta, oggi guardati quasi come il momento di un grande errore e l’occasione di un tradimento delle idee e dei bisogni tradizionali del proprio elettorato. Dunque, basta mercati, privatizzazioni, liberalizzazioni delle regole del lavoro, terze vie tra capitalismo e socialismo, e via libera alle nostalgie d’altri tempi, statalismo, interventi pubblici, assunzioni (pagate con chissà quale capitolo del bilancio statale, oberato dal debito). Il tutto, coniugato con le parole-chiave del successo di Trump in America, declinate ovviamente a sinistra e nella lingua nazionale: «Prima l’Italia!» e «Protezione».

Ora, è lecito dubitare che al di là di qualche slogan elettorale - non dissimile da quelli adoperati, per perdere, dal leader laburista Corbyn in Inghilterra o dall’aspirante e sconfitto dalla Clinton candidato democratico Sanders in Usa -, queste proposte possano trasformarsi in soluzioni per i pesanti e crescenti problemi italiani. Come manifesto per una sinistra che voglia tornare all’opposizione sono perfette, e può darsi che servano anche a recuperare una parte di voti perduti, ma non la maggioranza che serve a governare. E va da sé che se questo dovesse diventare il programma del Pd, Renzi non potrebbe più esserne il leader: al dunque, questo sembra il vero obiettivo dei compagni ritrovati.

L’accelerata verso il congresso dell’ex premier, e tra qualche giorno segretario dimissionario del Pd, nasce di qui: sarà il suo ultimo azzardo, per cercare di non soccombere alle sirene del passato, di certo il più rischioso della sua recente avventura.

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Marcello Sorgi


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mercoledì 8 febbraio 2017

Addio al filosofo Tzvetan Todorov Celebrò l’uomo contro i totalitarismi

LA STAMPA

Cultura


Nato a Sofia, allievo di Barthes, difese i valori dell’Illuminismo

dagli oscurantismi e indagò l’universo concentrazionale

Uno studioso versato negli attraversamenti disciplinari e predisposto alla contaminazione. Un profondo «umanista contemporaneo» (come è stato definito in Francia) e un indomito intellettuale pubblico, europeista convinto. Ecco l’identikit del teorico della letteratura, storico delle idee («etichetta» che lui stesso preferiva a quella di filosofo) e saggista Tzvetan Todorov, nato a Sofia nel marzo del 1939 e scomparso ieri a Parigi all’età di 77 anni. Una figura, insignita di molti premi e riconoscimenti per le scienze sociali, votata alla rottura degli steccati tanto nel sapere quanto nel modo di pensare le società e l’umanità.

Todorov cominciò a muovere i suoi passi sulla scena intellettuale internazionale, dopo la laurea in filologia in patria, con il trasferimento nel ’63 per il dottorato a Parigi, dove fu allievo del celebre semiologo Roland Barthes, e approdò al Cnrs (il Centre national de la recherche scientifique), intraprendendo una brillante carriera che lo porterà a diventare direttore del Centre de recherches sur les arts et le langage presso l’Ecole des hautes études en sciences sociales. Fuoriuscito da uno dei Paesi più «osservanti» e liberticidi del blocco del socialismo reale, di cui descrisse in varie occasioni la perversa capacità di annullamento dei valori (e del valore) dell’individuo, Todorov svolse un ruolo essenziale nell’importazione nell’Europa occidentale della metodologia di analisi dei testi letterari sviluppata dalla scuola del formalismo russo degli Anni Venti (di cui curò una famosa antologia, pubblicata in Italia nel ’68 da Einaudi). Una proposta culturale che incontrò gli immediati favori dello strutturalismo transalpino, verso il quale si orientò da subito il lavoro di Todorov, con la sua ricerca di una scienza della letteratura (la «poetica») in grado di formalizzare le norme astratte e le leggi fondamentali della narrazione. Una visione, appunto, tipicamente strutturalista, veicolata anche attraverso la rivista di teoria letteraria Poétique da lui fondata, nel 1970, insieme a Gérard Genette, ma che saprà rendere via via meno ortodossa nel corso del decennio; in seguito, l’entrata in crisi della critica di impronta semiologica lo indurrà a spostare l’asse della ricerca verso il simbolismo linguistico e una concezione del testo in cui la centralità della «struttura» (e del «sistema») lasciava progressivamente il passo a una sua visione più «dialogica», fondata sulla consapevolezza della rilevanza della molteplicità delle influenze culturali e del confronto tra gli autori (documentata già da un libro come l’Introduzione alla letteratura fantastica, Garzanti).

Il congedo dall’approccio strutturalista lo conduce, negli Anni Ottanta, al nuovo periodo del lavoro sulla storia delle idee, costellato di saggi quali La conquista dell’America (uscito in Italia nel 1984 sempre da Einaudi, e dedicato all’annullamento delle culture indigene amerindie nel nome della colonizzazione) e Noi e gli altri sulle riflessioni, nel pensiero francese tra Settecento e Novecento, intorno al tema della diversità umana. Un’analisi incrociata e comparata, come d’abitudine, che ha fornito il sostrato per la sua nozione, basata su un’idea di moderazione e sulla razionalità, di un «umanesimo ben temperato». 

Queste posizioni lo porteranno, negli Anni Duemila, a individuare ne Lo spirito dell’Illuminismo (Garzanti, 2007) il lascito migliore della storia europea e il solo antidoto al dilagare dell’irrazionalismo e del revanscismo neoidentitario e xenofobo. L’intellettuale franco-bulgaro era entrato da qualche tempo nella sua fase di pensatore morale ed etico, che si era cimentato, nel volume Di fronte all’estremo (Garzanti, 1992), con l’abisso concentrazionario e il progetto di disumanizzazione attuato dai totalitarismi (che non è archiviato una volta per tutte, metteva in guardia, perché l’orrore rimane sempre in agguato sotto altre spoglie).

Il Todorov degli ultimi due decenni è stato il fiero avversario della dottrina dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, la firma di Libération che interveniva in maniera «militante» sui temi dell’attualità, e la voce coraggiosa che si faceva puntualmente sentire in questa nostra epoca di pruriti neototalitari rossobruni e di populismi, avendo – lui che disvelò la protervia e il «nichilismo» del comunismo della cortina di ferro – i titoli esemplari per farlo. 

Todorov è stato anche lo studioso multidisciplinare di Benjamin Constant e di Rembrandt, lo storico delle idee che ha rivendicato fortemente la tesi per cui il pensiero non è appannaggio esclusivo dei filosofi, ma viene espresso dagli artisti come dai teorici politici. E da tutti coloro che, di fronte alle minacce alla libertà e alla dignità degli individui, sono capaci di testimoniare e resistere, come i grandi Resistenti (da Pasternak a Luther King ed Etty Hillesum) del suo ultimo libro. 

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Massimiliano Panarari


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I re Mida della TV (che danno fiato ai nemici della libertà di informazione)

LA STAMPA

Italia

Le star

Clerici e Insinna record:

un milione e mezzo l’anno

Conti prende 130 mila euro a serata per condurre Sanremo

Ogni speciale di “Porta a Porta” frutta a Vespa 89.250 euro

Tra contratti di esclusiva e conguagli per le prestazioni extra i big della tv pubblica hanno chiuso in bellezza il 2016. Il contratto in assoluto più ricco è quello di Antonella Clerici: la conduttrice de «La prova del cuoco» e «Ti lascio una canzone» il 18 ottobre ha infatti rinnovato l’esclusiva con Rai uno per due anni (1 settembre 2016 - 31 agosto 2018) a fronte di un compenso pari a 3 milioni di euro lordi, 1,5 all’anno. Più o meno la stessa cifra va anche a Flavio Insinna, il re dell’access prime time e di «Affari tuoi» che per un anno incassa invece 1 milione e 420 mila euro (nuova scadenza contratto il 24 luglio 2017). Il triennale siglato con Lucia Annunziata («In mezz’ora», Rai3) vale invece 1 milione e 380 mila euro per una collaborazione esclusiva che va dal 19 settembre 2016 all’8 settembre 2019: 460 mila euro lordi all’anno. Sempre con Rai1 Piero Angela, a metà dicembre, ha invece confermato il suo contratto di collaborazione sino al 31 agosto 2017. Il compenso vale in tutto 1 milione e 800 mila euro: 1 milione 565 mila per il periodo 1 settembre 2013 - 31 agosto 2016, più altri 235 mila per arrivare al 31 agosto 2017 compresa «la partecipazione del collaboratore alla realizzazione di collane di dvd di carattere scientifico e storico». 

Il ritorno in Rai di Michele Santoro costa alla tv pubblica 2 milioni e 700 mila euro. Importo che però viene versato alla sua società di produzione, la «Zerostudios spa», a fronte della realizzazione per Rai2 di tre diversi programmi: «Italia», «M» e «Animali come noi». Assieme all’accordo ratificato il 30 settembre, attraverso una scrittura privata, Santoro però «si impegna a rinunciare agli atti e all’azione relativi al giudizio promosso nei confronti della Rai». In maniera tale da mettere una pietra tombale su un contenzioso decennale.

Tra i nuovi contratti stipulati va segnalato infine il quadriennale del nuovo direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, l’americano James Conlon. Per il periodo primo ottobre 2016-14 maggio 2017 percepirà 311.333 euro lordi, più o meno lo stesso importo del direttore uscente, lo slovacco Jurj Valcuha che per i quattro anni compresi tra l’ottobre 2013 e l’ottobre 2016 ha percepito in tutto 1.188.732 euro compresi i 64 mila euro di prestazioni aggiuntive che gli sono state liquidate l’8 luglio 2016.

Quello dei conguagli e delle integrazioni dei minimi garantiti, del resto, è un mercato altrettanto ricco in casa Rai. Ne sa qualcosa Bruno Vespa, che a fronte di un minimo garantito di 1 milione e 800 mila euro nel secondo semestre 2016 ha incassato un milione di euro per prestazioni eccedenti il contratto base: il 18 luglio gli sono stati infatti assegnati 760.400 euro per gli extra riferiti al periodo 1-9-2014/28-4-2016, in pratica 89.250 euro ogni puntata in più; il 27 ottobre 2016 a fronte di 419.100 euro maturati in più per il periodo 29 aprile-31 agosto 2016 gli sono stati invece assegnati altri 239.600 euro. Un anno di prestazioni extra a partire da agosto 2015 all’autore e regista Michele Guardì («Unomattina in famiglia» su Rai1 e «Mezzogiorno in famiglia» su Rai2) hanno invece fruttato 586.184 euro, 181 mila euro in più anche a Fabrizio Frizzi per prestazioni non previste dal contratto base nei primi 5 mesi del 2015 sia su Rai1 che su Rai2, e 313 mila a Massimo Giletti (Rai1) che pure parte da un minimo garantito pari a circa 500mila euro lordi l’anno. Come tutti i big anche il contratto di esclusiva di Carlo Conti è a sei zeri, compresi i 650mila euro di Sanremo. Le sue prestazioni «eccedenti il minimo» sono poca cosa: 60.500 euro appena per una settimana extra a inizio giugno, cifra da cui mamma Rai ha però trattenuto 14 mila euro «per la partecipazione del collaboratore al programma Amici». Ma ora che la De Filippi lo affianca al Festival il conduttore toscano si può ritenere più che ripagato.

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Di Maio dux: le prime liste di proscrizione..

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Italia

Di Maio

Una lista all’Ordine di giornalisti sgraditi

Luigi Di Maio (M5S) ha redatto ieri una lettera consegnata al presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino e pubblicata sul web in cui indica i giornalisti che non avrebbero «rispettato la verità» nei confronti del Movimento 5 Stelle e della sindaca Virginia Raggi. La Fnsi definisce «inaccettabili le liste di proscrizione e le intimidazioni. L’iniziativa dell’onorevole Luigi Di Maio è un tentativo maldestro di screditare un’intera categoria».


Di Maio dux: le prime liste di proscrizione..

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Di Maio

Una lista all’Ordine di giornalisti sgraditi

Luigi Di Maio (M5S) ha redatto ieri una lettera consegnata al presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino e pubblicata sul web in cui indica i giornalisti che non avrebbero «rispettato la verità» nei confronti del Movimento 5 Stelle e della sindaca Virginia Raggi. La Fnsi definisce «inaccettabili le liste di proscrizione e le intimidazioni. L’iniziativa dell’onorevole Luigi Di Maio è un tentativo maldestro di screditare un’intera categoria».


sabato 4 febbraio 2017

Campidoglio: tra oche e galli cedroni...

LA STAMPA

Italia

Verdone, che tifava per lei: “In Campidoglio

roba vecchia, sembrano i galli cedroni” 

Il regista: “Sembrano come il personaggio del mio film: damme

tutto a me che ce penso io che c’ho gli amici giusti” 

«Questi signori che si muovono attorno alla Raggi mi ricordano Armando Feroci, il personaggio del mio film Gallo Cedrone, che alla fine si butta in politica e promette di asfaltare il Tevere per farci una strada a quattro corsie. “Così se score…”. Si ricorda? Era uno che faceva mille cose, un mitomane. Un film del ’98, ma nella sua follia è molto attuale». In mezz’ora di intervista, Carlo Verdone - che dopo l’elezione della Raggi disse «tifo per lei» - sorride solo per alcuni istanti. «È vero, sono situazioni tipiche da commedia all’italiana, però stavolta faccio più fatica a vedere il lato comico. È la mia città, sono preoccupato e arrabbiato, non vedo vie d’uscita».

Galli cedroni, diceva… «Massì, i soliti personaggi che sanno benissimo come muoversi. “Damme tutto a me che ce penso io che c’ho gli amici giusti”. Roba vecchia, vecchissima, gente che si fa i cavoli propri, mentre ai cittadini non arriva niente. Se penso alla situazione delle buche mi viene da piangere, io vado in moto, a volte ho fatto anche delle segnalazioni sulle buche più pericolose in municipio. Mi hanno risposto “Domani lo facciamo, stia tranquillo”. E invece non succede mai niente. Roma sognava una ripartenza e invece è bloccata». La Raggi è al capolinea? Dovrebbe lasciare? Cosa le consiglia? «Le direi “Datte ‘na mossa, azzera tutta la squadra e da lunedì comincia a fare quelle poche cose basilari: le buche, i rifiuti, i trasporti”. E soprattutto: inizi a circondarsi di persone serie». Pensa che sia in grado di fare il sindaco? «Non so dirlo, forse non lo è, ma io le darei un’ultima chance. Se penso che potremmo perdere altri mesi per cercare un nuovo sindaco mi vengono i brividi, rischiamo di sprofondare. Resti lei, ma cominci a fare qualcosa». Finora cosa ha visto? «Ha infilato una sfilza di “No, no, no, nun se po fa, troppo cemento”. Ma ci sarà qualcosa che si può fare? La città ha bisogno di nuove occasioni per creare lavoro. Le Olimpiadi lo erano, ma hanno detto che mancavano i soldi. Io i conti non li conosco, ma una cosa la vedo: sono passati mesi dalle elezioni, i romani sono stremati, senza speranza, vedono il futuro come una minaccia. Ma con tutte le tasse che paghiamo almeno dei servizi minimi ce li volete dare?». Cosa si aspettava dalla nuova sindaca? «Che fosse una con tanta voglia di fare. Ma tutto si è subito aggrovigliato, anche per colpa delle tensioni tra di loro. Mi chiedo: hai un’occasione storica e la butti via con queste polemiche interne?». Colpa sua o di una città ormai ingovernabile? «È diventata ingovernabile nell’ultimo decennio. Roma ormai appartiene a tanti piccoli gruppi di potere in lotta fra loro. Una città soffocata dalla burocrazia, uffici e sottouffici fatti per accontentare qualche amico. Come dicevano i latini gli Stati più corrotti sono quelli dove abbondano le leggi. Una volta c’erano Andreotti e Sbardella, comandavano in 4-5 con una certa diplomazia, a modo loro. Gli ultimi sindaci sono andati tutti male, fatta eccezione per Rutelli. Ma non è solo colpa loro: c’è un concorso di colpa da parte dei romani, troppa maleducazione».  A Grillo cosa gli direbbe? «Che ha avuto coraggio a buttarsi in politica, ma adesso devono arrivare anche i frutti. E non è solo un problema di Roma: tutti smaniano per tornare alle elezioni mentre l’Italia va a picco. Ma mettersi a fare qualcosa no?». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

andrea carugati


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mercoledì 1 febbraio 2017

Hasta la sconficta

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Hasta la sconficta

Gianni Cuperlo (è vero, non bisognerebbe mai cominciare una rubrica con la parola Cuperlo, scoraggia la lettura, ma Cuperlo è simpatico e intelligente, fidatevi), insomma Gianni Cuperlo ha detto che Benoît Hamon, vincitore delle primarie socialiste in Francia, è «un ammonimento per il Pd», e anche per «una sinistra che ha detto troppi sì alle ricette dei nostri avversari». Un po’ come Walter Veltroni («Con José Luis Zapatero il pendolo della storia sta tornando a oscillare verso la nostra direzione») poco prima che l’esercito di Zapatero sparasse sui clandestini; e un po’ come Massimo D’Alema («Caro Blair, la tua straordinaria vittoria premia quella sinistra che ha avuto il coraggio di rinnovarsi») poco prima che Blair facesse la guerra a fianco di George W. Bush; e un po’ come Bersani («La vittoria di François Hollande può essere un passo determinante per invertire il ciclo disastroso della destra»), poco prima che Hollande andasse nei consensi sotto Marine Le Pen; e un po’ come Stefano Fassina («Renzi dovrebbe imparare dal discorso di verità che Syriza e Tsipras fanno»), due ore prima che Tsipras si consegnasse alla Trojka; e un po’ come D’Alema, di nuovo lui («la vittoria di Barack Obama è la sconfitta della cultura di Silvio Berlusconi»), molto prima che Obama, sconfitta la cultura di Berlusconi, vedesse sorgere la cultura di Donald Trump. Ecco, siamo proprio curiosi di vedere quale carognata combinerà adesso Hamon alla sinistra italiana. 

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Mattia Feltri


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