ebook di Fulvio Romano

martedì 31 ottobre 2017

Manovra, pioggia di sconti Padoan tiene il punto con l’Ue

LA STAMPA

Economia

Manovra, pioggia di sconti

Padoan tiene il punto con l’Ue

Il ministro a Bruxelles: obiettivi fiscali in linea con il patto di Stabilità 

L’ultima legge di Bilancio della legislatura approda in Senato carica di bonus, nuovi e vecchi, infarcita di proroghe e rinvii agli anni a venire e col corredo di un bel pacchetto di assunzioni, dal comparto sicurezza alla giustizia, dai beni culturali all’università. Per il ministro dell’Economia Padoan, che ieri sera ha risposto alla lettera con cui Bruxelles ci chiedeva chiarimenti sul Documento programmatico di bilancio 2018, gli obiettivi fiscali previsti sono «in linea coi requisiti del Patto di stabilità e crescita» e riflettono «la strategia del governo di riduzione del deficit e del debito sostenendo allo stesso tempo la ripresa economica in atto». Quanto allo scostamento dello 0,1% sull’aggiustamento strutturale, secondo il ministro, questo è dovuto alla diversa metodologia di calcolo della crescita potenziale. Padoan segnala poi che le condizioni cicliche dell’Italia, per quanto in miglioramento sono «ancora difficili» e che la spesa per l’accoglienza dei migranti pesa per lo 0,25% del Pil. Quanto all’attuazione delle riforme, infine, il ministro ricorda l'adozione della prima legge annuale sulla concorrenza, l’introduzione del reddito d’inclusione e gli interventi nel campo della giustizia, della scuola e della Pa. Tutte misure che in 5 anni dovrebbero produrre 3 punti di Pil in più. 

Con l’avvio della sessione di bilancio oggi a palazzo Madama inizia a tutti gli effetti il viaggio della manovra 2018, che su alcune partite importanti si limita però solamente a spostare in avanti le scadenze (e i problemi). Come avviene ad esempio per le clausole di salvaguardia, che da sole valgono 15,7 miliardi su 20, che vengono fatte slittare al 2019 rimodulando a cascata tutti gli aumenti futuri delle aliquote Iva e delle accise. In particolare quella del 10% salirà di 1,5 punti dal 2019 e di altri 1,5 punti dal 2020. Quella del 22% aumenta di 2,2 punti dal 2019, poi di altri 0,7 punti dal 2020 e quindi dello 0,1 punti dal 2021. Sempre e solo per il 2018 viene bloccata la facoltà per gli enti locali di aumentare i tributi di loro competenza. Proroga al 2019 anche per la cedolare secca del 10% sugli affitti a canone concordato, che secondo piani iniziali avrebbe invece dovuto essere resa permanente. 

Col bilancio 2018 arriva poi una vera propria pioggia di bonus: una ventina tra conferme e novità. Come la detrazione del 19% sino ad un massimo di 250 euro per gli abbonamenti a bus e treni o quello del 36% per la ristrutturazione dei giardini, gli incentivi a favore dei vivai del calcio, sulle polizze antisismiche, per le pmi che si quotano in Borsa, per l’assunzione dei giovani e per chi lascia la cassintegrazione e trova un nuovo lavoro (14mila euro a persona). Confermato l’ecobonus (ridotto al 50%per infissi e caldaie), il bonus mobili ed il bonus giovani da 500 euro, l’iperammortamento al 250% ed il superammortamento al 130% per le imprese. A favore più poveri aumenta del 10% l’assegno legato al reddito di inclusione che per le famiglie più numerose tocca i 540 euro/mese. E infine s’allarga la soglia di reddito del bonus da 80 euro. Insomma ce n’è un po’ per tutti, tant’è che dall'opposizione parlano già di «manovra elettorale».

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PAOLO BARONI


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Al via l’agenzia ItaliaMeteo

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Economia

Clima

Al via l’agenzia

ItaliaMeteo

Più fondi per

la vulcanologia

Nasce l’Agenzia nazionale per la meteorologia e climatologia «ItaliaMeteo». Lo prevede la legge di bilancio: la struttura sarà in grado di fornire informazioni integrate sulle evoluzioni meteorologiche e climatiche del nostro Paese. L’agenzia avrà sede a Bologna, dove nascerà anche il Centro europeo di calcolo per le previsioni meteorologiche a medio termine. La manovra prevede risorse per finanziare gli investimenti tecnologici, che saranno di 2 milioni nel 2019 e 3 milioni per ciascuno degli anni 2020 e 2021.

Inoltre, sempre in tema di ambiente, nella legge di bilancio uno dei 120 articoli è dedicato all’istituto di vulcanologia (Ingv), che avrà in dote una somma di 5 milioni di euro all’anno a partire dal 2018 per sviluppare la rete di monitoraggio del territorio.

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La banda che si arricchiva con il Dna dei centenari sardi

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Italia


Diciassette indagati in Ogliastra tra scienziati e sindaci

I pm: hanno rubato le provette per vendere l’elisir di lunga vita

I vecchietti l’avevano capito subito: «Ora vogliono fare affari con il nostro sangue». E se è vero che gli anziani d’Ogliastra non s’intendono di business o di complesse questioni scientifiche, su questa vicenda la loro saggezza è stata davvero provvidenziale. «Venderanno il nostro dna per poi dire che hanno riprodotto il segreto della longevità», protestava il centenario Antonio Mura, il giorno che si è cominciato a parlare di un’asta internazionale per la cessione dei 230 mila campioni di dna raccolti tra gli abitanti di questo angolo di Sardegna. 

Un grande affare a basso costo, perché tra le migliaia di provette custodite qui a Perdasdefogu è nascosto il mistero della lunga vita. Ci sono, di certo, informazioni preziose anche per la lotta alle malattie ereditarie e per chiarire chissà quanti altri arcani medici. «Il Dna per me è una cosa strana, io non ho mai capito bene com’è fatto – sosteneva uno dei nonnini di Villagrande –. Ma sono sicuro che questo è il nostro tesoro». E infatti qualcuno aveva tentato di rubarlo. 

Il bottino era davvero grosso e non è un caso che per la prima volta in Italia la procura della Repubblica di Lanusei abbia aperto un fascicolo per furto di materiale biologico, recapitando 17 avvisi di garanzia. L’indagine si è svolta come se il caso fosse una rapina milionaria: le 25 mila provette sparite dalle stanze sterili del parco Genos di Perdasdefogu, gli investigatori le hanno considerate come una cassaforte piena di gioielli e banconote. Lo scandalo era rimbalzato subito sui media di mezzo mondo e nel giro di qualche giorno i carabinieri della compagnia di Jerzu avevano ritrovato la strana refurtiva nelle celle frigorifere del reparto di oculistica di un ospedale di Cagliari. Dove sarebbe finito? «Il nostro sospetto – sostiene il procuratore di Lanusei, Biaggio Mazzeo – è che si potesse creare una grossa speculazione e che i campioni potessero essere utilizzati per realizzare brevetti da rivendere alle case farmaceutiche. Nella vicenda si è creato un grosso corto circuito: si è partiti da una ricerca senza scopo di lucro, alla quale la gente aveva partecipato con entusiasmo, e si è arrivati a un intricato affare internazionale».

L’indecifrabile mistero dell’Ogliastra è un’ossessione ventennale per gli scienziati di mezzo mondo. Per scoprire i segreti dei centenari si sono fatti studi su tutto: sulle condizioni climatiche e lo stile di vita, l’aria e l’acqua, l’isolamento dei paesi e le abitudini alimentari. Il muro più difficile da abbattere resta quello delle caratteristiche genetiche della popolazione. E il dubbio principale non è mai stato chiarito: cos’hanno in comune le persone che abitano in una delle cinque zone del pianeta in cui si vive più a lungo? Trovare la risposta era proprio l’obiettivo del più grande screening genetico che sia mai stato fatto: 14 mila persone, tutte residenti in 10 Comuni dell’area centro orientale della Sardegna, sottoposte a prelievi e analisi. Il progetto si chiamava Shardna ed era partito nel 1995. Aveva iniziato Renato Soru, ancor prima di darsi alla politica, creando una società consortile con la partecipazione dei Comuni dell’Ogliastra. Qualche anno dopo, tutto il patrimonio è passato nelle mani dell’ex ospedale San Raffaele di Milano e successivamente, con il crac della fondazione di don Verzè, anche la banca del Dna è finita all’asta. L’unica offerta, nel 2016, l’ha fatta la società inglese “Tiziana Life Sciences” (quotata in Borsa e amministrata da un italiano) che si è comprata i campioni biologici e tutti i segreti contenuti all’interno con appena 258 mila euro. Qualche mese dopo però si è saputo della curiosa sparizione delle provette e ancora più curiosa è stata la scoperta fatta in pochi giorni dai carabinieri: i campioni di dna erano stati spostati a Cagliari dal professor Mario Pirastu, primo direttore scientifico della banca genetica ed ex ricercatore del Cnr. «Le avevo spostate qui per proseguire le ricerche, non c’è stato nessun furto». Ora anche lui è indagato, insieme ad altri ricercatori e a molti sindaci della zona. «Certo, hanno consentito di sfruttare i dati delle anagrafi per portare avanti questo screening – spiega il capitano Giuseppe Merola -. Tra l’altro i prelievi erano stati fatti con una finalità di ricerca e non per essere rivenduti». 

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nicola pinna


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“Ormai è una corsa contro il tempo Abbandoniamo petrolio e carbone”

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Naomi Klein: “Crisi climatica figlia del dominio dell’uomo”

«Siccità, incendi, tempeste tropicali in Irlanda: questa è la nuova normalità a cui dobbiamo abituarci, fatta di imprevedibilità e di instabilità». Naomi Klein, l’autrice di quel “No Logo” che nel 2001 fu uno dei testi teorici del movimento no global, si prepara a venire in una Torino lambita dagli incendi, dove giovedì alla Cavallerizza presenterà il suo ultimo “Shock Politics – L’incubo Trump e il futuro della democrazia” (Feltrinelli). E lancia l’accusa.

Signora Klein, da quando ha finito il libro le cose sono ulteriormente peggiorate? «L’estate che è appena passata ci ha tolto ogni dubbio. Non solo, come quelle che l’hanno preceduta, ha confermato la tendenza a superare i record assoluti di temperatura. Essendo questo un anno senza Niño, ci ha anche confermato che il fenomeno non è imputabile solo a quello». I temi del cambiamento climatico sono cruciali nel suo libro: perché se il suo compito è, secondo la sua espressione, quello di «unire i puntini», comprendendo nella propria interezza la complessità della crisi politica e di valori che stiamo attraversando, di certo sul clima «l’orologio sta battendo la mezzanotte». Siamo in tempo? «Sì, se abbandoniamo i combustibili fossili il più in fretta possibile e passiamo alle energie alternative nel giro dei prossimi venti-trent’anni. Un cambiamento epocale, certo, ma anche un’opportunità straordinaria, perché una riconversione di questa portata fatta a questa velocità significa anche la creazione di un numero altissimo di posti di lavoro. Naturalmente bisogna vigilare perché a questa nuova occupazione corrispondano salari adeguati. Ma bisogna anche rallegrarsi del fatto che la natura distribuisca le fonti alternative di energia in maniera equa, a differenza dei combustibili fossili che devono essere estratti, raffinati e trasportati con grande dispendio di denaro e sotto il controllo dei monopoli. Una volta approntate le infrastrutture di base, le fonti alternative, invece, non costano nulla». Sostiene che la lezione migliore sui temi del rispetto della natura le è arrivata dai Sioux di Standing Rock nel North Dakota, in lotta per l’acqua potabile. Ci spiega? «La crisi climatica è direttamente legata al rapporto che si è configurato nella storia fra dominati e dominatori: sono state la separazione dalla natura e l’illusione dell’uomo di essere padrone degli esseri viventi a portarci inevitabilmente a questo disastro. Ma c’è una sapienza più antica basata sulla fratellanza e la protezione reciproca, che non mette l’uomo al di fuori o al di sopra degli altri animali, della terra, dell’acqua e dell’aria: ed è a quella che dobbiamo rivolgerci». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

egle santolini


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Record di anidride carbonica nell’aria

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Italia

L’allarme delle Nazioni Unite


L’Onu: “Pianeta sempre più inospitale” 

Senza rapidi correttivi, a rischio gli obiettivi di Parigi. E in Italia aumentano le emissioni

Sarà sempre più difficile riuscire a limitare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico, prodotto dall’attività umana dall’inizio dell’era industriale. Lo confermano i dati diffusi ieri dalla Wmo, l’organizzazione meteorologica mondiale, l’agenzia dell’Onu che monitora clima e atmosfera. Ebbene, nel corso del 2016 la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera del nostro pianeta (il più diffuso dei gas climalteranti) ha superato il nuovo record degli ultimi 800mila anni. In media, nel corso del 2016, la presenza di CO2 nell’aria ha raggiunto quota 403,3 parti per milione (ppm) di concentrazione, contro le 400 ppm registrate nel 2015. Si tratta di un aumento, nel giro di soli dodici mesi, particolarmente forte e dunque preoccupante, visto che nello scorso decennio l’aumento medio è stato di 2,1 ppm ogni anno. 

Lo studio, che utilizza navi, aerei, e stazioni a terra per misurare le emissioni, afferma che la CO2 nell’atmosfera cresce 100 volte più velocemente rispetto alla fine dell’Era glaciale a causa della crescita della popolazione, l’agricoltura intensiva, la deforestazione e l’industrializzazione. L’ultima volta che la Terra registrò simili concentrazioni di anidride carbonica era nel Pliocene, da tre a 5 milioni d’anni fa: allora la temperatura era di 3 gradi superiore all’attuale, e il livello del mare tra i 10 e i 20 metri superiore a quello di oggi. Nel 1750 la concentrazione di CO2 era di 280 ppm, il 145% in meno rispetto ad oggi. 

Secondo gli scienziati a provocare questa accelerazione - nonostante la sostanziale stabilizzazione delle emissioni mondiali, che è una buona notizia, ma non sufficiente - è stata la presenza nel 2016 del fenomeno meteo del continente australe “el Nino”, che ha interagito con la vegetazione dei continenti aumentando gli incendi e rendendo meno efficace l’assorbimento della CO2 da parte delle foreste. 

C’è da preoccuparsi, perché anche se bene o male le economie mondiali sono riuscite a tenere fermo (ma non ridurre, come dovrebbe) il livello di emissioni di gas serra, di questo passo in venti anni o giù di lì arriveremo alle 450 ppm. Il che significa che saranno superati i 2 gradi di aumento della temperatura globale, cosa che secondo la scienza produrrà disastri meteo sul pianeta. Gli impegni stabiliti dagli Stati alla COP di Parigi del 2015 - peraltro parzialmente sabotati nel caso degli Stati Uniti - sono decisamente insufficienti a centrare questo obiettivo, dirà oggi il rapporto dell’Unep sul cosiddetto emissions gap, ovvero il differenziale di emissioni. Di qui la grande preoccupazione di Petteri Taalas, segretario generale del Wmo: «Senza rapidi tagli nelle emissioni di CO2 e degli altri gas serra - ha detto - inevitabilmente finiremo per registrare pericolosi aumenti della temperatura entro la fine del secolo, molto al di sopra dell’obiettivo di Parigi. Le generazioni future erediteranno un pianeta molto più inospitale».

E tra l’altro, fa notare il fisico Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, oltre agli Usa c’è un altro paese che sta facendo male: «È l’Italia - rivela - dove le emissioni negli ultimi due anni sono addirittura aumentate, cosa che rende difficile centrare gli obiettivi Ue del 2030». Per fortuna, c’è chi sta facendo molto meglio: è la Cina, il principale responsabile produzione mondiale di CO2, che hanno visto un leggero calo delle emissioni sia nel 2015 che nel 2016. Un po’ di tempo per salvarci c’è ancora. 

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roberto giovannini


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Case salve ma alberi bruciati “Così muoiono i nostri paesi” ( D. Quirico)

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La solidarietà nata in anni di lotta contro la Tav aiuta i montanari

“C’è dolore, non si può accusare la natura. Adesso ricostruiremo”

Seghino non è il nome di un paese. Qua e là una casa di pietra, un’abitazione ammodernata a puntino, un rudere di una stalla, un frutteto, un sentiero, una staccionata, una siepe, un ruscello.

Venti abitanti, qualcun altro che viene per il fine settimana ad aprire la baita dei padri e dei nonni. Quando ci siamo arrivati pareva di esser soli in tutta la valle, tanto c’era silenzio. Ed era uno stupore, un fragile incanto. 

Questo è Seghino, un tratto qualsiasi della montagna della Val di Susa, accovacciato sotto un’ala del Rocciamelone, un tratto di mondo con un orizzonte chiuso da altre montagne, la città con l’autostrada i negozi la gente il treno è a un passo, pochi minuti di discesa impervia eppure remota; tiepido anche d’inverno perché il sole lo svela dall’alba al tramonto, una montagna che la vicinanza dell’Alpe rende solenne, di una misteriosa solennità come accade ovunque la natura rivela ancora una sua nuda forma antica, simile a quella delle origini del mondo.

Lungo tutta la fascia delle montagna piemontese sono infiniti i luoghi che somigliano a questo. Montagna senza sci e senza alberghi. L’avvenimento è una corsa a piedi in salita che sfiancherebbe un camoscio, e le battaglie contro l’Alta Velocità che qui hanno segnato l’emblematico inizio: la prima trivella il 31 ottobre del 2005 e la prima battaglia, che non è ancora finita. Un mesto ancoraggio di vita, faticoso campo di lavoro, dove tra un muretto a secco e un burrone, tra un castagneto e un focolare, le generazioni si susseguono strette, povera terra fatta cara dal ricordo dei vecchi, dal ricordo del lavoro, dal ricordo delle annate buone e di quelle cattive.

«C’è gente che è scesa a valle per lavorare, sta dieci ore in fabbrica e poi risale qui. Ma non ha più forza e tempo per pulire il bosco, portar via le foglie e il secco ed ecco che gli incendi arrivano…».

Questa è Seghino che per la sua gente è una piccola patria, la piccola patria. Tre giorni fa dal monte è sceso l’incendio, arrivava da lontano il fuoco, da Bussoleno che in linea d’aria sono sette otto chilometri. Ha scalato gole, salito erte di pietra, ingoiato boschi. Ed è arrivato qui. Ieri la montagna fumava ancora come un’immensa caldaia, i Canadair e gli elicotteri facevano staffetta per lanciare acqua sui focolai che infiocchettavano quello che chiamano «il bosco nero» di fronte a Venaus e al cristiano miracolo di Novalesa. Basterebbe un soffio gagliardo di vento e… Eppure la gente, i 400 sfollati, su 600 abitanti, saliva di nuovo alle case con le borse e i fagotti con cui sabato era fuggita nella furia del fuoco che avanzava. E incontravi chi già spazzava la cenere e chi già veniva alla chiesetta di san Pietro, a un tornante che domina la valle, dove sono rimasti le bottiglie d’acqua vuote e i rifiuti lasciati da chi ha combattuto per ore contro le fiamme: per pulire e far tornare, almeno qui, tutto lustro. E al tornante di sotto trovavi i volontari che combattevano con una «ripresa del fuoco», che sembra imbattibile ed eterno. 

«Forse voi che venite da fuori non potete capire: per noi Mompantero e Seghino non ci sono più. Certo, le case sono state salvate dalla lotta di tutti, vigili del fuoco Croce rossa volontari, ma il bosco e gli alberi sono morti e quello è anche il nostro paese, la nostra casa…». 

Sono salito qui, ieri, per scoprire una piccola patria che si batte contro una modernità sentita come inutile, estranea, aggressiva e che si è trovata a lottare proprio con quella natura che vuole difendere ed amare, contro il fuoco e il vento. E ha vinto la battaglia salvando almeno uomini e case.

Non trovi gente infanatichita dal pericolo corso e dai danni, che strepita e accusa, neppure quelli che sono in prima fila nei cortei No Tav; ma parlano dell’incendio come di un avvenimento doloroso della loro famiglia, non per cercare la nostra pietà ma per espandere la loro. E anche dei piromani, di cui tutti sono certi, dicono senza odio, come di qualcosa che bisognerà accertare, primo o poi. 

Centinaia di loro sono volontari del servizio antincendio: spesso sono arrivati da lontano, dove lavorano, alla notizia che la loro valle e il loro monte bruciavano. Hanno difeso le case, portato l’acqua con i trattori, i pick up, le auto, tagliando la vegetazione intorno, guidando i vigili del fuoco su per la montagna.

«È la solidarietà che qui nella valle è rinata nella lotta contro un’opera che consideriamo inutile e dannosa, una cosa antica ricostruita per fili sottili, nell’aiutarci l’un l’altro, nel fare da soli, scoppia un guaio grosso come un incendio e ci rimbocchiamo le maniche senza aspettare che qualcuno venga ad aiutarci…».

I volontari: stanno costruendo da soli, senza fondi, la loro sede a Bussoleno, in una vecchia scuola professionale andata in rovina, il Comune paga solo i materiali... 

Quando entriamo nella valle è tutta piena di sole dentro al suo grande letto di verde. I monti, così ridenti alle falde, si fanno terribili di forme innalzandosi. La radio dell’auto trasmette le previsioni del tempo: l’annunciatore con giuliva insipienza dà per certi tempo bello, anticicloni ferrei, temperature in aumento. E qui contano i danni del «bel tempo». Perché Dio, ogni volta che si mette a perseguitare gli uomini, non conosce misura. Da giugno non è caduta acqua e il cielo resta terso, indifferente, sordo al muto appello della terra che ha sete. Le giornate si sono susseguite alle giornate senza che apparissero nuvole. Di notte le stelle corruscano senza ombre, crudelmente belle. La montagna, i boschi, si sono screpolati sotto il sole, sono avvizziti in strati pericolosi di foglie secche ed erba gialla. Aguzzi lo sguardo e vedi grandi macchie scure, come una lebbra nera che ha roso la pelle della montagna. Sono i boschi bruciati su su fino ai larghi prati del rifugio a duemila metri, ora neri come pece. Lì il fuoco si è fermato: perché non poteva mordere la pietra.

«Quindici anni fa ci fu un altro incendio, grande, il bosco cominciava a ricrescere, lentamente certo, con i roveri giovani… adesso di nuovo tutto è bruciato come se il tempo non fosse passato…». 

E poi è stato il vento, anzi i venti. Perché oggi è lieve e fresco ed è una delle ragioni per cui l’incendio è stato domato. Ma domenica e sabato era furente, teneva a terra gli aerei e recava un alito caldo che investiva e circondava le cose solide, vive e le attaccava simile a un acido. Ha avvolto Seghino dentro sciarpe di fuoco e i pini in fiamme scivolavano e rimbalzavano con i massi roventi, staccati dal calore verso il basso, incendiavano in dieci cento luoghi diversi la montagna.

«Il fuoco sembrava ritirarsi e poi tornava, il vento soffiava verso l’alto e invece lo vedevano scendere in basso, verso il paese. Perché? Due volte ci ha circondato e ci è venuto addosso… Era una guerra… una guerra …».

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Domenico Quirico


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i pericoli del contagio per l’europa

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Cultura


A quando risale l’ultimo governo in esilio in Europa? Come fa ad essere tale quello di uno Stato che non esiste? La fuga di Carles Puigdemont e dei suoi ministri a Bruxelles farebbe sorridere, se non rischiasse di esportare al resto dell’Europa le ricadute del confronto fra indipendentismo catalano e governo nazionale spagnolo: regioni contro Stato nazione. Il terreno europeo è fertile di fermenti regionali, velleità autonomo-indipendentiste e malcelate simpatie, a cominciare dall’Alleanza Neo-Fiamminga (Nva) - partito di governo. 

Con quest’improvvisa, e imprevista, piega la crisi catalana ne innesca altre due. La prima istituzionale; la seconda fra regioni e Stati dell’Ue. Nell’una è in prima linea il Belgio, se l’ex-presidente (è destituito) della Catalogna gli chiede asilo politico. Il procuratore generale di Madrid l’ha già accusato, insieme ad altre massime autorità catalane, di ribellione e sedizione, più altri reati minori. Cosa farà il governo belga nel momento in cui fosse emesso il mandato di cattura europeo?

Eseguirlo pedissequamente (la legge prima di tutto) o riconoscere una qualche natura politica dei reati e non consegnare gli accusati alla giustizia spagnola? 

Fin qui i leader europei hanno fatto quadrato intorno a Madrid, limitandosi a sommessi inviti di non usare la forza al governo spagnolo; Mariano Rajoy si aspetta che la solidarietà continui senza smagliature. Anche su un eventuale mandato d’arresto; altrimenti a che scopo i pesanti capi d’accusa? Madrid vuol dare una lezione a chi ha risvegliato il nazionalismo catalano. 

Per ora le autorità belghe evitano persino di confermare la presenza di Puigdemont a Bruxelles (ma, nell’Ue della libera circolazione, chi potrebbe impedirglielo?). Il primo ministro belga, Charles Michel, ne farebbe volentieri a meno. Ha subito negato la prospettiva di concessione di qualsiasi asilo politico ma quando la richiesta vi fosse dovrà anche tenersi buono il suo governo. L’Nva potrebbe opporsi alla consegna alla Spagna. La politica belga è fatta di acrobazie consensuali, ma questa non è facile. Mettiamo pure che Michel ci riesca.

Il problema vero è il cattivo esempio catalano ai regionalismi e nazionalismi latenti in Europa che non chiedevano di meglio di una scintilla per accendersi. Sbarcando, con i suoi ministri, proprio nella capitale d’Europa, Carles Puigdemont allarga il confronto che da un mese lo oppone a Madrid a tutti i compagni di cordata e simpatizzanti regionali. Troverà manifestazioni di simpatia e appoggio, quanto meno verbale, dovunque allignano sentimenti d’insofferenza verso le capitali nazionali - e verso Bruxelles. L’Ue non ha saputo coltivare la «sussidiarietà» del livello locale, col risultato che è spesso vista come un alleato del centralismo dello Stato nazione. La rivolta regionalista, spesso con pulsioni populiste, ha spesso per bersaglio tanto l’una e l’altro. Carles Puigdemont ne diventa l’improbabile eroe. 

Per il leader catalano questa è l’ultima carta da giocare. C’è un che di umiliante nella sua fuga. Arriva a Bruxelles perdente a Barcellona. Rajoy è riuscito a spiazzarlo con il bastone dell’art.155 della Costituzione e con la carota delle elezioni catalane il 21 dicembre. Madrid non toglie l’autonomia alla Catalogna. La sospende per meno di due mesi. Intanto si libera dello scomodo e petulante Puigdemont.

La vittoria di Madrid dimostra senz’altro la perdurante forza dello Stato nazione, specie se usata con l’inflessibile determinazione mostrata da Mariano Rajoy. Il controllo ristabilito sulla Catalogna gli costa però una spaccatura a metà della popolazione fra indipendentisti e unionisti. 
La spaccatura è profonda e non basteranno le urne del 21 dicembre a rimarginarla. Se non ci riuscirà, l’art.155 sarà stata una vittoria di Pirro. Inoltre chiudendo ogni valvola di sfogo ai sentimenti indipendentisti a casa, Rajoy ha dato le ali al nazionalismo catalano al di fuori dei confini spagnoli. 

L’ex-ministro degli Esteri sovietico, Eduard Shevardnadze, ci avvertì nel dicembre del 1990, solo due giorni prima delle sue drammatiche dimissioni: «State attenti, può toccare anche voi». Lo diceva all’ambasciatore d’Italia, Ferdinando Salleo, che gli portava un messaggio dell’allora Cee, di cui l’Italia aveva la presidenza. È passato più di un quarto di secolo. Le pulsioni disgreganti hanno continuato a covare sotto la cenere. Il contagio della folle corsa a improbabili e insostenibili «indipendenze» è ora un problema europeo - l’ultimo di cui l’Ue di Brexit, del populismo e dell’immigrazione aveva bisogno.

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Stefano Stefanini


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Gole profonde, riciclaggio e fisco per arrivare fino alla Casa Bianca

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Esteri


Il procuratore Mueller punta sulle rivelazioni degli inquisiti

Sospetti di collusione con Mosca sulla famiglia del presidente 

Le incriminazioni di Manafort, Gates e Papadopoulos minacciano Trump per tre motivi: «Primo, li spingono a collaborare col procuratore Mueller; secondo, potrebbero rivelare una linea di corruzione che arriva fino al presidente; terzo, costituiscono il potenziale canale e la motivazione per la collusione con Mosca».

La fonte che ci aiuta a capire gli ultimi sviluppi e le prospettive del «Russiagate» è molto vicina agli ambienti impegnati nell’inchiesta. «I capi di accusa - spiega - sono molto gravi e piuttosto facili da dimostrare. Manafort rischia una condanna ad almeno dieci anni di prigione, che alla sua età significa l’ergastolo. Quindi ha un forte interesse a collaborare con Mueller, per ridurre la pena. Il procuratore lo sfrutterà per ottenere informazioni sulla campagna, che vadano oltre i suoi reati finanziari. Manafort potrebbe tacere, sperando nel perdono presidenziale, ma questo atto creerebbe un grave problema politico per Trump, perché sarebbe peggio di Ford che salva Nixon. Se poi il presidente licenziasse Mueller, verrebbe abbandonato dal suo stesso partito. Gates è ancora più debole, e potrebbe cedere prima. Papadopoulos invece ha già iniziato a cooperare, e il suo caso riguarda direttamente la collusione con la Russia nella campagna: ora si tratta di vedere quanto in alto può arrivare».

La Casa Bianca sostiene che l’incriminazione di Manafort e Gates non minaccia Trump, perché riguarda eventuali reati finanziari commessi prima delle elezioni: «Questo è vero, ma fino ad un certo punto. Come prima cosa, il riciclaggio per essere tale va collegato ad un reato: nascondere i soldi a tua moglie - ad esempio - non basta per portarti in tribunale. Ma se il crimine che giustifica l’accusa di riciclaggio è legato in qualche maniera all’attività politica svolta da Manafort per Trump, ecco che la campagna presidenziale rischia di essere tirata in ballo». Anche la natura del reato contestato al manager mette in pericolo il presidente: «Manafort avrebbe riciclato fondi ricevuti dai russi per il suo lavoro in Ucraina, usando conti bancari aperti a Cipro. Ora Mueller potrebbe investigare se Trump, i suoi famigliari o la sua organizzazione hanno fatto qualcosa di simile. Hanno evaso le tasse? Hanno riciclato soldi provenienti da Mosca? Il procuratore a questo punto possiede gli stessi documenti che ha del manager anche per il presidente, ha tutte le sue transazioni finanziarie e le dichiarazioni dei redditi. E’ improbabile che Trump, i suoi famigliari o la sua organizzazione abbiano usato gli stessi conti di Manafort, ma non è escluso che abbiano impiegato le stesse tecniche o magari gli stessi intermediari. Questa è certamente una linea che gli investigatori stanno seguendo, e rientra nel loro mandato, perché potrebbe costituire la motivazione della collusione».

Il terzo elemento che interessa a Mueller, infatti, è proprio questo. «La Casa Bianca dice che le incriminazioni non riguardano la campagna elettorale, ma non è così sicuro. Alcune presunte attività criminali di Manafort sono avvenute mentre era il manager di Trump, ed è davvero sorprendente che nessuno sapesse nulla. Condurre un’inchiesta sul background di una persona che svolge una funzione così importante è la prassi per ogni partito, e nel caso di Manafort bastava fare una ricerca su Google per scoprire i suoi legami con i russi in Ucraina. Allora i casi sono due: o la campagna repubblicana è stata così negligente da non avviare nemmeno questa minima verifica per proteggere la propria integrità, oppure i legami tra il manager e Mosca non erano considerati un problema. Questo naturalmente alimenta il sospetto che Trump li avesse condivisi perché erano nel suo stesso interesse, riaprendo l’intera questione della collusione, che potrebbe essere confermata e allargata dalle rivelazioni di Papadopoulos». 

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paolo mastrolilli


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Rosso di sera

LA STAMPA

Prima Pagina


Un amico caro non va nei mari a ponente perché odia i tramonti. Gli rammentano l’orrore della fine. Forse sono detestabili anche i mari a levante, per la condanna di ricominciare. Ogni volta. Leo Longanesi scrisse nel ’44 che in Italia ci si conserva onesti il tempo per accusare gli avversari e prendergli il posto. Ci tocca di rivedere quest’alba, in eterno. Gli indici di gradimento di Donald J. Trump sono a picco, come gli indici di gradimento di qualsiasi altro presidente, da sempre, perché nella vita, come in democrazia, la delusione è figlia dell’illusione e ogni alba sembra promettere che il tramonto non arriverà. Così il maschio, dicono, è ancora all’alba di sé, e affonda le mani nelle carni delle donne per sua animalesca indole oppure no, è al tramonto, ridotto dalla società castrante a eunuco per la pubblicità del profumo. Tanti maschi in realtà si sentono a metà pomeriggio, per grado evolutivo, ma diciamo che sì, è il tramonto: quanto è preferibile, per le cose del mondo, un po’ di placata sensualità invece dell’alba scimmiesca, alla Kubrick, di chi leva la clava per stabilire la primogenitura sulla rinascita della morale, in una guerra fra leader nuovi e più nuovi - e dunque così tremendamente vecchi - su quei buoni propositi mattutini: i vitalizi, la lotta alla corruzione... Com’era bello Internet, in questi giorni, rutilante di foto di tramonti, per un momento in pace - discoste le rivoluzioni fatte per corrispondenza e preferibilmente in anonimato, soltanto perché c’è rosso di sera. Con la rima dopo, o anche senza. 

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Mattia Feltri


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lunedì 30 ottobre 2017

A spasso sul letto del lago di Casteldelfino...


Il nostro cielo oggi e un anno fa...

Oggi ed un anno fa, la stessa foto dallo stesso posto, l'arribi del Pancani a 1800 du quota, sopra Limone.
Un anno fa: niente neve e limpido in quota, smog da alta pressione in basso, fino si 900-1000.mt
Oggi: smog da fuliggine degli incendi fino quasi ai 1700-1800 ed uguale e peggioresiccità 


Il Tempo della Settimana

LA STAMPA

Cuneo


Questa settimana a scavalco tra ottobre e novembre si preannuncia piuttosto variabile, scandita in tre fasi ben distinte, ma - purtroppo - ancora senza o quasi piogge. La massa ventosa che tra sabato e ieri ha investito le Alpi settentrionali, acuendo il problema incendi nelle vallate e scuotendo di Foehn i fondovalle, aggira oggi l’arco alpino e penetra in pianura da Est, con nuvole sparse e freddo ormai decisamente autunnale.

La debole copertura, senza precipitazioni degne di nota, continuerà fino a domani provocando un calo sia delle minime che delle massime. Le prime potranno scendere sotto i cinque gradi, le seconde attorno ai 15°. Da mercoledì riprende invece quota da Ovest l’anticiclone che ormai da mesi chiude la porta alle ondate atlantiche apportatrici di acqua. A metà settimana risaliranno quindi le massime, che tuttavia si manterranno sotto o attorno i 20°, ma con possibili foschie, smog, e cali termici mattutini dovuti al «tappo» pressorio, provocato dall’anticiclone, che impedisce il ricambio dell’aria.

Più dinamico appare invece al momento il fine settimana. Dopo un aumento delle nubi venerdì un flusso umido penetra da Occidente fino a interessare Piemonte e Vallée con qualche debole pioggia che sembra dover privilegiare le province settentrionali e il Verbano. 

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Fulvio

Romano


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Il Lago Maggiore continua a calare Mai così basso in autunno dal 2007

LA STAMPA

Cuneo

La secca potrebbe ripercuotersi sulla navigazione

Il Lago Maggiore continua a calare

Mai così basso in autunno dal 2007

Sono evidenti anche sul livello del Lago Maggiore gli effetti del prolungato periodo di siccità, che sta interessando il Nord Ovest e le zone alpine, che circondano il Verbano. Da sabato infatti il Lago Maggiore è tornato sotto lo zero idrometrico e la discesa non sembra accennare a volersi fermare, almeno fino all’arrivo di nuove precipitazioni. Ieri alle 17 il Verbano aveva toccato i 9,1 centimetri al di sotto dello zero idrometrico: pur non essendo il record storico - che risale al 4 febbraio 1947 quando si toccarono i meno 65 centimetri - la situazione comincia a destare preoccupazione.

Quasi un metro in meno

Rispetto alla media del periodo che va dal 1942 al 2016 al livello del Lago Maggiore mancano quasi 90 centimetri. E così dovrebbero scattare nei prossimi giorni le limitazioni al traffico sul servizio di traghetti per i veicoli tra Intra e Laveno, per i quali sarà introdotta la soglia dei 380 quintali per i mezzi pesanti. Il periodo autunnale è tradizionalmente quello in cui il lago torna a riempirsi dopo la «magra» estiva: sono proprio i mesi di ottobre e novembre, che di solito registrano le piene e talvolta i fenomeni alluvionali. La pioggia però non cade ormai da settimane.

A mostrare gli effetti della siccità - oltre alle lunghe strisce di sabbia solitamente sott’acqua - sono i dati degli afflussi al lago: dal 1° gennaio sono transitati nel bacino 1.254 milioni di metri cubi d’acqua in meno rispetto al 2016, un calo importante, che si è inevitabilmente riflesso sul reticolo dei canali irrigui, che dal Ticino si irradiano verso la pianura piemontese e lombarda.

A raccontare un autunno da record negativo sono anche i dati dell’afflusso stimato di acqua al lago, riversata da fiumi e torrenti nel bacino: la stima di ieri indicava 36 metri cubi al secondo a cui si contrappongono 151 metri cubi di portate erogate, verso il Ticino e verso il sistema di canali.

Centraline in crisi

Il fiume Toce, che dall’Ossola dovrebbe riversare nel Verbano le acque delle Alpi, tra cui quelle del Monte Rosa, è quasi in secca, trasformato per alcuni tratti in una pietraia. Con la «magra» del Toce sono finite a secco anche alcune delle centraline idroelettriche che sono state costruite in questi ultimi anni. Lo sbilancio tra afflussi e deflussi spinge all’ingiù ancor di più il livello del Lago Maggiore a un ritmo tra i 2 e i 3 centimetri al giorno. Per trovare dati simili è necessario andare indietro all’autunno 2007. E intanto , dopo aver condizionato le colture estive di frutta e uva da vino con un calo di produzione del 20 per cento, così come segnala Coldiretti Novara-Vco, la siccità sta mettendo a rischio le semine di grano e orzo allo stato attuale pressoché impossibili.

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luca gemelli


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Il triste esodo dei montanari cacciati dall’arrivo del fuoco

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Cronaca

Fuga dalla Val di Susa

Il triste esodo dei montanari

cacciati dall’arrivo del fuoco

Pompieri sfiancati dai roghi senza fine: otto uomini intossicati

Dopo 79 anni passati qui, in questa casa che guarda la montagna sopra Mompantero, dopo una vita tra queste mura spesse la signora Adelaide Vottero se ne deve andare. Cacciata dal fuoco che scende sul paese è sembra che nessuno sia in grado di fermare.

È una precauzione, certo, ma lei come tutti quelli che abitano qui, su questa strada che costeggia tutte le borgate, deve andare via perché il fumo ha reso irrespirabile l’aria è il fuoco è indomabile. E non bastano i volontari che arrivano da tutta la valle, non bastano i pompieri, gli Aib, i contadini saliti da Druento con i loro enormi trattori. Otto vigili del fuoco, fra l’altro, sono rimasti intossicati e due di loro ricoverati nell’ospedale di Susa.

«Via tutti» e anche lei se ne andrà. «Anch’io faccio lo stesso: è un ordine, che cosa devo fare?»: Vittorio Vigna, che di anni ne ha 76, entra in casa per l’ultima volta di oggi. Chiude le finestre. Spranga le porte. Lascia il cibo per la gatta Luna e se ne va. «Sa, io con il fuoco ho sempre avuto a che fare: lo spegnevo da volontario. L’ho fatto finora a 60 anni suonati. Ma una situazione come questa non l’avevo mai vista». Due ragazzi lasciano la casa vicina con le bombole del gas in spalla. «Vittorio dobbiamo toglierle anche noi». Ecco, le bombole. Sono peggio delle bombe con il fuoco che avanza. Le portano vai tutti, le mettono in auto con la nonna che lascia la casa o le abbandonano nei prati dove il fuoco non può arrivare. 

Scene da un mondo in fuga. Come quella di quest’uomo con indosso la mascherina e in mano un tubo dell’acqua che bagna la casa come fosse un giardino. «E adesso mi faccio un’imbragatura con le corde e salgo sul tetto e bagno anche quello» dice. Il suo nome è Walter Febo. E fa la sola cosa che si può far in momenti così: provarci. «Se il vento mi porta giù un tizzone acceso perdo tutto. Lo sa che non piove da mesi? È tutto secco, il fuoco non lo fermeranno e io voglio salvare casa mia». Già, salvare le case, i frutteti, le vigne. La quotidianità sconvolta dal fuoco che corre nei boschi. Ci provano tutti. Da soli o aiutati da volontari. Come questi dieci tra uomini e donne saliti da Bussoleno per dare una mano. Li guida uno che fa il giardiniere e che si chiama Claudio Guglielminotti. Ha portato motoseghe e decespugliatori. E si affida alla buona volontà di tutti, dell’architetto dell’ufficio tecnico di Bussoleno, Antonella Pognant, di sua moglie Daniela di sua figlia Lucia. Lo fa gratis per salvare la casa di Lino Chiolerio. Gratis e a suo rischio e pericolo. E intanto Lino collega tubo, pesca acqua da canale e innaffia i frutteti davanti a casa. E guarda le fiamme che sono a meno di venti metri, su questo spuntone di roccia che a picco scende sulla sua proprietà. Motoseghe in funzione. Alberi che cadono: «Cerchiamo di creare una piccola area di protezione, dove il fuoco non può attecchire». Funzionerà? 

Alla stessa ora Domenico esce di casa con la roncola in mano e un cappello in testa. Dove sta andando? «Lassù, dove il fuoco sta scendendo». Ma è molto pericoloso, lo sa? «E lei sa che io abito qui, che conosco tutti e che se va male perdiamo tutto?». I contadini di Druento fanno ancora la spola con i trattori perorare acqua. Passa una donna carica di borse che trascinano un trolley. Non fa parte del gruppo di sfollati di Mompantero, se ne va perché ha paura. 

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Lodovico Poletto


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la solitudine del piemonte nell’emergenza

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Cultura

la solitudine

del piemonte

nell’emergenza

Non c’è bisogno di essere fisicamente sui monti che bruciano. Non c’è bisogno di dover scappare di casa perché le fiamme la lambiscono. Non c’è bisogno di abitare a Torino per scrutare con angoscia la nube rossastra e cupa che l’avvolge. Basta guardare le foto e i filmati agghiaccianti che compaiono sui giornali, in tv o sulla rete per comprendere la situazione drammatica in cui una Regione come il Piemonte si trova ormai da molti giorni e, purtroppo, senza che le previsioni meteorologiche, per altri giorni, offrano conforto.

Eppure, sembra che uno strano «silenziatore d’allarme» sia stato applicato a una emergenza così grave un po’ da tutte le autorità che dovrebbero intervenire con l’urgenza indispensabile, con tutti i mezzi disponibili, chiedendo l’aiuto e facendo ricorso a tutte le forze che un Paese come l’Italia dovrebbe mobilitare in un caso del genere. 

Hanno cominciato gli amministratori locali a non proporzionare le loro richieste di assistenza per i rischi che correvano i loro territori e i loro abitanti, forse un po’ per l’orgoglio di far da soli e un po’ per quella consueta ritrosia piemontese che rifugge il lamento.

Stessi atteggiamenti hanno mostrato autorità piemontesi e torinesi. Anche per costoro quel «silenziatore» può avere parecchie motivazioni. 

Da una parte, la presunzione, alimentata da scarsa consapevolezza della gravità dei pericoli e delle enormi difficoltà di far fronte alla vastità del territorio devastato dalle fiamme, di possedere forze sufficienti per il controllo e lo spegnimento degli incendi. Dall’altra, il timore, del tutto incomprensibile, di esagerare un allarme che, invece, aveva tutti i motivi per essere gridato con quella forza che la situazione richiedeva.

Così, davanti a questo «bon ton» piemontese e torinese, in questo caso tutt’altro che buono, il governo si è adeguato al generale tran-tran, sommesso e distratto. Né il presidente del Consiglio ha fatto sentire la sua voce e, soprattutto, ha assunto decisioni opportune in aiuto del Piemonte, né lo ha fatto il ministro dell’Interno, solitamente, bisogna ammetterlo, pronto ad adottare iniziative efficaci e tempestive. La ministra della Difesa, Pinotti, si è limitata ad accogliere la richiesta di 60 alpini per controllare che i piromani non proseguissero nelle loro folli imprese incendiarie. E ci mancava che dicesse di no. 

Da parte delle organizzazioni di volontariato, infine, che da Nord a Sud del nostro Paese si sono sempre mobilitate con grande entusiasmo, con grande senso di solidarietà, ma anche con grande capacità operativa, non sembra che, in questo caso, si sia avvertita la solita disponibilità a intervenire.

Ecco perché l’impressione è quella di una sostanziale solitudine della Regione di fronte a un’emergenza quale mai si è presentata in questo territorio, almeno in tempi recenti. Sarà colpa della proverbiale sobrietà sabauda. Sarà colpa dell’abitudine che il Piemonte ha dato all’Italia di non sollecitare un aiuto nazionale, neanche quando è indispensabile. Sarà colpa di una disattenzione generale che corrisponde, parliamoci chiaro, a un interesse particolare di molti italiani. Sarà colpa dello scarso timore delle autorità governative e dei partiti nazionali per reazioni di indignazione che gli abitanti di una Regione come il Piemonte non sono soliti manifestare. Ma è ora che tutti, in Italia, comprendano la gravità di quello che sta succedendo e che non continuino a volgere il capo da un’altra parte. 

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Luigi La Spina


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Girona - Madrid 2 a 1: Nel cuore dell’indipendentismo la rivalsa arriva sul campo da calcio

LA STAMPA

Esteri

 

Successo storico del Girona con il Real Madrid, simbolo del governo 

I cori dei tifosi allo stadio: “Benvenuti nella repubblica catalana”

L’ordine era chiaro: non mischiare calcio e politica. «Ma poi entri e vedi questi qui di Madrid, come si fa a dimenticarsi della nostra lotta?». Stadio Montilivi, Girona, nel cuore dell’indipendentismo arriva il Real Madrid, «il simbolo di tutto quello che vogliamo metterci alle spalle», dice un tifoso entrando. 

Il calendario della Liga ha fatto uno scherzo ai campioni d’Europa e una banale trasferta in casa di una neo promossa, una passeggiata di salute o poco più, si trasforma in un assedio in terra ostile: «Benvenuti nella Repubblica catalana». Il precario impianto, alla periferia della città, diventa un catino spaventoso, anche per gente preparata a tutto. Sugli spalti bandiere indipendentiste, non tantissime «perché ormai siamo già liberi», dice il medico Santi, con la faccia di chi sa di esagerare. È anche il giorno del patrono, Sant Narcis e i significati sono talmente tanti che «il risultato non conta», si sente ripetere. Due ore più tardi nessuno la pensa più così. 

Davide contro Golia, immagine che è facile da adattare: Cristiano Ronaldo contro tal Portu, il piccolo Girona contro il mitico Real e, in fondo la Catalogna contro il resto del mondo, che non riconosce la nuova nazione. Come andrà a finire per Puigdemont e soci non è chiaro, forse non bene. Ma al Montilivi il miracolo avviene: la squadra del presidente destituito e resistente batte quella del suo nemico Mariano Rajoy e gli occhi lucidi si sprecano al fischio finale. Lui, Puigdemont, abita a meno di dieci chilometri da questo stadio, eppure ha preferito non esporsi. L’ultima volta che è stato qui, si giocava contro il Barça, la seconda squadra di tutti gli abitanti di Girona («la prima è quella che gioca contro il Madrid», scherza David abbonato della curva nord). Mancavano allora pochi giorni al referendum indipendentista e il presidente fu accolto come un eroe. Stavolta si limita a un tweet, ma con mille risvolti: «La vittoria è un esempio utile anche per altre situazioni», scrive con evidenti riferimenti personali.

Al suo posto in tribuna autorità ieri sedeva Florentino Perez, presidente del Real Madrid, uno degli uomini più potenti di Spagna. Quando Florentino entra l’accoglienza è gelida, ma non aggressiva. Qualcuno gli grida contro, «ladro», ma è nulla rispetto a quello che si sente in un qualunque stadio italiano. Un giovane gli sventola sotto il naso una bandiera catalana, ma lui fa finta di nulla, sorridendo come solo un «todo poderoso» sa fare. Pur in un ambiente civile, il presidente è assediato, dalla sua soltanto Emilio Butragueño e qualche dirigente: alla sua sinistra, una poltrona più in là c’è la sindaca di Girona, Marta Madrenas, con il fiocco giallo sul bavero che ricorda la detenzione dei due leader indipendentisti, una che ha fatto levare la bandiera spagnola meno di 48 ore fa dalla sede del Comune. Alla destra, invece, c’è Roger Torrent, dirigente di Esquerra Republica, il partito che con più tenacia ha portato avanti il sogno della secessione. Una fila più in alto, c’è invece Pere Guardiola, fratello di Pep, azionista del Girona e di solida famiglia indipendentista. Insomma, anche senza Puigdemont, Florentino è circondato.

Quello che non ci si aspettava è che circondassero in campo anche Cristiano Ronaldo, Benzema e Sergio Ramos. Il primo tempo scorre tranquillo fino al minuto, 17, e 14 secondi, il momento che ricorda l’anno della sconfitta della Catalogna (11 settembre 1714): si alza il coro «indipendenza indipendenza» e poi «libertà, libertà». Si alzano tutti in piedi, si sventolano le «esteladas», i vessilli secessionisti e si guarda la tribuna autorità con occhiate di sfida. Nel piccolo settore ospiti ci sono invece le bandiere spagnole dei tifosi rivali, «se è una provocazione ce ne freghiamo», dice Santi al figlio. La politica si prende i suoi spazi, ma il Madrid non se ne accorge e passa in vantaggio, «come è normale che sia» dice il signor Albert. Nell’intervallo nessuno ci crede più e si torna a parlare dell’articolo 155, che da oggi consentirà alla Spagna di operare in lungo e largo nell’amministrazione catalana. Nel secondo tempo, però, arriva una rimonta incredibile, che costringe tutti a fare paralleli, magari forzati: «Ce la faremo anche noi». I campioni crollano miseramente: Cristiano Ronaldo va a sbattere contro la difesa, Sergio Ramos rincorre affannato anonimi attaccanti, persino Isco, quello che di recente ha umiliato l’Italia, dopo aver segnato lo 0-1, sbaglia tutto e finisce in balia dei mestieranti di Puigdemont. Finisce 2-1 per il Girona, un regalo agli amici del Barcellona che allungano in classifica a +8.

Zidane resta impietrito, «pensiamo al calcio e non alla politica», aveva detto prima di arrivare qui. Ma non sapeva che al piccolo Montilivi si cercava un trionfo che altrove sarà molto più complicato da ottenere. 

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francesco olivo


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Più paura che solidarietà Così vediamo gli immigrati

LA STAMPA

Italia

Più paura che solidarietà

Così vediamo gli immigrati

I risultati della ricerca di “Community Media Research” per la “La Stampa”

Ma molti italiani vorrebbero una legge in tempi brevi sulla cittadinanza

I fenomeni migratori sono sempre più marcati dal segno del dubbio. Anche l’Italia, come il resto dell’Europa e del mondo occidentale, guarda ai migranti con un misto di timore e paura e, nello stesso tempo, di solidarietà e desiderio di aiutare. Solo che, per una parte crescente della popolazione, tendono a prevalere le prime istanze. Così, il barometro delle percezioni sposta la lancetta verso l’area negativa.

Non sono prevalenti, ma crescono le emozioni ostili. Sentimenti che si alimentano dell’amplificazione delle notizie, mentre gli esponenti politici sono pronti a cavalcare il malessere di parti della popolazione, esasperando ed esacerbando la polemica. Si fatica ad affrontare il tema migratorio in modo pragmatico, senza farsi condizionare dal consenso immediato così come da atteggiamenti moralistici.

Da ultimo, è sufficiente rinviare al dibattito sviluppatosi attorno al tema della legge sull’integrazione dei figli dei migranti presenti in Italia (lo «ius soli») per avere la misura delle difficoltà che attraversano la classe dirigente: si rinvia la decisione per i timori legati al consenso alle prossime scadenze elettorali. Insomma, non esercita il ruolo per cui è stata eletta: la responsabilità. Il risultato è che se ne parla in modo gridato, raramente pacato e senza essere prigionieri degli stereotipi. Sia chiaro: il fenomeno è complesso e contiene tanto questioni legate alla convivenza quanto le risorse di culture e competenze che sostengono la nostra economia e le nostre famiglie. Ma più si rimandano le soluzioni, maggiore è il problema.

Quanto siano mutate le percezioni degli italiani verso gli immigrati e quali siano gli orientamenti verso l’ipotetica legge sull’integrazione dei figli dei migranti è l’oggetto della rilevazione di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa». Prendiamo le mosse da un dato di conoscenza oggettiva. Gli italiani sanno quanti sono i migranti regolarmente residenti in Italia? Solo un terzo (37,4%) risponde correttamente: come rileva l’Istat, sono 5.026.153. Poco più della metà (56,7%) sottostima il fenomeno (fino a 3 milioni), il restante 5,9% immagina ve ne siano oltre 10 milioni. E qual è la religione più diffusa fra i migranti? Solo poco più di un terzo (38,4%) risponde correttamente: quella cristiana (secondo l’Istat il 56,4% appartiene a questa religione), mentre la maggioranza crede siano soprattutto musulmani (56,8%).

Se sommiamo le due risposte, otteniamo che i «conoscitori» (chi risponde correttamente alle due domande) sono solo il 13,7%. Presenta una «conoscenza parziale» (sbaglia una delle due) il 48,5%, mentre il 37,8% è un «non conoscitore» (con entrambe le risposte errate). Questo livello di scarsa conoscenza non può non inficiare le opinioni. Ma andiamo per ordine.

Non c’è dubbio che fra il 2013 e oggi le percezioni degli italiani verso gli immigrati virino verso un sentimento negativo. Se escludiamo l’opinione per cui chi delinque non ha distinzioni di cittadinanza, diminuisce l’idea che gli immigrati favoriscano la nostra apertura culturale (58,8%, era il 72,7%), così come siano una risorsa per l’economia (57,2%, era il 72,5%). Per contro, lievitano le percezioni che siano una minaccia per la sicurezza individuale (31,4% dal 19,6%), un pericolo per le tradizioni (30,2%, era il 20,1%), una minaccia per l’occupazione (30,0% dal 21,2%).

Sommando queste opinioni, otteniamo che gli «accoglienti» (ovvero chi offre solo risposte positive) sono la maggioranza degli italiani (53,7%), in sensibile calo però rispetto al 2013 (66,1%). Più che diminuire gli «ambivalenti» (29,6%, erano il 28,8%) - le cui risposte mettono l’accento ora su dimensioni positive, ora negative verso i migranti - aumenta la quota degli «avversi» (16,7%, era il 5,1%), che attribuiscono agli stranieri solo valenze negative. Le generazioni più giovani, gli studenti e chi possiede una laurea manifesta orientamenti di maggiore apertura, mentre anziani, chi ha un basso titolo di studio e chi è ai margini del mercato del lavoro ha umori più negativi. Ma è rilevante sottolineare come un’inclinazione di apertura o chiusura sia collegata con il livello di conoscenza posseduto del fenomeno. Quanto più lo si conosce, maggiore è l’orientamento accogliente verso gli immigrati.

Tuttavia, il mutare (in peggio) del «sentiment» verso gli stranieri fa cambiare la predisposizione verso un’ipotesi di legge? Può apparire paradossale, ma la risposta è negativa. Fra «ius soli» (30,9%, era il 29,3%) e «ius sanguinis» (21,6%, era il 20,4%), rimane prevalente l’idea di una cittadinanza proattiva da parte del migrante e a condizione di un percorso di acquisizione e adesione ai valori e alla cultura italiana (47,5%, era il 45,0%). Solo il 5,4% non darebbe la cittadinanza ad alcuno.

Se serpeggia, ed è in crescita, un sentimento di ostilità verso i migranti, nello stesso tempo permane quindi la domanda di regolare l’integrazione degli immigrati, a cui solo la politica può dare risposta. Se fosse disposta ad assumere, più che il consenso elettorale immediato, il criterio del bene comune.

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Siccità, Foehn e fattore uomo Così è arrivato il rogo peggiore

LA STAMPA

Italia

Siccità, Foehn

e fattore uomo

Così è arrivato

il rogo peggiore

è una micidiale combinazione di fattori naturali e umani quella che sta mandando a fuoco la Val di Susa e altre zone delle Alpi occidentali, dalla Val Varaita alla Valle Orco. Anzitutto, una siccità tra le più marcate da un secolo, straordinaria soprattutto per la sua collocazione autunnale, stagione normalmente piovosa. A Bussoleno, in prossimità della zona più colpita dai roghi, non cade una goccia da 50 giorni, ovvero dal 9 settembre, e dal 1° luglio si sono raccolti 38 mm d’acqua, appena il 15 per cento del normale. Il caldo anomalo dell’estate, la seconda più calda da oltre duecento anni in Piemonte, in piena tendenza di riscaldamento globale, ha aggravato ulteriormente la situazione accelerando il disseccamento del suolo e del sottobosco. Poi il Foehn, il caldo e asciutto vento di caduta dalle Alpi, che ieri a Susa ha soffiato a 90 km/h e ha portato il termometro a 24 °C, contribuendo alla situazione di secchezza e alla rapida propagazione delle fiamme. Il resto lo ha fatto l’uomo, vuoi per disattenzione, vuoi per dolo, dal momento che l’autocombustione non esiste salvo nei rari casi di innesco da fulmine, ma da quelle parti di temporali non se ne vedono da oltre un mese e mezzo.

Anche se l’evento è ancora in corso, si può già dire che siamo probabilmente di fronte alla peggiore ondata di incendi che il Piemonte abbia conosciuto almeno negli ultimi decenni, forse paragonabile solo alle crisi dei periodi di foehn del febbraio 1990 e febbraio 1999. Restringendo il campo alla zona di Susa, poi, non c’è memoria di un rogo forestale che abbia insistito per più di una settimana su oltre duemila ettari di territorio. Si ricordano gli episodi di inizio marzo 2000 proprio a Mompantero e di fine agosto 2003 a Bussoleno, violenti ma più brevi e circoscritti. Le previsioni meteo non sono incoraggianti: oggi il foehn è cessato e non si attendono nuovi rinforzi a breve, tuttavia la siccità continuerà almeno per altri 5 giorni. Qualche goccia sul Nord-Ovest in fiamme sarà possibile nel fine settimana, ma è ancora da confermare. Un proverbio locale, quanto mai attuale, recita: «La Valsusa o a brusa o a nìa o ’l vent a la pòrta via» (la Val Susa o brucia, o annega, o il vento la porta via). Fuoco e vento non sono mancati, ora speriamo che la tanto attesa pioggia non arrivi tutta insieme con un’alluvione, come accaduto soltanto un anno fa a fine novembre.

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Luca Mercalli

“Questo disastro è colpa anche della riforma che ha abolito i Forestali”

LA STAMPA

Italia

“Questo disastro è colpa

anche della riforma 

che ha abolito i Forestali”

L’ex direttore della scuola antincendi:

“Scarsa preparazione ed elicotteri a terra”

«È stato un anno disastroso sul fronte degli incendi. Ed è anche colpa della disorganizzazione». Silvano Landi, generale del corpo forestale di Stato in pensione, da ex direttore della Scuola di Cittaducale (Rieti) ha insegnato a generazioni di forestali, ed è stato docente universitario di lotta agli incendi.

Perché parla di disorganizzazione? «Quest’estate in Abruzzo i boschi del monte Morrone sono bruciati per venti giorni consecutivi, altrettanti al monte Giano, ora in Val di Susa. Ritengo che in parte la colpa dipenda dalla riforma Madia, con il passaggio di consegne dal Corpo forestale agli altri corpi, i carabinieri e i vigili del fuoco, la cui specificità erano fino a poco tempo fa le città e gli edifici, non i boschi». Concretamente quali sono i problemi?«Ogni giorno ricevo lettere di ex forestali, transitati nei pompieri, che non vengono impiegati per gli incendi boschivi. Tra loro ci sono anche piloti. E, per problemi burocratici, una parte degli elicotteri passata ai vigili del fuoco non si è alzata in volo. Problemi che probabilmente si risolveranno, ma non si deve perdere tempo». Qual è il modo migliore per combattere gli incendi? «Generalmente si pensa siano sufficienti i lanci d’acqua dal cielo, non è così. Bisogna affiancare altri interventi a terra che richiedono preparazione anche dei volontari, che purtroppo invece a volte non hanno specializzazioni, e la prevenzione». Si riferisce alla lotta ai piromani? «Dietro ogni incendio c’è la mano dell’uomo, ma spesso si tratta di “semplice” distrazione. Quest’estate all’isola d’Elba il via alle fiamme è arrivato da uno zampirone. Bisogna educare ai comportamenti corretti da tenere nel bosco. Ma prevenzione è molto di più: avere un censimento aggiornato delle risorse idriche, conoscere i sentieri per poter penetrare nel bosco quando c’è l’emergenza, sfruttare tecnologie come il telerilevamento, fare turni di vigilanza. Un altro problema del passaggio di consegne è che i comandi dei vigili del fuoco sono in genere nei capoluoghi, i forestali stavano più vicini ai boschi». Ma come si spegne un incendio? «Noi parliamo dei tre lati del triangolo del fuoco, sono il calore, il combustibile e l’ossigeno. Bisogna agire su uno di questi tre. Con l’acqua raffreddiamo, con le motoseghe agiamo sul combustibile, cioè la vegetazione: bisogna creare una fascia senza alberi in modo che le fiamme si arrestino. C’è anche la tecnica del controfuoco, incendiare per combattere le fiamme, creando uno sbarramento. Certo, lo spopolamento della montagna non aiuta». Cosa c’entra con gli incendi? «Viene a mancare la presenza umana che faceva “manutenzione” al bosco. La prima conseguenza è che gli incendi sono più facili perché manca la pulizia del bosco, interventi di diradamento e spalcatura per le conifere, oltre alla pulizia a bordo strada spesso invasa da vegetazione. La seconda è che, se i sentieri non sono puliti, non si riesce a entrare nella foresta quando c’è un incendio. E i danni del fuoco mettono ancora più a rischio la sopravvivenza dei centri montani: nei luoghi francescani di Poggio Bustone in Lazio, venuta meno la protezione della foresta che sovrastava il paese, ora si temono frane e smottamenti». Ma perché la Val di Susa brucia così in fretta? «Gli incendi non sono tutti uguali, le condizioni meteo influiscono ma anche il tipo di alberi. Si tratta di boschi di conifere, piante resinose, e questo aumenta la combustione. La resina è infiammabile, veniva usata anticamente per le torce. Al contrario le latifoglie che hanno grandi foglie contengono più acqua degli aghi, così ad esempio il castagno brucia più lentamente del pino. I danni alle foreste di conifere sono più gravi anche perché, a differenza delle latifoglie che si rigenerano in fretta, sono perdute per sempre e la montagna resta una cartolina lunare». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

fabrizio assandri


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