Cultura
Gli Imperi vengono e vanno. Nel 1884, l’Impero britannico era così dominante da imporre che il meridiano di Greenwich diventasse l’orologio del mondo. Questa decisione causò l’irritazione di Parigi, storica rivale di Londra; ma fu resa più o meno inevitabile dal dominio marittimo della Gran Bretagna di allora. Più di un secolo dopo, Greenwich rimane lo standard su cui si allineano le lancette di tutti. Ma la Gran Bretagna ha perduto la sua grandezza. Lo stesso è accaduto all’Impero zarista o all’Impero ottomano. E pochi giorni fa, al 19° Congresso del Partito comunista, il leader dell’ex Impero di Mezzo, la Cina, ha dovuto promettere che il suo Paese tornerà all’antica gloria nel giro di pochi decenni.
Gli storici contemporanei, da Paul Kennedy a Niall Ferguson, hanno dimostrato che questo ciclo - l’ascesa e il declino delle nazioni imperiali - si ripete a tutte le latitudini. Ma hanno forse trascurato quello che colpisce oggi: un Impero può anche dissolversi, anzi ciclicamente si dissolve. Ma la sua eredità resta potente sul piano emotivo. Nei Paesi ex imperiali, la nostalgia - il rimpianto di ciò che era e non è più - sta diventando un elemento fondante della politica interna. E quindi delle relazioni internazionali.
Prendiamo il caso della Gran Bretagna. Sarebbe quasi impossibile capire il dibattito su Brexit senza tenere conto che la perdita dell’Impero resta un trauma nazionale non dichiarato, Freud direbbe rimosso. I britannici sembrano ancora immersi nel limbo denunciato con chiarezza da Dean Acheson, segretario di Stato americano, nel 1962: «La Gran Bretagna ha perso un Impero e non ha ancora trovato un ruolo». Per chi ha perso un Impero proprio, è difficile pensarsi parte di un Impero altro, come potrebbe essere definita, in forme sui generis, l’Unione europea. E in effetti, il ruolo della Gran Bretagna nell’Ue è sempre stato contrastato, sia da parte inglese sia europea: in uno dei passaggi migliori del suo discorso a Firenze su Brexit, la prima ministro Theresa May ha ammesso che questo senso di estraneità fra l’isola e il continente non si è mai dissolto del tutto. Anche perché l’ambizione britannica rimane quella di sempre: restare al comando del proprio destino. Magari, come dichiarato con una certa superficialità dai Brexiteers, costruendo relazioni commerciali da «Impero 2.0». Un futuro immaginario, in nome della nostalgia del passato.
La peculiarità dei nostri tempi, tuttavia, è che la Gran Bretagna non è un’eccezione o il sintomo più estremo di questa sindrome della politica contemporanea. Pochi Paesi appaiono immuni all’ascesa di leader che fanno appello alla gloria nazionale passata; che coltivano e usano volutamente la nostalgia, insomma, per guadagnare consenso. Si va dagli slogan alla Donald Trump («Make America Great Again»), ai disegni di Xi Jinping sulla riaffermazione della potenza cinese, alle rivendicazioni di Vladimir Putin nell’ex sfera di influenza dell’Impero russo e sovietico, alle ambizioni neo-ottomane di Recep Tayyip Erdogan. Sembra l’epoca del nazionalismo nostalgico.
Meccanismi di questo genere sono sempre esistiti, in realtà. La novità è che oggi possono fare leva su una vera e propria epidemia di nostalgia, che tende ad idealizzare il passato, a considerarlo per molti versi migliore del presente. Le ragioni sono in parte socio-economiche: la percezione secondo cui si «stava meglio prima» è diffusa nella classe media occidentale, come risultato della crisi finanziaria del 2008. Si aggiungono ragioni demografiche: la popolazione che invecchia - fenomeno che comincia a coinvolgere dopo l’Occidente anche le nuove potenze economiche, Cina per prima - è più vulnerabile al rimpianto del passato. E gioca un peso indubbio il ritmo dell’innovazione tecnologica, alimento continuo di ansia nostalgica per individui e nazioni, impegnati in una competizione costante.
Certo, la nostalgia, risposta psicologica comprensibile all’impatto «spiazzante» della globalizzazione, ha anche forme per così dire «benigne»: la consapevolezza della propria storia ha il sapore della rassicurazione. Ed una forte coscienza nazionale è un fondamento decisivo per la solidità di una comunità. Vale ancora la frase di Vladimir Nabokov: «One is always at home in one’s past» (si è sempre a casa nel proprio passato). Tuttavia, la nostalgia - nonostante la sua aurea romantica - diventa spesso una patologia; e andrebbe considerata come tale. Quale forza potente delle relazioni internazionali di oggi, andrebbe contenuta invece che accarezzata dalla politica.
Siamo in una fase di transizione del potere globale, per sua natura rischiosa. Gli Stati Uniti non sembrano più avere la volontà di garantire per tutti la stabilità del sistema internazionale emerso dalle guerre del secolo scorso. I vecchi Paesi sconfitti, grandi potenze economiche, si muovono ormai liberamente: mentre la destra estrema fa il suo ingresso al Bundestag, il premier giapponese Abe progetta di modificare la Costituzione pacifista imposta dai vincitori. E’ la fine definitiva del secondo dopoguerra, in Europa e in Asia. Che lascia spazi alle potenze autoritarie. Mentre gli equilibri economici si spostano verso Est, le migrazioni modificano i vecchi assetti Sud-Nord e gli attori non statali competono per l’influenza globale come mai in precedenza.
La combinazione fra queste scosse tettoniche all’ordine globale e la diffusione orizzontale di sentimenti nostalgici non può che creare tensioni nazionali. O nazionalistiche. Tensioni rischiose e spesso irrazionali. Nostalgia del passato o coraggio di abbracciare il presente? Su questa scelta psicologica, in parte generazionale, democrazie occidentali e potenze autoritarie in ascesa si contenderanno il futuro.
Marta Dassù