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Tra gli sfollati dai monti della Val di Susa
Tra gli sfollati dai monti della Val di Susa
La sindaca sta per firmare lo sgombero «immediato e senza indugio» anche di se stessa. Sono le 2 di pomeriggio del sesto giorno di paura, a 800 metri d’altitudine il termometro segna 26 gradi. Un vento caldo e ostinato verso ovest continua ad alimentare questo balletto infernale di fiamme, che risalgono di cresta in cresta, saltando gli orridi e le valli in direzione opposta. Hanno già viaggiato per 12 chilometri. Ora il fronte del fuoco sta minacciando tre borgate. Devono andarsene tutti da lì, lasciare alpeggi, baite e bestie. Anche la sindaca Piera Favro deve preparare le valigie. Per 42 anni e tre mesi è stata maestra delle scuole elementari, sono i giorni più difficili della sua vita. «Siamo un paese povero, non abbiamo altra ricchezza che questa» dice guardando in alto. «Ho una tremenda tristezza addosso».
L’unica ricchezza qui è la natura. Sono i boschi di castagni. I faggi, i larici, i roveri. La pineta del Pampalù. L’oasi del Rocciamelone con le praterie in quota e quel piccolo pezzo di montagna, con un micro clima unico, che era il regno delle orchidee. «Sta bruciando tutto, stiamo perdendo la nostra stessa storia», dice la sindaca mentre in auto sale la strada tutta curve che porta verso le borgate in pericolo. Sono le frazioni Bianchi, Seghino Inferiore e Seghino Superiore.
Questa è una terra di battaglie. C’è la targa in memoria di Albino Favro, «partigiano della Stellina caduto per la patria il 20 giugno del 1944». Ci sono le scritte dei No-Tav, che proprio qui celebrano la data del 31 ottobre 2005, quando respinsero le forze dell’ordine. E sopra ogni cosa, un cielo tossico, denso di nuvole gialle e nere che oscurano l’orizzonte, fanno lacrimare gli occhi e bruciano in gola. «È stata una notte difficilissima, mai visto niente del genere», dice la sindaca. Racconta della preoccupazione del maresciallo dei carabinieri Antonio Soggiu e dell’impegno profuso da tutti. Di quella squadra di 20 vigili del fuoco che, circondati dalle fiamme, erano quasi in trappola: «Esperti, eppure hanno rischiato di morire». Racconta dei fumi nell’aria irrespirabile, così spessi da impedire agli elicotteri di volare carichi di acqua per lavare via questo incubo.
Non piove da giugno. Tutti ricordano l’ultimo temporale. Dopo quella volta, solo qualche spruzzo. Neanche una goccia ad ottobre. Il ghiacciaio è sparito. Il costone è giallo, completamente arido. I gusci delle castagne rotolano già incendiati lungo i sentieri, estendendo il fronte del fuoco. Ogni lembo di questa terra secca, a 30 chilometri dalle piste da sci, è altamente infiammabile. «Se il fuoco raggiunge la pineta del Pampalù sarà un disastro, lì ci sono i ripetitori telefonici delle forze dell’ordine e delle televisioni». La sindaca porta l’ordinanza anche a sua sorella Angela. «Non voglio andarmene fino all’ultimo», dice lei. «Questa è la casa costruita da nostro padre Beniamino. Lavorava alle acciaierie di Susa. Ha messo qui tutta la sua vita. Ogni singolo giorno di fatica».
Non c’è niente di peggio di questa impotenza. Non sentire neppure il rumore dei Canadair. Ognuno ha un posto da salvare, un piccolo rifugio, una casa del cuore. Borgata Truc. La Ganduglia. L’alpeggio Costa Rossa. «Chiamberlando sta bruciando», dicono i soccorritori che vengono giù con le facce nere di fumo. Lorenzo De Nardi è qui per la casa di suo padre: «È morto a luglio, non riesco a pensarci. Il lavoro di una vita che finisce così e io, come uno stupido, inutile…». La strada è per le autobotti e per gli sfollati. Manca l’acqua anche in alta quota. Gli invasi sono vuoti. «Forse ne è rimasta un po’ dalla sorgente del Rocciamelone», dicono. Ogni tanto le fiamme spuntano dalla nebbia. Allora si ridefinisce la geografia. «Mamma come scende!». «Sarà a mezz’ora dalle case».
Ezio Gianrellini, baffi lunghi e bianchi, ha vegliato per tre giorni e tre notti la sua baita. Ma ora non lo fanno più passare: «Nessuno sa dirmi se esiste ancora». Salgono i carabinieri del gruppo forestale. Scendono sette anziane con le valigie. Diciassette residenti della prima borgata evacuata. Erik e Oscar, due ragazzi, invece vogliono restare su a fronteggiare l’incendio. Sono due volontari. Come Davide Favro, 24 anni, alla prima chiamata della sua vita: «Domenica ho finito il corso. Ed ora sono qui, spaventato».
In Val di Susa si combatte ormai da una settimana. Il fuoco era partito domenica mattina sopra a Bussoleno. Come sia successo, non è chiaro. Tutti parlano di inneschi. Qualcuno di un barattolo di marmellata pieno di liquido infiammabile ritrovato, altri di una lampada cinese accesa vicino alla Sacra di San Michele, che sarebbe la prova del fatto che qualcuno si stia impegnando a devastare la valle. Ma i carabinieri dicono di non avere prove concrete che dimostrino il dolo. Non ancora, perlomeno.
«Però è difficile credere all’autocombustione», dice amaramente la sindaca Piera Favro. «Tutto questo non può essere partito per cause naturali o per una sigaretta. Mi ha colpito che mentre noi eravamo qui nel disastro, il terzo giorno, all’improvviso, si è acceso un focolaio sul versante opposto della valle. Per fortuna è stato spento in fretta. Ma è come se qualcuno si stesse divertendo con questa tragedia».
Di notte il fuoco si mostra nitidamente. Lingue rosse si staccano a leccare il cielo, per rituffarsi giù ad arroventare tutto. La Val di Susa brucia ancora.