Cultura
Cesare passa il Rubicone
e il gioco d’azzardo gli riesce
per l’implosione della classe
dirigente dell’Urbe
Uno storico rilegge la vicenda
Cesare passa il Rubicone
e il gioco d’azzardo gli riesce
per l’implosione della classe
dirigente dell’Urbe
Uno storico rilegge la vicenda
Cesare si perde nella notte. Per non farsi riconoscere ha rinunciato al suo cavallo, noleggiato un traino di muli, e si muove nel bosco con pochi compagni. Ma sbaglia strada. All’alba trova finalmente un pastore che lo guida alla riva di un fiumiciattolo, il Rubicone, destinato a una fama postuma che resiste persino al suo diverso tracciato (il corso d’acqua, di fatto, non è più nel suo letto originario). Lì ritrova una parte, modesta, del suo esercito, che aveva mandato innanzi. Passare o non passare? Tutti sanno, anche i suoi soldati, che se attraversano il fiume in armi saranno dichiarati da Roma «nemici pubblici». Scoppierà la guerra civile. E il nemico sarà Pompeo. L’imprevisto della notte ha causato un ritardo di ore: incidenti di questo tipo, in uomini abituati a leggere i segni, possono riuscire paralizzanti. Cesare pronuncia una frase celeberrima. È un gioco d’azzardo: e c’è un dado che rotola.
È l’11 gennaio dell’anno 49: uno degli episodi più noti della storia antica. Eppure il libro di Luca Fezzi ( Il dato è tratto. Cesare e la resa di Roma , Laterza) riesce a offrirne uno sguardo nuovo, con rigoroso vaglio delle fonti e diverso focus storico. Il punto prospettico infatti non è l’avanzata inarrestabile di Cesare, la pervicacia di un condottiero che si trovava, come diceva Droysen, «nel centro del divenire delle cose», ma la decisione inaudita, sull’altro fronte, di Pompeo, che pochi giorni dopo, il 17 gennaio, ordina a tutti i senatori di abbandonare Roma. Il panico è generale: le fonti descrivono le carovane dei boni viri che lasciano la città coi familiari, i servi, le masserizie, mentre l’incorruttibile Catone, da quel giorno, veste il lutto.
Ma per misurare il rilievo di questo sconvolgente trapasso era necessario ripercorrere la storia romana su due assi portanti. In primo luogo, la lunghissima serie delle precedenti «marce su Roma», a partire dai celebri casi di Tarquinio il Superbo e di Porsenna, fino alle più spaventose minacce di Pirro o di Annibale, passando attraverso l’indimenticabile shock del 390, quando i Celti di Brenno riuscirono a penetrare in città («Guai ai vinti»). «L’Urbe, di fronte ai pericoli seri, fu sempre difesa»: e invece di fronte a Cesare fu abbandonata. Neanche questa, come tutti sanno, sarà l’ultima marcia su Roma: nel futuro prossimo il modello servirà a Ottaviano, nel futuro remoto a Mussolini. E sulla resistenza della città si misurerà sempre la tenuta delle istituzioni. In secondo luogo, la storia ravvicinata dei tre convulsi anni che avevano portato al trauma del Rubicone, e che a partire dall’omicidio di Clodio e dall’uso della corruzione come strumento ormai acquisito della lotta politica avevano segnato un degrado non più reversibile delle istituzioni centrali. Pompeo prova alcune riforme, cancella storture procedurali e politiche di cui tutti a Roma si lamentano, ma che nessuno in realtà, né tra il popolo né tra i nobili, ha convenienza a riformare. Il sistema è imploso.
Di qui la scelta irreversibile, dettata dal sospetto che il popolo non fosse più governabile, dal timore che qualcuno avrebbe aperto a Cesare (come infatti a Brindisi sarebbe di lì a poco avvenuto). Ma di qui anche il tormento dei senatori: partire e schierarsi con lui? Restare e sfidare la sua ira? Il disorientamento degli ottimati si condensa nelle ciniche ma immortali parole di Celio: «nelle guerre civili», scrive a Cicerone, «fintanto che la lotta si mantiene in termini politici, senza ricorrere alle armi, si dovrebbe seguire la parte più rispettabile; ma quando si giunge allo scontro armato, allora bisogna scegliere il più forte».
Modelli minacciosi agiscono alle spalle dei due nemici: Cesare deve stornare il ricordo dei Celti, per non avallare l’idea, già serpeggiante, che il trionfatore della Gallia marci su Roma aiutato dai barbari. Pompeo deve far dimenticare il suo passato con Silla, e l’ombra truce delle proscrizioni. Ma un altro paradigma analogico lo scuote. Come dovrà agire: come Pericle, che aveva difeso Atene asserragliandosi all’interno? O come Temistocle, che aveva evacuato la città, trasferendola sulle navi? Lo strapotere della sua flotta, e l’appoggio che aveva a Oriente, persuadono Pompeo a portare senatori e «marescialli» verso Brindisi, a lasciare la terra d’Italia come altre volte avverrà nella storia. Una decisione che anche Fezzi giudica forse inevitabile, ma che darà esito per lui disastroso. E nondimeno occorrerà ricordare che tutto in quel momento doveva ancor compiersi, e che se Pompeo l’anno dopo avesse vinto a Farsalo - come pure sembrava possibilissimo - oggi saluteremmo in lui il nuovo Temistocle.
Un ultimo pensiero: il libro potrebbe essere proficuamente letto, tra continuità e discontinuità, nel confronto con il Cesare di Luciano Canfora (Il dittatore democratico), uscito poco meno di una ventina d’anni fa, sempre per i tipi di Laterza. Ma è bene precisarlo: il libro di Fezzi è più pessimistico. Perché il cuore di queste pagine non pulsa attorno allo spudorato ma geniale calcolatore politico, che ha saputo guadagnarsi, da nobile, il favore del popolo. Qui il principio ordinatore lascia spazio al panico. La capitale di un impero con ambizioni universali (Polibio), popolata ormai da 500.000 abitanti, è abbandonata a sé stessa; la «feccia di Romolo» non ha più fiducia nella sua classe dirigente, prona e fuggitiva, e la città non sa più resistere. A chi solo minacci, o a chi sappia promettere, Roma apre le porte.
Vent’anni non passano invano: nemmeno nell’Italia di oggi.
Luciano Bossina