ebook di Fulvio Romano

domenica 31 agosto 2014

Merkel, die Führer, minaccia Mario: alla prima che mi fai...

da Huffington Post

Angela Merkel chiama Mario Draghi: "Perché insisti sulle riforme piuttosto che sull'austerità?". Ma i portavoce smentiscono



Una non-telefonata, che ci sarebbe stata, ma di cui è "negato" il contenuto. A riportarla è il Der Spiegel, e l'argomento è forte: Angela Merkel avrebbe chiamato il presidente Bce Mario Draghi per chiedere conto delle sue parole, perché insomma il "nostro" Mario avrebbe posto maggior accento sull'opportunità di riforme strutturali piuttosto che sulla necessità di mantenere l'austerità di bilancio, per rafforzare la crescita in Europa. "Mario, e l'austerity?". Già, l'austerity di cui si chiede di allentare i cordoni ma su cui la Merkel tiene la barra dritta?

Questa domanda, sull'austerity, non ci sarebbe stata. O meglio, in un modo o nell'altro nemmeno la telefonata potrebbe essere avvenuta.

Senza citare fonti, la testata tedesca ha riferito che sia la Merkel sia il Ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble avrebbero telefonato al numero uno dell'Eurotower, la scorsa settimana, per chiedergli chiarimenti riguardo il suo intervento fatto a Jackson Hole qualche giorno prima.

In quell'occasione Draghi aveva sostenuto che sarebbe "utile" che la politica monetaria della Bce fosse fiancheggiata anche da "un ruolo maggiore della politica fiscale" nel quadro di importanti riforme strutturali. In particolare, Draghi aveva detto: "Nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire le necessarie riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi e le riforme strutturali nazionali per affrontare questo problema non possono più essere ritardate".

Ma il contenuto della nuova telefonata va riportato con i condizionali: dopo l'articolo infatti prima il portavoce della Merkel e poi direttamente la Bce ("è inesatto il fatto abbia chiamato Draghi per contestare le frasi dette a Jackson Hole") hanno smentito.

Una doppia smentita che non fornisce però ulteriori risposte. La Merkel è davvero così preoccupata da aver chiamato Draghi per chiedere lumi? La Bce non fornisce ulteriori dettagli ma conferma implicitamente che ci sia stata la telefonata. "Il contenuto della conversazione - chiosa il portavoce - non lo commentiamo e non lo riveliamo".



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"A l'an daje 'l cumìn". La lunga storia del cumino

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Aosta

Il cumino , una lunga storia

tra gusto e tradizione

Il cumino dei prati (carum carvi), che si può trovare fin oltre i 2000 metri su prati e pascoli, sta per aprirsi alla raccolta del seme «prezioso». I suoi fiori a ombrella bianca con il passare dei giorni si sta rinsecchendo e bisogna essere pronti per cogliere il frutto prima che l’autunno disperda i piccoli grani che si riconoscono anche per un taglietto simile, anche se molto più piccolo, al grano del caffè. Il cumino ha alcune interessanti proprietà: è diuretico, stimolante, carminativo e rinfresca la bocca. Un tempo serviva, come il chiodo di garofano, a migliorare l’alito dopo aver mangiato cipolle e aglio. Un cataplasma di semi serviva inoltre per gli umani e le bovine a calmare il gonfiore alle mammelle.

Oggi il seme è usato per aromatizzare pane, torte, biscotti, salse e sottaceti, cibi e bevande. Viene usato con il seme intero o macinato nelle cucine di tanti paesi, da Oriente a Occidente. Già i Greci tenevano il cumino a tavola come con il pepe o il peperoncino.

Viene citato nella Bibbia nel libro di Isaia, assieme al grano, all’orzo e all’aneto e nel Vangelo di Matteo.

I tedeschi con il cumino preparano il Kümmel, nome tedesco della piantina che ha dato il nome all’acquavite aromatizzata, un distillato incolore, in voga in Europa a partire dal Rinascimento.

Poi esiste un preteso risvolto magico di questa pianta. Nel Medioevo la superstizione raccontava che il cumino frenava gli amanti dal desiderio di fuggire, creava cioè un legame inscindibile. Si raccontava anche che impedisse ai polli di abbandonare il pollaio. Soprattutto si raccontava che portare dei semi di cumino alla cerimonia nuziale assicurava agli sposi un’esistenza felice.

Esiste tutt’oggi nel piemontese della zona del canavese un’espressione che si innesta su queste credenze. Si dice «a l’an daie al cumin» cioè « le hanno somministrato il cumino» in riferimento alle ragazze follemente innamorate di qualcuno.

Teresa Charles

Minime in vivace risalita, tra 16,9º e 20,1º....

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ALESSANDRIA17,228,816,9-vai

Da Van Gogh a Picasso, da Chagall a Modigliani, Frida Kahlo: Il super autunno italiano dell'arte moderna

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Cultura

Da Van Gogh a Picasso a Frida Kahlo

l’autunno super dell’arte moderna

Da Van Gogh a Picasso, da Chagall a Modigliani, Frida Kahlo e tanti altri: l’arte moderna sotto i riflettori nella stagione espositiva autunnale. Milano darà il via il 17 settembre a Palazzo Reale con «Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985», la più vasta e complessa mai realizzata in Italia, a cui seguirà il giorno dopo «Segantini». Il 20 settembre a Palazzo Ducale di Genova sarà la volta di «Frida Kahlo e Diego Rivera» (nell’immagine), seconda tappa espositiva dopo quella che si sta concludendo alle Scuderie del Quirinale. Sempre il 20, a Firenze, «Picasso e la modernità spagnola», che riunirà a Palazzo Strozzi oltre 90 opere dal Reina Sofia di Madrid. Dal 3 ottobre, a Palazzo Blu di Pisa, «Amedeo Modigliani», con opere provenienti in gran parte dal Centre Pompidou di Parigi. A Roma, dal 4 ottobre, il Complesso del Vittoriano ospiterà un’importante monografica dedicata a Mario Sironi, mentre dal 18 ottobre, ancora a Palazzo Reale di Milano, approda «Van Gogh. L’uomo e la terra», oltre 50 capolavori dalle maggiori collezioni mondiali per raccontare la vita rurale e agreste. Dal 24 ottobre al 25 gennaio «Giacometti e l’arcaico» al Man di Nuoro.



Culicchia: il primo Mac non si scorda mai

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Cultura

Il primo Mac

non si scorda mai

Più che una macchina, uno stile di vita

Arrivato sul mercato trent’anni fa,

apriva a tutti la Terra Promessa dei computer

«Orwell was an optimist» è scritto in sottili caratteri bianchi su una spilletta color blu comprata una trentina d’anni fa al mercato di Portobello Road, Londra, quando ancora non possedevo un computer e 1984 era uno dei libri che mi ero infilato nello zaino al momento di partire per il mio primo soggiorno nella capitale britannica. Non sapevo, scendendo all’aeroporto di Heathrow, che in quello stesso momento al di là dell’Atlantico un’azienda di nome Apple stava per mettere in commercio il primo Mac.

Lo battezzò ufficialmente Macintosh 128K, ed era figlio di un progetto inizialmente curato da Jef Raskin, l’esperto di interfacce convinto di poter realizzare un computer facile da usare e con un costo inferiore a 1.000 dollari. Di sicuro non potevo prevedere che trent’anni più tardi avrei scritto le righe che state leggendo proprio su un Mac, ovviamente di nuova generazione e leggero, argenteo, portatile: diversissimo da quel suo antenato beige che pur elegante e kubrickiano poteva ricordare ai più cinici tra i detrattori – non mancano mai – un ibrido tra uno scatolone e un televisore, ma con lo stesso identico Dna. Però ricordo bene come all’epoca si parlasse anche nei pub dalle parti di World’s End di un futuro nemmeno tanto lontano in cui in linea di massima tutti avremmo avuto in casa un computer, e non saremmo più stati capaci di farne a meno. Il che mi pareva assai inquietante e assolutamente in linea con le tesi del romanzo distopico di George Orwell.

Ecco: sono passate esattamente tre decadi da quando la ditta creata da Steve Jobs – che nel 1980 prese il controllo del progetto di Raskin, estromettendo quest’ultimo dalla Apple – ha immesso sul mercato il primo computer con un sistema operativo Mac OS, e di fatto ha cambiato il mondo. Non solo o non tanto perché da quel primo Macintosh si è poi arrivati ai suoi numerosissimi eredi e di conseguenza anche ai vari iMac, iPod, iPad e iPhone, alzi la mano chi non ne possiede almeno uno o comunque non ne ha mai sentito parlare, ma perché grazie alla sua interfaccia grafica quel capostipite della celeberrima stirpe di computer ha permesso a milioni di persone del tutto digiune di informatica di premere un pulsante, quello dell’accensione in alto a destra, per poi veder comparire una «scrivania», con tanto di «icone» sullo schermo e un «cestino» sottostante.

Già. Perché quel primo Mac, basandosi su un’interfaccia Wimp – acronimo di Windows, Icons, Mouse e Pointer - aveva dalla sua un’intuizione geniale: semplificare al massimo l’uso del computer, rendendolo intuitivo proprio in seguito all’introduzione delle icone ideate dalla designer Susan Kare, autrice tra le altre cose dei font Geneva e Chicago e del famoso Mac felice, il computer sorridente che per quasi vent’anni ha accolto gli utenti Macintosh, salvo poi essere sostituito dalla mela che rappresenta il logo dell’azienda. Grazie al nuovo sistema operativo e al talento grafico della Kare, che a dire il vero ben presto lasciò l’azienda di Cupertino, chiunque poteva avvicinarsi alla Terra Promessa dei computer senza aver mai fatto un corso di informatica: oltre alla scrivania e al cestino, altre metafore facilitavano le cose ai neofiti, a cominciare dalle finestre e dagli appunti, per tacere naturalmente del mouse, destinato tra l’altro a introdurre nel linguaggio corrente la parola «cliccare».

Per la prima volta nella storia, quella macchina complessa che fino ad allora era stata riservata a studiosi e professionisti si rivelò in grado di farsi comprendere a colpo d’occhio, dialogando con il resto dell’umanità per mezzo di semplici elementi visivi. Elementi che bastava «trascinare» col mouse per spostarli attraverso la scrivania o volendo nel sopraccitato cestino, così da cancellarli (ma non definitivamente, a meno di non «svuotare» il cestino medesimo).

Il primo Mac128K venne messo in vendita il 24 gennaio 1984, e per portarselo a casa bisognava sborsare 2495 dollari. Il fatto che non prevedesse una ventola comportava va da sé il surriscaldamento piuttosto rapido del computer. Quanto alla velocità, beh, meglio soprassedere: il 128K disponeva di un’unica unità floppy, non aveva un hard disc interno e conteneva poca memoria, tutte cose che contribuivano a farlo somigliare a una sorta di trattore da tavolo. Non a caso, se all’inizio di quell’anno da un punto di vista commerciale la risposta fu a dir poco entusiastica, alla fine del 1984 se ne vendevano meno di 10 mila esemplari al mese. Come si è detto, tuttavia, il suo lancio aveva ormai dato inizio a un mutamento irreversibile. Per dire: è col Mac che vedono la luce programmi come Word ed Excel, pensati dalla concorrente Microsoft di Bill Gates appositamente per gli utenti della Apple. Ma non si tratta solo di prodotti specifici e segmenti di mercato. Non a caso, Steve Wozniak, co-fondatore della Apple con Steve Jobs e di fatto inventore del personal computer, ebbe a dire un giorno che «il Macintosh è più di un computer: è uno stile di vita». Affermazione che, oggi lo sappiamo per certo, non era affatto azzardata.

E insomma: in quello stesso 1984, Al Bano e Romina Power vincevano il Festival di Sanremo con Ci sarà. Il governo Craxi aboliva la scala mobile e stipulava un nuovo concordato con la Santa Sede, grazie al quale la religione cattolica non sarebbe più stata considerata religione di Stato. In Canada moriva Gaëtan Dugas, prima vittima dell’Aids. A Milano veniva fondata la Lega Lombarda, poi Lega Nord. Pietro Longo, segretario del Psdi, dava le dimissioni da ministro del Bilancio perché il suo nome risultava tra gli iscritti alla P2. Enrico Berlinguer invece moriva in seguito a un’emorragia cerebrale, e al suo funerale partecipavano due milioni di persone. Tra i carcerati più o meno illustri di quell’anno: Mamma Ebe e Michele Sindona. Con un apposito decreto, Craxi consentiva alle reti televisive di Berlusconi di riprendere le trasmissioni, oscurate per pochi giorni dai pretori di Roma, Torino e Pescara. In India si verificava l’incidente di Bhopal. In Italia, la strage del Rapido 904. Tutte cose di cui in molti avremmo perso le tracce, se non fosse che nelle nostre case disponiamo di un computer. Facile da usare. Con un costo inferiore a 1000 dollari. «Orwell was an optimist» è scritto sulla mia spilletta comprata a Londra nel 1984. Jef Raskin, e con lui Steve Jobs e Steve Wozniak, sono stati invece a ben vedere solo dei realisti con i piedi ben piantati nei sogni, se mi è consentito parafrasare malamente il caro vecchio insuperabile Ennio Flaiano.

Giuseppe Culicchia


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Ristrutturazioni senza permesso

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Economia

La ristrutturazione

si fa senza permesso

Convenzioni con i Comuni in cambio delle licenze

Ristrutturazioni più facili, niente lungaggini e permessi per rifarsi la casa. Se la bozza approvata dal Consiglio dei ministri verrà confermata, si dovrebbe poter iniziare i lavori senza presentare alcun progetto. Persino in caso di interventi su parti strutturali degli edifici. E poi una serie di semplificazioni a cascata. Sono queste le principali novità in materia edilizia dello «SbloccaItalia». L’intenzione è chiara: snellire le procedure. E dove possibile magari ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese (ma senza gravare sulle finanze pubbliche); puntando anche sul recupero del patrimonio esistente.

Interventi interni

Le misure che più da vicino interesseranno la vita quotidiana degli italiani sono quelle sulle ristrutturazioni. La rivoluzione sarà equiparare la manutenzione straordinaria a quella ordinaria: l’abbattimento di un muro come una banale riparazione. Tutto senza «titolo abilitativo», ovvero con una semplice comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila); a patto che non comporti un aumento dell’unità immobiliare o una modifica di destinazione d’uso.

Resta ancora qualche dubbio su cosa succederà ad alcuni vincoli esistenti, come ad esempio l’autorizzazione del genio civile che serve per intervenire su elementi portanti. Possibile che vengano scaricati interamente sulla relazione del perito, che completa la comunicazione e assume un’implicazione anche «pubblica».

Cambi di volumetria

L’altra grande novità è su frazionamenti e accorpamenti delle unità immobiliari: la divisione, ad esempio, di una grande casa in due appartamenti distinti. O comunque tutti gli interventi che comportano una variazione del «carico urbanistico» (il complesso di esigenze a cui il territorio deve far fronte per un edificio). Per questo tipo di lavori fino ad oggi la normativa prevedeva una Denuncia di inizio attività (Dia), o addirittura un vero e proprio permesso di costruzione. D’ora in poi verranno classificati come «manutenzione straordinaria», e richiederanno solo una Segnalazione certificata di inizio attività (Scia). Con la possibilità, dunque, di far partire subito le operazioni, senza attendere alcun periodo di verifica.

Convenzioni per costruire

Il decreto punta anche a una maggior collaborazione tra Stato e privato, attraverso dei nuovi «permessi di costruzione convenzionati». Il costruttore firma un «contratto» con l’ente locale, con cui si impegna a soddisfare determinati interessi di carattere pubblico. In cambio ottiene il rilascio del titolo edilizio, e altri vantaggi. Di che tipo non è specificato, il testo si rimette alle singole convenzioni. Probabilmente di natura amministrativa e procedurale. Sicuramente non economica, visto che il decreto specifica che «non devono derivare maggiori oneri per la finanza pubblica».

Di minor portata appare invece la possibilità di realizzare mediante semplice Dia le varianti a permessi di costruzione. Più che una modifica, una specificazione alla normativa vigente, che già da qualche anno va in questa direzione.

Riqualificazione

Nel testo si parla anche di riqualificazione: in particolare, i Comuni potranno introdurre una maggiore differenziazione d’onere fra costruzioni nuove e ristrutturazioni.

Il decreto deve ancora essere discusso dai vari ministeri. Ma, rispetto ad altre parti, quella sulle semplificazioni non presenta problemi di coperture e non ci sono resistenze da parte del Tesoro. Si attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per avere il quadro definitivo. Poi i lavori potranno partire.

Lorenzo vendemiale



Belpoliti: Nella camicia bianca ( antisudore) il brand-Renzi, in continua mutazione...

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Italia

Informale ma d’impatto

Così la camicia bianca

spinge il brand-Renzi

Rappresenta lo stile del premier, in continua mutazione

Oscar Wilde ha detto che «l’eleganza si concentra nella camicia». Eppure è uno dei capi di abbigliamento più semplici. Forse proprio per questo Matteo Renzi, che adora la semplicità e l’immediatezza, s’è impadronito di questo oggetto e ne fatto un elemento essenziale della propria identità. Quando ha cominciato? A guardare le fotografie che lo raffigurano, da poco. Nel 2009, quando è sindaco di Firenze, o poco prima, da presidente della Provincia, le sue camicie erano ancora azzurre o a righe. Il nuovo look, preceduto dall’abbandono degli occhiali e con un nuovo taglio di capelli, comincia con le iniziative alla Leopolda. Non la prima del 2010, coi «rottamatori», ma dal Big Bang dell’anno dopo. Lì si è tolto la giacca e ha arrotolato le maniche. Così comincia anche il brand-Renzi, con le camicie confezionate dal sarto fiorentino Ermanno Scervino, «camicie coi baffi», per dirla con Maurizio Costanzo. Perché bianca? Per via del sudore, dato che Renzi suda copiosamente, come dicono i fotografi che lo seguono, e ha sempre con sé nella borsa, o nel trolley, una camicia pulita di ricambio. Il bianco, poi, è un colore simbolico; il suo è il bianco brillante che i latini chiamavano candidus, contrapposto ad albus, bianco opaco, da cui viene «candidato», colui che si accinge a cambiare il proprio status. Di status in pochissimi anni Renzi ne ha mutati diversi, da sindaco a Presidente del Consiglio. Bianco come purezza, forza, bontà, gioia, armonia. La camicia bianca ha una sua storia: i white collars, i colletti bianchi, ovvero gli impiegati. In maniche di camicia Renzi si è presentato al dibattito televisivo con Bersani – sembra un secolo fa –, che invece era in giacca. Renzi perse le primarie (2012). Bersani apparve hot, autentico e genuino, tuttavia Matteo era cool, più televisivo. Lo si ricorda nel 1994 accanto a Mike Bongiorno, alla «Ruota della fortuna». Bersani arrotolava la manica fino al braccio, Renzi solo all’avanbraccio. Il segretario del Pd d’allora si rivolgeva ai lavoratori – «Rimbocchiamoci le maniche», lo slogan elettorale – a operai e contadini. Matteo parlava a giovani e manager, alla nuova «classe creativa» dei coworking. Dietro alla sua camicia bianca c’è quella di J. F. Kennedy, anche lui con maniche arrotolate, e poi la camicia di Barack Obama. Per restare alle camicie dei politici, più o meno recenti, senza tornare a quella sbottonata di Aldo Moro nella polaroid delle Brigate Rosse, o alle camicie a scacchi della sinistra DC in vacanza, o a congresso in Trentino, di Donat-Cattin, Andreatta e Prodi, o alla camicia di Craxi e Martelli, congresso PSI di Rimini, basta paragonare la camicia di Matteo con quella dell’amico Walter (Veltroni), azzurrina, con il collo «button down», la camicia da polo, oppure alle camicie da batterista rock di provincia sfoggiate da Roberto Formigoni negli ultimi anni della sua presidenza alla Regione Lombardia. La camicia bianca di Renzi è diversa. Non fa parte dell’identità personale, quanto piuttosto del brand. Il problema delle marche – Coca Cola, Apple, Chanel –, ricorda Vanni Codeluppi, è quello di sviluppare una «costante attività di comunicazione». Sappiamo dell’uso che Renzi fa quotidianamente di Twitter (usa i social network come Berlusconi la televisione e i politici della Prima Repubblica la carta stampata), tecnica che fa parte di una precisa strategia commerciale. I brand hanno mutato la loro dalle star cinematografiche di Hollywood, prima, e da quelle musicali, poi. Dal punto di vista comunicativo, Renzi è come una marca, che si concentra sulla propria immagine, alla pari di Madonna e Lady Gaga. Pur continuando a farsi garante di prodotti e imprese, sostiene il semiologo Gianfranco Marrone, la marca è diventata oggi una forma discorsiva che, assorbendo discorsi altrui (politici, mediatici, sportivi, turistici), li ricarica di senso. I politici, con una sorta di feed-back, riprendono a loro volta la forma discorsiva del brand. La camicia, come la T-shirt, è parte dello storytelling di Matteo Renzi, insieme alla informale divisa-Fonzie, con cui a volte compare in pubblico; quest’estate indossava una T-shirt di Radio Deejay: giovinezza, velocità, cool. Renzi non possiede un vero stile; il suo è piuttosto un non-stile, un’assenza d’identità. Come Madonna, o altre star, può interpretare ruoli sempre diversi in rapporto alle situazioni e all’evoluzione del brand. Berlusconi con la maschera d’imprenditore e Bossi con la canottiera erano più fissi e statici. Il vero centro dello stile-Renzi è il vintage, termine diventato di gran moda, che indica la passione per le cose del passato recente (il microfono della Leopolda 3, la bicicletta di Bartali e la Vespa di D’Ascanio, proposte nello stesso spazio). Il vintage mood non arriva mai a una definizione piena, appare piuttosto come una «passione senza nome»; non ha un vero contenuto, come invece la nostalgia. È una passione per il passato non del passato. Malleabile, trasversale, contagioso, il vintage rivalorizza cose tra loro contrastanti, perché non è definito da veri valori. Ecco, il brand-Renzi è così: in continua mutazione. Con o senza gelato, in risposta all’Economist è irrituale ma è soprattutto Smart... Smart, come la società in cui ci stiamo improvvisamente trovati a vivere pochi anni fa. Lui se ne accorto per tempo.

Marco Belpoliti


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