ebook di Fulvio Romano

venerdì 30 giugno 2017

Da Torino a Genova, il nuovo potere governa il business di energia e rifiuti

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Da Torino a Genova, il nuovo potere

governa il business di energia e rifiuti

Il Pd perde il controllo di Iren. Gli scenari del patto Appendino-Bucci 

Il primo effetto collaterale delle elezioni amministrative sulla mappa del potere italiano si misura in quattro lettere: Iren. È il nome dell'azienda multiservizi (energia, gas, acqua e rifiuti) nata nel 2010 come frutto delle fusioni delle municipalizzate di Genova, Torino e dei Comuni emiliani (Reggio Emilia, Parma, Piacenza). Tutti a guida Pd. Un gigante che ha chiuso il 2016 con quasi 3,3 miliardi di ricavi e 147 milioni di utile netto. Ma anche una macchina di potere che garantiva ai Comuni azionisti (e al partito dante causa) dividendi preziosi per bilanci traballanti (quest’anno 26,5 milioni a Genova e Torino), sponsorizzazioni milionarie per attività sociali e culturali, centinaia di nomine nei consigli di amministrazione delle controllate.

Iren è oggi il terzo operatore nazionale per fatturato. Negli anni scorsi (quando la perdita di Torino, Genova, Piacenza e Parma per il Pd era considerata più improbabile di uno scudetto del Leicester), una parte del Pd immaginava che Iren fosse il player da cui partire per costruire - con ulteriori aggregazioni - un campione nazionale nel settore. Fassino da sindaco di Torino aveva parlato del «più grande progetto di politica industriale che si può attivare in Italia».

La governance di Iren è sempre stata chiara. Un patto con tre contraenti: Torino, Genova e Reggio Emilia come capofila dei Comuni emiliani. Tutto - nomine, holding, aziende controllate, management, - è diviso con criteri rigorosi. Qualche anno fa fu addirittura stilato un protocollo per le sponsorizzazioni sui territori: 4 milioni a Torino, 4 a Genova, 4 alle città emiliane. Torino esprime il presidente, Reggio Emilia il vicepresidente, Genova l’amministratore delegato della holding. Così le ultime nomine, poco prima delle elezioni del 2016, targate Pd.

Conquistato il Comune di Torino, Chiara Appendino non ha messo in discussione quell’equilibrio. Due dei tre contraenti rimanevano al Pd. Ma ora è caduta anche Genova, nelle mani del centrodestra. Al Pd resta solo Reggio Emilia, che per ragioni statutarie e azionarie è il contraente debole e per giunta in Emilia deve fare i conti con Piacenza, passata al centrodestra dopo 15 anni.

Tutti i principali operatori del settore (la lombardia A2A, la bolognese e romagnola Hera, la romana Acea) negli ultimi anni hanno lavorato come Iren su acquisizioni di aziende locali per consolidare le posizioni nelle rispettive aree di influenza. Management e azionisti di Iren targati Pd avevano messo in cantiere l’acquisizione di Amiu, scassata azienda rifiuti genovese in mano al Comune. Ottima operazione industriale: Amiu ha i rifiuti ma non sa dove smaltirli, Iren ha gli impianti ma non i rifiuti. Per tre volte la delibera è stata stoppata in Consiglio comunale. Pezzi di sinistra hanno giocato di sponda con centrodestra e M5S, schierati in difesa della «genovesità» dell’azienda e contro il sistema di potere del Pd. Il tema è stato decisivo anche in campagna elettorale. Il centrosinistra è stato accusato di voler svendere un patrimonio della città.

Marco Bucci, nuovo sindaco di centrodestra, è un manager. La sua prima partita è questa. Entro fine luglio deve decidere che cosa fare del dossier. Può archiviare definitivamente la fusione, ma in tal caso deve trovare 13 milioni per salvare l’Amiu (l’alternativa è un pesante aumento della tassa sui rifiuti). Può cercare altre alleanze, per esempio bussando alla lombardia A2A, pure essa dotata di impianti e non insensibile all’idea di contendere a Iren la supremazia nel Nord-Ovest. Oppure può riaprire il dialogo con Iren di cui è azionista primario, mettendo sul piatto anche la scelta dal management. Quello in carica ha ancora due anni di mandato, ma riflette un patto di controllo sotto l’egida del Pd che non esiste più. Se Bucci e Appendino vogliono ribaltarlo, dovranno agire di conserva. E stabilire un nuovo patto, inedito, per gestire un business miliardario e strategico. Con le nomine romane di Acea (tutt’altro che ostili ai soci privati: i francesi di Suez e il costruttore romano Caltagirone), Casaleggio ha dimostrato di essere molto interessato a entrambi. Il business e gli accordi strategici.

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giuseppe salvaggiulo


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Giornalisti, manager e imprenditori così Casaleggio tesse la sua tela a Nord

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Giornalisti, manager e imprenditori

così Casaleggio tesse la sua tela a Nord

L’obiettivo è di spingere sull’autonomia fiscale per garantirsi il consenso 

Lega e M5S: forza popolare o deriva populista». Nel titolo dell’incontro di Garda la parola «forza» declinata al singolare evoca subito convergenze e (forse) future alleanze. 

È vero che i panel erano separati, come si sono affrettati a precisare molti nel Movimento 5 Stelle anche per zittire le voci critiche di chi nel gruppo parlamentare già lamenta un eccessivo dialogo con la Lega Nord. Ma sta di fatto che la serata con il grillino Luigi Di Maio e il leghista Giancarlo Giorgetti segna un’ulteriore tappa nell’avvicinamento tra i due partiti classificati sotto l’etichetta «populisti», che da mesi si strizzano l’occhio a distanza. In ordine: euro, migranti, ius soli, referendum sull’autonomia fiscale in Lombardia e Veneto. Questi sono i temi che li avvicinano. Se è solo scena, convenienza o tattica, dietro la quale non c’è alcuna speranza concreta di vedere seduti allo stesso tavolo Di Maio e Salvini, lo diranno i prossimi mesi, anche a seconda di quale legge elettorale ci sarà. Per adesso, però, è certo che la strategia di Davide Casaleggio guarda a Nord. Come la rete di relazioni che, convegno dopo convegno, il rampollo del fondatore del M5S sta costruendo per provare a pescare voti in quelle aree produttive delle regioni settentrionali dove i 5 Stelle risultano più deboli. Relazioni che arrivano a sfiorare mondi e conoscenze in comune con il Carroccio. Come Arturo Artom, imprenditore che ha portato nello stesso salotto Casaleggio e il governatore lombardo Roberto Maroni, e volto in quota M5S di una categoria che spera nell’autonomia fiscale sponsorizzata dall’asse grillo-leghista. 

In politica non esistono le coincidenze e non è un caso che a Garda ci sia stata una riproposizione in piccolo della convention «Sum01 - Capire il Futuro» organizzata a Ivrea da Casaleggio in ricordo del padre. A dialogare con Di Maio è stato Gianluigi Nuzzi, giornalista Mediaset e marito di Valentina Fontana, amministratrice della Visverbi srl, l’agenzia di comunicazione che ha organizzato la serata di ieri e la giornata di metà aprile a Ivrea di cui proprio Nuzzi è stato il presentatore. Altri nomi in comune tra i due eventi sono: Gianpiero Lotito, fondatore di Facility Live, la start-up anti Google, uno che ad ascoltarlo fa impazzire di gioia Casaleggio jr; la psicologa Maria Rita Parsi e il conduttore Gianluigi Paragone. 

Se c’è una categoria che fa sorgere sentimenti al limite dell’odio antropologico a Casaleggio sono i giornalisti. Con le dovute eccezioni. Paragone è una di queste. Giornalista che fu leghista, dopo essere entrato in quota Carroccio alla Rai ne è uscito per indossare a La Gabbia su La7 i panni più rockettari e antisistema, adatti alla politica al tempo del grillismo. Nella sua trasmissione dove si parla di banche, migranti, lavoro c’è sempre spazio per i 5 Stelle, con somma gioia di Rocco Casalino che smista i parlamentari da un talk show all’altro. Dove c’è Casaleggio poi c’è Nuzzi. «Ma non chiamatemi grillino - dice lui - Io faccio il giornalista, e non devo avere un’identità politica. A Casaleggio padre mi legava un’amicizia nata ai tempi in cui sul blog di Grillo uscirono articoli sul mio libro Vaticano Spa. Ci siamo conosciuti e ci siamo confrontati, in maniera libera». Molti degli invitati, spiega Nuzzi, sono presenti in entrambe le locandine, di Ivrea e di Garda, perché sono «amici» suoi e della moglie. 

Tutta l’attenzione però è stata calamitata da Di Maio e Giorgetti, accomunati da un’insistente campagna sullo stop ai migranti. È di ieri l’ultima sentenza del blog di Grillo «Matteo Renzi è politicamente responsabile del disastro immigrazione. Con il suo governo è entrata in vigore l’operazione Triton che autorizza le navi di 15 Stati europei a portare i migranti solo in Italia». Toni che fino a qualche mese fa avremmo sentito in bocca a un leghista. Ma in attesa delle alleanze (se ci saranno) basterebbero le parole di Alessandro Di Battista a Otto e mezzo a dare l’idea che una certa simpatia, costruita magari sulla base di un nemico comune, c’è: «Noi facciamo vincere la destra? Pur di votare il Pd i cittadini voterebbero qualunque altra cosa». 

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ilario lombardo


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“Prove di un possibile governo con appoggio esterno del Carroccio”

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“Prove di un possibile governo

con appoggio esterno del Carroccio”

D’Alimonte: ma i grillini sbagliano a cercare i voti di destra al Nord

«Le dico subito che io non credo nell’alleanza formale tra M5S e Lega, tipo un governo Di Maio-Salvini». Roberto D’Alimonte, politologo e massimo esperto di sistemi elettorali, guarda ai possibili scenari che le convergenze di queste ultime settimane sembrano disegnare.

Perché esclude un governo di maggioranza Lega-M5S? «Perché su un’ipotesi del genere il M5S si spaccherebbe. È vero che è un Movimento in evoluzione, nato a sinistra si è spostato verso destra. Ma è anche il vero “partito della nazione”, per sua natura trasversale. Le cinque stelle del simbolo sono tuttora battaglie di sinistra. Se andasse solo a destra perderebbe pezzi del suo elettorato». Ma in cambio guadagnerebbe voti da destra... «Ma perché l’elettore di destra a Nord dovrebbe votare il M5S se si appiattisce su posizioni lepeniste già incarnate da Salvini? Sui temi dell’immigrazione il leader della Lega è più credibile di Grillo. Lo spazio del M5S a destra è al Sud. Ma è una destra diversa, la definirei ribellista. E lei pensa che questa destra meridionale che andrà a ingrossare il prossimo gruppo parlamentare possa fare un governo con un partito che nello statuto ha ancora la secessione della Padania?». La strategia di Grillo e Casaleggio, come si è visto su immigrati e rom, punta a Nord, però, dove il voto nelle città ha dimostrato che il M5S è più debole.«Ma a Nord c’è la Lega. Così facendo, il M5S perde quell’elettorato di sinistra del Nord che è il suo elettorato originario e che non credo possa sostituire con un altro che è naturalmente orientato verso Salvini» Casaleggio sta sbagliando, dunque, a puntare sul mondo imprenditoriale del Nord per rubare voti a Berlusconi e a Salvini? «Io, da studioso, vedo venir fuori le contraddizioni di un partito che all’opposizione può vivere di rendita con le battaglie anti-corruzione e anti-establishment, ma quando si candida al governo e deve fare scelte concrete rischia di perdere il suo appeal trasversale. Basta vedere cosa hanno fatto sullo ius soli e, prima, sulla stepchild adoption. Si sono astenuti, per non scontentare nessuno». E allora come legge i segnali inequivocabili di un corteggiamento Lega-M5S?«Penso che il M5S stia facendo le prove generali di un possibile governo di minoranza con appoggio esterno della Lega. Per ottenere la fiducia proporrà un programma con molti punti di contatto con il Carroccio. Il problema però è che i 5 Stelle sperano che la Lega accetti senza pretendere in cambio posti di governo. Al massimo potrebbero essere disposti a includere qualche personalità indipendente vicina alla Lega. A quel punto il pallino sarebbe nelle mani di Salvini e io non credo accetterebbe. Questi annusamenti reciproci sono una finzione, uno dei tanti giochi incrociati a cui assistiamo». In che senso? «Salvini parla con il M5S sapendo che non potrà avere un’alleanza organica per mettere un po’ di paura a Berlusconi. Ha imparato a giocare su due tavoli. Come tutti. Berlusconi lo fa con Salvini e Renzi. E Renzi con Berlusconi e Pisapia». E i 5 Stelle? «Non possono giocare su due tavoli ma con questa legge elettorale, non raggiungendo il 40%, hanno la necessità di far credere agli italiani di poter andare al governo perché la Lega li appoggerebbe. Un’altra finzione». [ i. lomb.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


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Di Maio e Lega, primo dialogo su migranti e Unione europea

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Di Maio e Lega, primo dialogo

su migranti e Unione europea

A Garda il candidato premier del M5S sullo stesso palco dei vice di Salvini. “Uniti? Se c’è chiarezza”

Per il momento, si annusano. Stesso palco, ma interviste separate. Stesso pubblico, ma niente faccia a faccia. Questo fa sì che l’incontro non sia uno scontro. Ma è già una notizia che un incontro ci sia stato, sia pure con tutte le precauzioni e le cautele da guerra fredda del caso, tipo Reagan-Gorbaciov a Reykjavik. Il titolo della serata di lago e politica dice già tutto: «Forza popolare o deriva populista?». Starring, ovviamente, i due movimenti popolari o populisti (o magari tutti e due insieme) della politica italiana, i Cinque Stelle e la Lega. Per il M5S c’è Luigi Di Maio, premier in pectore a giorni alterni, per la Lega i due numeri due di Matteo Salvini nonché le teste più pensanti e pesanti del Carroccio, Giancarlo Giorgetti e Lorenzo Fontana. Dopo i giorni delle polemiche, dell’incontro Grillo-Salvini che forse c’è stato e forse no, il dialogo fra i due partiti anti-sistema e «tribali» ricomincia da qui.

«Qui» è la piazza di Garda, delizioso paesino sul lago, per la prima edizione di «Garda d’autore», quattro giorni di chiacchiera politica e culturale organizzati dall’agenzia di comunicazione Visverbi sull’onda del successo dell’analoga manifestazione di Ponza. Interviste separate e «lontane», a partire dal look. Di Maio come al solito è vestito da democristiano primo della classe, abito scuro e cravatta, e lo intervista Gianluigi Nuzzi. Giorgetti & Fontana sono sgiaccati e scravattati, e conversano con Paolo Liguori, il direttore di TgCom24.

Inizia Di Maio e mette subito le cose in chiaro: la Lega è un partito come gli altri, e anzi ci ha lasciato disastri come le banche venete. Insomma, di un eventuale inciucio con Salvini e soci non si deve non dico parlare, ma nemmeno sospettare. «Non è in cantiere alcun accordo con alcuna forza politica», punto. Però sull’immigrazione e sull’Europa che se ne infischia sembra proprio di sentire un leghista. Per il resto, Di Maio svolge il solito compitino sui vitalizi dei parlamentari altrui, il taglio degli stipendi dei parlamentari suoi, il salvataggio delle banche cattive, anzi «dei manager e non dei correntisti», e il deficit lo paghino i politici. Applausi. L’unica novità è che Di Maio non fa neanche un errore di sintassi, segno che forse sta davvero studiando da presidente del Consiglio.

Intanto i leghisti, popolari o populisti che siano, ma più abituati a fare politica, spiegano la linea del partito verso il Movimento. Meno propagandistico, ma più realista, Giorgetti spiega che «molto dell’elettorato grillino è omogeneo a quello leghista. Lo testimoniano i sondaggi e anche i flussi elettorali. Ai ballottaggi, gli elettori grillini che un tempo votavano centrosinistra sono rimasti a casa. Quelli che provengono dal centrodestra hanno votato per noi. Non solo: su certi temi, per esempio lo ius soli, i grillini stanno venendo sulle nostre posizioni. La minaccia “populista” è un’invenzione di Renzi e Berlusconi, e serve sia contro di noi che contro di loro». Quindi l’accordo antisistema è possibile, e per la Lega il M5S potrebbe essere il forno alternativo se l’accordo con Berlusconi non si facesse o non funzionasse? «Non credo. Per i grillini, non fare alleanze è un elemento costitutivo dell’identità. Ma nessuno arriverà da solo al 51%. Noi siamo disponibili ad accordi trasparenti, responsabili ed efficaci. I grillini, per ora, no».

Fontana arriva anche a spiegare dove ci si potrebbe mettere d’accordo: «Due temi: immigrazione ed Europa. Se sono chiari su questi punti, il dialogo è possibile. Ma mi sembra che chiari per ora non siano». Sarà. La brezza è incantevole, il lago anche, le zanzare magari un po’ meno, e insomma l’estate è il periodo ipotetico della politica. Alle volte, però diventa realtà. 

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alberto mattioli


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L’adunata che benedice la rivolta (Sorgi)

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L’adunata

che benedice

la rivolta

Quando si farà la storia degli ultimi tormentati mesi che stanno precedendo la fine della legislatura, e lo scontro, anche in Italia - dopo Inghilterra, Olanda e Francia - tra il fronte governista-europeista e quello sovranista-populista, la sera del 29 giugno 2017 nella piazza del Municipio di Garda, sul lago omonimo, verrà ricordata come quella di una data e di un luogo simbolici. 

Se infatti come molti temono, e come ogni giorno sembra più probabile, specie dopo l’invasione di migranti che si annuncia per l’estate, Movimento 5 Stelle e Lega, da soli o con Fratelli d’Italia e qualche immancabile aiutino trasformistico, in Parlamento dovessero avere la maggioranza per formare un governo, a discapito di qualsiasi altra combinazione e alleanza, tradizionale o di larghe intese, questa serata, inserita in una delle tante rassegne estive che riproducono dal vivo il format dei talk-show televisivi, e minimizzata nel significato dai diretti interessati, a dispetto di ogni illazione giornalistica, dovrà invece essere rivalutata e considerata fondamentale per la costruzione dell’asse tra Grillo, Casaleggio e Salvini.

Il leader della Lega avrebbe dovuto essere sul palco, ieri sera, ma all’ultimo momento s’è fatto sostituire dal suo braccio destro e vicesegretario federale Giancarlo Giorgetti. Subito dopo, per una quasi simultanea intervista mirata a far emergere i punti di contatto delle strategie dei due movimenti, è intervenuto il vicepresidente della Camera e ormai quasi certo candidato premier stellato Luigi Di Maio. Come spesso succede in occasioni del genere, le parole più importanti non sono state dette ai microfoni, ma lontano da orecchie indiscrete. E più importante di tutto era l’atmosfera che lasciava percepire, nel pubblico, grande curiosità per quella che tra meno di un anno - se anche in Italia le forze tradizionali di centrosinistra e centrodestra non saranno in grado di ripetere il miracolo verificatosi solo due settimane fa a Parigi - potrebbe diventare l’estemporanea alleanza chiamata a guidare il primo grande Paese europeo caduto in mano a quelli che si oppongono con qualsiasi mezzo all’euro, all’invasione degli immigrati e alla cosiddetta «dittatura» dell’Unione europea.

Non era insomma uno di quei classici eventi politici, che nel secolo scorso contrassegnavano svolte politiche importanti o le anticipavano. Niente a che vedere, per intendersi, con l’incontro di Pralognan, in alta Savoia, nel ’56, in cui Saragat e Nenni ponevano le basi per la riunificazione socialista, dopo l’emergere degli orrori dei periodo staliniano, e neppure con quegli inutili faccia a faccia Pci-Psi degli Anni Ottanta alle Frattocchie in cui Berlinguer e Craxi facevano finta di non odiarsi, o quei misteriosi pranzi segreti in sordide trattorie della via Appia (a Roma ribattezzate «bugliaccari»), dove si davano appuntamento De Mita e Berlinguer, per scambiarsi reciproci timori e studiare come liberarsi del governo a guida socialista.

Piuttosto, l’aria che si respirava a Garda era la stessa del recente appuntamento «Sum #01 Capire il futuro», organizzato l’8 aprile a Ivrea - tramite la stessa agenzia «Visverbi» che ha messo su la rassegna «Garda d’autore» - da Davide Casaleggio con Beppe Grillo a un anno dalla scomparsa del padre Gianroberto, l’ingegnere-guru inventore, con l’ex comico, del Movimento 5 Stelle e dell’algoritmo che consente ora al figlio di governare attraverso Internet una fetta di opinione pubblica pari a un quarto, e forse a un terzo, dell’elettorato italiano. Anche lì, nessun discorso esplicito, solo un commosso rimpianto dell’uomo che sognava la rivoluzione attraverso la rete, e forse sarebbe riuscito a farla, se la morte non l’avesse strappato prima alla sua famiglia e al suo movimento.

L’aspetto più sorprendente di ciò che sta accadendo riguarda l’attenzione con cui queste iniziative vengono seguite e la qualità della gente che si accomoda in platea: imprenditori, dirigenti d’azienda, giovani e anziani. Un pezzo di società civile del Nord che si muove, come già accadde ventiquattro anni fa alla discesa in campo di Berlusconi, in cerca di un’alternativa al sistema attuale dei partiti e al governo, che pure sta affrontando i più gravi problemi italiani. È a questa parte dell’Italia - la più dinamica, la più ricca, la sola che sia riuscita ad agganciare la ripresa economica ovunque più forte in Europa - che Grillo e Casaleggio, con l’aiuto consapevole di Salvini, si rivolgono, in vista delle elezioni politiche di cui si sta consumando una lunga vigilia. Non li preoccupano - perché sanno che non interessano più di tanto gli elettori - le prove modeste che da Roma in su stanno dando gli amministratori a 5 Stelle, i guai delle sindache Appendino e Raggi, la differenza tra gli ultimi risultati elettorali che hanno visto Salvini premiato e Grillo e Casaleggio esclusi dai principali ballottaggi. Sentono che la loro grande occasione si sta avvicinando: e hanno tutte le intenzioni di approfittarne.

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Marcello Sorgi


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giovedì 29 giugno 2017

Compensi



Italia

Jena

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Quando guarderete Fazio

su Raiuno penserete

a cosa vi sta dicendo

o a cosa si è appena comprato?

lunedì 26 giugno 2017

Operazione tenaglia sull’ex premier ("il centrosinistra è finito e far finta di no non è più possibile") Sorgi

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Operazione

tenaglia

sull’ex premier

Dopo quelle di Roma e Torino del 2016 a favore dei 5 stelle, la sconfitta del centrosinistra a Genova (e non solo, praticamente dappertutto), stavolta a vantaggio del centrodestra, ha un valore politico e simbolico doppio. Significa che anche nel caso, verificatosi quest’anno nella tornata di amministrative che ha coinvolto quasi dieci milioni di elettori, di riflusso populista (Genova, non va dimenticato, è la città di Grillo, ciò che rende più amaro per l’ex-comico il risultato di ieri), il Pd e i suoi alleati - al contrario del resuscitato centrodestra - non rappresentano più una scelta credibile di governo, neppure se si presentano uniti, in un capoluogo storicamente legato alla sinistra e che avevano amministrato ininterrottamente per tutta l’epoca della Seconda Repubblica, anche quando l’amministrazione regionale aveva cambiato di segno. A voler adoperare un po’ di malizia, si può dire che ha funzionato perfettamente lo schema di gioco messo in campo dagli avversari di Renzi, che prevedeva di inneggiare al ritorno della coalizione post-ulivista in caso di vittoria, e scaricare tutta la responsabilità di un eventuale insuccesso sulle spalle del segretario. 

Per quanto il leader possa minimizzare, valutando l’esito dei ballottaggi come un voto locale, e mettendo in luce qualche risultato in controtendenza, resta il fatto che all’indomani della sua plebiscitaria riconferma alla guida del partito, dopo la conclusione funesta del referendum del 4 dicembre e la precipitosa archiviazione nelle urne della stagione delle riforme, al primo e al secondo turno Renzi, anche se non da solo, è stato battuto, e così anche il Pd e i suoi alleati.

D’altra parte, mettetevi nei panni di un elettore che abbia atteso dall’anno scorso un qualche segnale di resipiscenza rispetto al suicidio calcolato e consumato a dosi regolari dal centrosinistra negli ultimi dodici mesi. Al referendum, una parte del partito, l’ex-minoranza bersanian-dalemiana che poi ha dato vita alla scissione, s’è schierata contro il governo e ha contribuito alla vittoria del «No». Poi ha chiesto il congresso, di cui, una volta ottenuto, ha proposto il rinvio; e subito dopo, capito che Renzi lo avrebbe vinto, ha preferito andarsene. Ma uscita una minoranza, se n’è subito formata un’altra, che si comporta più o meno allo stesso modo e si prepara ad allearsi con partiti e gruppi collocati a sinistra del Pd. Mentre su questo stesso terreno, l’ex-sindaco di Milano Pisapia, messosi in moto per federare l’area rissosa in cui si muove tutto l’arcobaleno dei nemici di Renzi e riportarla all’alleanza con l’ex-premier, sta finendo col mettere su un partito concorrente, che se nascerà, nascerà sulla parola d’ordine «tutto fuorché Renzi».

L’elettore di cui dicevamo ha assistito così a una singolare campagna elettorale in cui il segretario era assente e gli altri leader di sinistra suoi avversari facevano a gara a sparargli addosso e a rinnegare ogni ipotesi di recupero a livello nazionale della coalizione con cui, tuttavia, si erano presentati nelle città in cui si votava, ottenendo spesso che il candidato sindaco fosse loro espressione e il Pd si rassegnasse a fare da portatore di voti e a pagare il conto in caso di sconfitta. Ora, appunto, per quale ragione il suddetto elettore avrebbe dovuto votare per il centrosinistra, invece di astenersi, o legittimamente, come prevede il meccanismo dei ballottaggi, votare per il centrodestra per punire i campioni del suo schieramento?

Spiace davvero per Romano Prodi, l’uomo che per due volte riuscì nel miracolo di rimettere insieme tutti i cocci dell’alleanza e portarla alla vittoria, per poi esser giustiziato le stesse due volte, una terza come candidato alla Presidenza della Repubblica, e malgrado questo, non pago, ci riprova una quarta; spiace per il governo Gentiloni, che in questo marasma riesce pure ad affrontare i terribili problemi del Paese; spiace per tanti seri amministratori, a cominciare dai pochi sindaci che ieri hanno vinto. Ma c’è una cosa che va detta a questo punto: il centrosinistra è finito, e far finta che questo non sia accaduto, o sia ancora rimediabile, non è più possibile. 

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Marcello Sorgi


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sabato 24 giugno 2017

Più ricchi che Rai ...

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Prima Pagina

Più ricchi che Rai

Se il teatrino di questi mesi è diventato quanto guadagniamo, io tolgo il disturbo, ha detto pochi giorni fa Fabio Fazio. È probabile che ora il teatrino diventi quanto guadagnerà. Ieri gli è stato rinnovato il contratto: quadriennale a 2 milioni e 800 mila euro l’anno. Un milione in più di prima. Complimenti e auguri. Anche perché la faccenda è già stata buttata in politica: per Maurizio Gasparri è il premio milionario al miglior valletto della sinistra, per il renziano Michele Anzaldi è uno schiaffo ai poveri e al Parlamento. È davvero interessante il diffondersi del contagio per cui la lotta alla povertà passa dalla riduzione degli stipendi, ma su un punto Anzaldi ha ragione: il Parlamento aveva deliberato il tetto dei compensi a 240 mila euro, cifra a cui si è adeguato anche il presidente della Repubblica. La Rai invece no. E con questa bizzarra formulazione: sfonderà il tetto chi «offre intrattenimento generalista» o «crea o aggiunge valore editoriale in termini di elaborazione del racconto nelle sue diverse declinazioni». A parte la prosa, da taglio immediato del mensile, la frase non vuol dire niente, quindi vuol dire tutto. E chiunque potrà avere ingaggio eccezionale. E discende da una considerazione: la Rai, per essere competitiva sul mercato, deve pagare i fuoriclasse. Vero. Ma qui sta il problema. O la Rai è sul mercato, e allora non prende il canone. O la Rai è servizio pubblico, e allora non deve competere. La via di mezzo non è uno schiaffo alla povertà né al Parlamento: è una presa per i fondelli.

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Mattia Feltri


venerdì 23 giugno 2017

Quando l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte.

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Cultura

La filosofia

batte i tweet

Quando l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte.

L’attenzione che i mezzi di comunicazione accordano all’esame di maturità è la conferma del fatto che rimane uno degli ultimi riti di passaggio, in un’epoca in cui trionfa anche sugli umani la visione prestazionale delle macchine: o funzionano o sono guaste, non c’è crescita. 

L’esame di maturità interessa perché mette a tema, almeno una volta all’anno, il tempo “inutile” in cui ci si può dedicare a pensare chi sia l’uomo, la sua origine, il suo destino, la sua felicità. Fuori invece prevale il grande meccanismo in cui l’io non deve crescere, ma semplicemente diventare l’oggetto di produzione di se stesso, l’io-prestazione sostituisce l’io-presenza, abbiamo valore nella misura in cui siamo capaci di procurarcelo con le nostre forze e quindi alla periferia dell’io: avere, apparire, fare.

L’essere è cosa di cui si occupa chi ha tempo da perdere, roba da adolescenti, dopo si entra nel tempo da ottimizzare, illusi che il tempo si possa guadagnare, come se il tempo fosse a nostra disposizione e non noi a disposizione del tempo. Non c’è spazio per le domande che aprono un tempo verticale, quello che dà senso al tempo orizzontale degli orologi. Il tempo deve essere vinto, fare finta che non ci sia, nascondere che moriremo, vogliamo scavalcare la morte come se potessimo scavalcare la nostra ombra.

L’io prestazionale ha il suo mito nel guadagnare tempo (per fare cosa poi?), ma l’unico modo in cui l’uomo guadagna tempo è crescere. E l’uomo cresce solo quando impara ad abitare il tempo, cioè costruisce relazioni profonde con se stesso, gli altri e il mondo, come ribadisce Seneca a Lucilio, nel testo offerto ai ragazzi per il compito di traduzione: «Senza la Filosofia nessuno può vivere con coraggio, nessuno può vivere con tranquillità».

Noi invece preferiamo sottometterci al dio Prestazione (successo, bellezza, potere...) che ci garantisce di essere qualcuno, perdendo la capacità di stare in pace con noi stessi e il coraggio di affrontare ogni lotta, contenti (cioè contenuti) dentro la vita. Per questo l’io prestazionale è sempre stanco, a caccia di svaghi, non trova la festa nel quotidiano ma nell’over di emozioni o nell’iper di acquisti e informazioni, e spesso precipita nella depressione (cioè la pressione che schiaccia chi non si sente mai all’altezza), oppure nel «lesionismo», agito dai corpi dei ragazzi per lo più come violenza verso l’esterno o su quello delle ragazze per lo più come violenza verso l’interno, modi speculari di svincolarsi dalla mancanza di valore della propria vita. Un valore che può crescere solo dall’interno e grazie a relazioni sane e curate nel tempo, per cui la filosofia diventa necessario stile di vita ed esercizio dello spirito che si confronta con la negatività del reale, e non certo passatempo di salotti autoreferenziali, farciti di pensieri e premi di autocompiacimento (anche questi prestazioni del nostro tempo senza filosofia).

Fu Cicerone a dire che così come l’agricoltura è cura (-coltura) del campo (agri-) così la filosofia è cura dell’animo («animi cultura»). La filosofia è la coltivazione dell’io-presenza: come il contadino rispetta il tipo di semina e le stagioni e, attraverso un lavoro faticoso e paziente, ne coglie i frutti al momento opportuno, così noi, solo con un esercizio di conversazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, prendiamo possesso di noi stessi e diamo frutto. In un tempo che distrugge il tempo, la coltivazione del sé come campo fecondo che può dar frutto non è presa in considerazione, perché siamo sottomessi a prestazioni che non tollerano l’attesa, e quindi l’attenzione, la pazienza, e quindi la passione. Basti pensare ad una scuola tutta basata sulle prestazioni, simile più a un addestramento che a un percorso di conoscenza di se stessi, dei propri punti forti e deboli. Basti pensare a rapporti familiari per i quali non si trova mai il tempo, il tablet sostituisce la tavola, gli oggetti individuali sostituiscono i progetti condivisi. 

Quando Alcibiade si lamenta con Socrate del fatto che conoscere se stessi è faticoso, il filosofo gli risponde «è vero conoscere se stessi è difficile, ma se non conosceremo noi stessi non sapremo come prenderci cura di noi stessi». In Occidente il dna classico, arricchito dal concetto di persona del cristianesimo, ci ha consegnato un’eredità la cui erosione è stata e continua a essere esiziale: la conoscenza del mondo è al servizio della cura di se stessi e del mondo. Oggi la conoscenza del mondo è ridotta a utile, calcolo, tecnica: è al servizio del dominio di se stessi e del mondo. Ma se non sappiamo prenderci cura di noi stessi andiamo incontro a un mondo regolato da rapporti di forza e non di cura. Ma si sa questi sono discorsi che durano il tempo di una maturità, di una versione di latino di Seneca: «ma a che vuoi che serva il latino, oggi», «fai lo scientifico senza latino, che poi non trovi lavoro». Noi dobbiamo ottimizzare, produrre i nostri io, senza sapere neanche chi e che cosa sia «io», come se la felicità fosse una condizione delle cose e non dello spirito. Per questo Shakespeare poteva ancora far dire ad uno dei suoi personaggi: «Quando l’anima è pronta, allora anche le cose sono pronte». Senza filosofia, ci siamo convinti del contrario. 

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Alessandro D’Avenia


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giovedì 22 giugno 2017

Pd, lo spettro dei ballottaggi

LA STAMPA

Italia

Pd, lo spettro

di ballottaggi

non favorevoli

al partito

Circolano sondaggi sui possibili risultati del voto di domenica non proprio incoraggianti per il Pd. La tendenza sarebbe quella manifestatasi al primo turno, più favorevole al centrodestra, che potrebbe espugnare Genova e La Spezia. Soprattutto la perdita della prima, sempre rimasta al centrosinistra anche quando la Regione aveva un’amministrazione di segno opposto, sarebbe un duro colpo per il partito di Renzi, una sconfitta simbolica come fu l’anno scorso la perdita di Torino. Inoltre, a Genova il centrosinistra è unito, diversamente dalle regionali in cui si divise lasciando spazio alla vittoria dell’attuale governatore Toti, oggi il maggior teorico, anche a costo di dissentire dall’ex-Cavaliere, dell’accordo tra la destra moderata di Forza Italia e quella sovranista-populista di Salvini e Meloni. Forse è anche per questo che Berlusconi, pur scettico sull’alleanza con Lega e Fratelli d’Italia dopo la rottura dell’anno scorso sulle candidature per il Campidoglio romano, è riapparso ieri sera a Porta a Porta», per dare il suo contributo (farà anche dei comizi nelle città in cui si vota) e eventualmente mettere un suggello all’imprevista, anche se ventilata, vittoria di domenica.

Ma la vera linea del Piave dei ballottaggi, nelle stanze del Nazareno, è stabilita a Pistoia. Se dovesse passare di mano anche una delle più solide roccaforti rosse, dove il Pci raccoglieva il 55 per cento dei voti e governava con maggioranze bulgare, il quadro delle amministrative prenderebbe un segno diverso, e la ricomposizione dell’alleanza dei vari tronconi del centrosinistra, di cui si sta discutendo in questi giorni, grazie anche all’impegno personale di Romano Prodi, diventerebbe assai più difficile di quanto già non sembri, dopo lo scontro sulla Consip al Senato tra Pd e bersaniani.

A parte la difficoltà di reggere il risultato negativo subito dopo la riconferma a leader nelle primarie, per Renzi si aprirebbe di nuovo il problema di un aggiustamento di strategia, e, forse, di un ripensamento sulla legge elettorale modello tedesco frettolosamente archiviata dopo l’assalto dei franchi tiratori alla Camera. Con il Consultellum, infatti, il Pd è praticamente costretto ad andare al voto in coalizione con le formazioni che stanno alla propria sinistra, che lo hanno scelto come avversario numero uno, tutte o in parte. Idem dicasi per il centrodestra e per l’ex-Cavaliere, che alla sola idea di sedersi a tavola con Salvini si fa venire il mal di pancia. Così che Renzi e Berlusconi, o ritrovano l’accordo, o sono condannati a fare politiche in cui non credono.

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Marcello

Sorgi



Virginia? Decide tutto la Casaleggio”

LA STAMPA

Italia

“Grillo mi riammette, ma non mi basta

Virginia? Decide tutto la Casaleggio”

Motta, il capo degli espulsi vincitori in tribunale a Roma e Napoli 

«In relazione all’espulsione contestata nel giudizio pendente e sospesa con provvedimento cautelare del Tribunale di Roma, cui è seguita la riammissione temporanea, ti comunico la riammissione in via definitiva al MoVimento 5 stelle». Firmato Beppe Grillo. Roberto Motta, il capo degli espulsi romani M5S, uno dei militanti dotati di studi alle spalle (laureato in statistica con Giorgio Troi, nel giro degli allievi di Federico Caffè), ha guidato i ricorsi vinti contro la Casaleggio dai grillini cacciati a Roma e Napoli. Ha appena ricevuto questa mail dall’azienda, per la prima volta Grillo deve arretrare da un’espulsione, pena guai giudiziari più seri. Ma Motta non ha intenzione di deporre l’ascia. «La lotta continua», dice.

Non è abbastanza che Grillo, per la prima volta, debba riammettere un espulso? «No. Ci sono altri giudizi pendenti, illegittimità del regolamento e della seconda associazione, costituita da Grillo e dal nipote, lite temeraria, e altro» Ci sarà anche un possibile risarcimento molto alto, per perdita di chance. «Io sarei stato tra i consiglieri comunali, con ottime chance di risultare nei primi cinque». La riammissione avviene in coincidenza dei guai della sindaca. Che pensa della Raggi? «Il suo fallimento va molto oltre le cose che sono emerse. Comincia dal decalogo che firmò con lo staff. Lei ha accettato di fare tutto quello che le viene detto. A partire dalle nomine. Non può decidere niente» Per esempio? «Pensi solo a due degli ultimi casi: Raggi nomina Fabio Serini - che era il curatore giudiziale all’Aamps, l’azienda di rifuti di Livorno, cioè un controllore del M5S - come commissario straordinario all’Ipa, l’Istituto di previdenza dei dirigenti capitolini: cioè un controllato. Luca Lanzalone, consulente Aamps sempre a Livorno, diventa presidente di Acea. Siamo dentro totali conflitti d’interessi, intrecci nei cda, un disastro, completamente contrario ai princìpi del Movimento». Rispetto alla giunta Marino come va? «Marino aveva fatto cose anche buone. Per esempio aveva tolto tutti i cda delle municipalizzate. La Raggi li ha rimessi. C’è una persona brava, come Antonella Giglio all’Ama? Viene mandata via senza motivo, anzi, col motivo strisciante che sarebbe amica della Muraro: detto dalla Montanari, che arriva a Grillo dalla giunta di Delrio a Reggio Emilia». La Raggi dapprima legata alla destra, poi ha cercato tregua dai media appoggiandosi a qualche ex del mondo Pd? «La Raggi, scoperta la sua pratica da Previti, o le nomine legate al giro Panzironi, s’è rifugiata ripescando le terze file del Pd a Roma. Altra cosa contraria alle regole M5S. In passato gente è stata cacciata dal M5S per molto meno, come la povera Cecilia Petrassi, che era stata assistente, precaria, di Claudio Scajola». Le competenze come le sembrano, nella giunta e negli eletti capitolini M5S? «Ai contenuti hanno preferito imporre minigonne, slogan banali e incoerenti rispetto ai principi condivisi dalla base. Alle critiche rispondono con permaloso livore mirato a colpire esclusivamente la persona. Nel M5S un capogruppo che ha un diploma turistico alberghiero, Paolo Ferrara, attacca Cristina Grancio, un architetto, che critica con cognizione di causa le scelte di Raggi sullo stadio». È vero che Lombardi ha reso la vita ancora più difficile alla sindaca? «Io ci credo poco. Tutto questo odio tra le due l’ho visto poco, e ho lavorato per Roberta, e avuto ottimo rapporto con Virginia. Conservo ancora gli scritti di quando la futura sindaca mi rispondeva per messaggio “vedete di andare d’accordo, tu e Roberta, il Paese ha bisogno di voi”». Forse una lieve esagerazione, foriera di analoghe prove. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

jacopo iacoboni


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domenica 18 giugno 2017

Roma, un anno di Raggi Due ordinanze su tre sono dedicate alle poltrone

LA STAMPA

Italia

Roma, un anno di Raggi

Due ordinanze su tre

sono dedicate alle poltrone

L’80% della raccolta rifiuti ancora in mano ai privati, cala la differenziata 

Più di 300 guasti al giorno ai bus Atac, ma il piano di riassetto non parte

Se un anno di Virginia Raggi lo si giudicasse dalle strade attorno casa sua, si potrebbe nutrire il sospetto che la città abbia trovato il sindaco giusto. Piccoli e ordinati contenitori per la differenziata, raccolta porta a porta, un via vai continuo di mezzi. Se non fosse per la piaga delle buche e delle radici, certe vie di Borgata Ottavia sembrano uscire da uno spot di pubblicità progresso. Purtroppo l’attenzione al decoro in certi angoli dell’Urbe abitati dai politici è una tradizione dell’Ama che non conosce colore. L’illusione di un’altra Roma dura lo spazio di qualche centinaio di metri, ciò che separa la realtà dalla rappresentazione. Basta imboccare Via di Casal del Marmo e Roma riprende le sembianze note ai più. È di questi giorni l’ennesima emergenza rifiuti.

Il poltronificio

Per capire quanto disti un anno di realtà dalla rappresentazione che ne fanno i suoi vertici, proviamo a fare un bilancio del governo Cinque Stelle della Capitale partendo dai numeri. Per valutarli abbiamo chiesto più volte un incontro al sindaco Raggi, la quale ha rifiutato senza spiegazioni. Partiamo proprio dalle ordinanze del sindaco: su 227 atti ben 149 – i due terzi - hanno a che fare con nomine, revoche o deleghe assegnate ad assessori e dirigenti. Stessa cosa è avvenuta in Giunta: su 258 delibere, 75 – più di un terzo - riguardano l’assunzione di personale esterno. La Raggi ha passato gran parte del tempo da sindaco a occuparsi di poltrone: la sua giunta ha messo a contratto 102 collaboratori esterni, dodici in più di quelli nominati da Ignazio Marino, quindici in più dell’era Alemanno. Si dirà: il primo anno serve a scegliere persone di fiducia. Per lei è stata un’operazione particolarmente complessa, e va oltre la fisiologia del cosiddetto spoil system. Nonostante i tentativi (quattro), alla macchina comunale del Campidoglio mancano ancora il capo di gabinetto e due assessori (Lavori pubblici e Servizi sociali). In un anno sono cambiati il vicesindaco, l’assessore all’Ambiente, quello all’Urbanistica, due volte il titolare del Bilancio. Solo all’Ama si sono avvicendati quattro amministratori delegati e due direttori generali. E non è finita qui: entro la fine dell’anno c’è da rinnovare il consiglio di amministrazione di tutte le società partecipate per le quali è stato introdotto l’obbligo dei tre componenti. 

L’Ama non cambia

L’Azienda dei rifiuti è la chiave del successo o del fallimento del governo Cinque Stelle della città. Lo smaltimento dei rifiuti a Roma costa quattro volte quello di Milano, perché Ama è in grado di trattarne appena il 20 per cento: il resto lo paga ai privati e per trasportare l’immondizia in giro per l’Europa. Fra promesse di “modelli spagnoli”, “chilometri zero” e “riutilizzo totale degli scarti” nell’ultimo anno la situazione è persino peggiorata. Nel tentativo disperato di tenere al riparo le strade dai rifiuti ingombranti e da certa maleducazione, la percentuale di raccolta differenziata è scesa al 42 per cento, un punto in meno di un anno fa e in controtendenza rispetto al +8 per cento degli ultimi anni fa. Il nuovo piano industriale ridurrà gli investimenti: invece dei 300 milioni previsti per la creazione di nuovi ecodistretti e l’acquisto di mezzi, ne resteranno solo 110 per i mezzi. Nel frattempo l’unica decisione concreta è stata quella di affossare il progetto per il nuovo impianto di compostaggio a Rocca Cencia, inviso ai residenti. Da maggio a oggi ci sono stati tre strani incendi in altrettanti impianti di trattamento dei rifiuti: a Castelforte, Viterbo e Malagrotta. Di recente il ras del settore Manlio Cerroni ha annunciato che i due impianti dell’indifferenziata a Malagrotta non tratteranno più 1250 tonnellate di immondizia al giorno, ma solo 800. L’Ama sta tentando di aprirne uno nuovo a Ostia, ma a ottobre si vota nel Municipio e i vertici del M5S della zona sono contrari. Risultato: negli ultimi giorni nei quartieri a est della Capitale la situazione della raccolta è di nuovo al collasso. Sull’azienda incombe poi il rischio del dissesto finanziario: poiché il Comune sta pensando di togliere all’Ama la gestione diretta della tariffa sui rifiuti, il pool di otto banche capeggiato da Bnl minaccia la cancellazione di un finanziamento di 600 milioni. Alla faccia del chilometro zero, seicento milioni è quanto l’azienda stima di spendere nei prossimi quattro anni per far smaltire ai privati quattro milioni di tonnellate di rifiuti. Il piano dell’ex numero uno Daniele Fortini prevedeva entro il 2021 di far salire all’80 per cento la quantità di rifiuti trattata direttamente da Ama. Per la gioia dei privati l’ultimo piano industriale approvato – quello deciso dalla ormai ex numero uno Antonella Giglio – ha abbassato quella stima al 29 per cento. Non solo: secondo quanto raccontano fonti interne all’azienda, starebbe aumentando anche il numero di appalti affidati con trattativa diretta invece che con regolare gara. 

Riordino no grazie

Fra le promesse della Raggi c’è quella di rimettere a posto i conti disastrati della Capitale. In campagna elettorale ha insistito su un tema popolare: la rinegoziazione del debito monstre in mano alle banche. Finora si è limitata a far votare al Consiglio comunale 143 delibere per il pagamento di debiti fuori bilancio su un totale di 179. Delibere votate quasi tutte a cavallo di Natale e che valgono circa cento milioni di euro: la Corte dei Conti ora indaga sospettando danni erariali. La giunta ha discusso 25 delibere sulle società partecipate dal Comune, ma del piano di razionalizzazione della megaholding pubblica c’è solo un progetto sulla carta. Per scriverlo, l’assessore Massimo Colomban - un grosso imprenditore veneto mandato dai vertici in soccorso alla Raggi - si è affidato a Paolo Simioni, già amministratore dell’aeroporto di Venezia, nel mirino delle opposizioni per i 240mila euro di stipendio pagato quota parte da ciascuna delle tre grandi società, Atac, Acea e Ama. Il piano - ambiziosissimo - prevede di scendere da 40 controllate a 10-12 aziende, e la dismissione di parte delle quote di Adr, Centrale del Latte e della stessa Acea. 

In realtà gli atti rilevanti votati finora in consiglio comunale sono solo due: il via libera preliminare allo stadio della Roma e l’adozione di un nuovo regolamento sugli ambulanti che aggira l’obbligo di gara previsto dalla direttiva Bolkenstein già ribattezzato “salva Tredicine” dal nome della famiglia proprietaria di decine di camion e bancarelle. Su 179 delibere, due hanno riguardato l’urbanistica e i trasporti, una sola la cultura, una la scuola. L’unico atto sulla scuola degno di nota è però frutto di una proposta della capogruppo Pd Michela Di Biase che consente alle mamme di consegnare il latte materno negli asili nido.

Annunci e sostanza

Se ci accontentassimo degli annunci la Raggi si meriterebbe un dieci. Prendiamo le strade. Il sindaco rivendica un piano buche e porta con sé le fotografie di alcuni tratti rifatti, ma nel frattempo per ovviare alla scarsa manutenzione, in tre arterie della città - Aurelia, Cristoforo Colombo e Salaria - è stato imposto il limite a trenta all’ora. Intendiamoci, governare una città come Roma non sarebbe facile per nessuno. A marzo la Raggi ha rimesso in strada 15 filobus nuovi fermi da tempo nei garage dell’Atac. Nel giro di 24 ore quattro mezzi erano già fuori uso per problemi tecnici. «Cuciniamo con quel che abbiamo», si difese la sindaca. La sindrome dell’annuncite è direttamente proporzionale alla scarsità delle risorse. Mentre l’Atac conta più di trecento guasti al giorno ad altrettanti mezzi, l’assessore alla Mobilità Linda Meleo porta in giunta un piano per l’introduzione di sei nuove linee del tram, tre funivie e il prolungamento della linea B della metropolitana. Peccato che l’unica certezza sia il caos attorno al futuro della linea C, le cui ruspe fanno mostra di sé ai fori imperiali. A novembre dell’anno scorso il consiglio comunale ha votato una mozione straordinaria per lo scioglimento di Roma Metropolitane, la società che gestisce il cantiere. Nel frattempo fra sindaco, consiglieri e assessori si è aperto il dibattito su dove fermare il tracciato: se al Colosseo, al Corviale o al Flaminio. Il solito Colomban, una sorta di commissario prefettizio della Raggi, ha spento il dibattito durante una riunione della Commissione trasparenza: Roma Metropolitane va avanti, mozione o non mozione.

Fra le mura solenni dell’aula Giulio Cesare si consumano scontri epici non solo con l’opposizione del Pd e di Fratelli d’Italia, ma anche nella maggioranza bulgara del Movimento. Da un lato il sindaco e il braccio destro Daniele Frongia, sostenuti da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, dall’altra i consiglieri romani guidati da Roberta Lombardi e Marcello De Vito. Quando il gruppo si ricompatta, il dissenso è soffocato. Ne sanno qualcosa Cristina Grancio e Gemma Guerrini, entrambe vicine all’espulsione per essersi opposte al progetto sullo stadio della Roma. In mezzo gli uomini mandati da Davide Casaleggio e Beppe Grillo a evitare il peggio: il già citato Colomban e il neopresidente dell’Acea, l’avvocato genovese Luca Lanzalone, delegato dal sindaco anche alla trattativa sullo stadio.

I troppi no

I tecnici Colomban e Lanzalone appaiono come la quintessenza del realismo grillino. Per chi come la Raggi amministra la cosa pubblica e non ha sufficiente esperienza politica dire no è più semplice di un sì. Ad una olimpiade, a un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti o allo scavo della metropolitana. Ma talvolta i no possono essere fatali all’immagine della città. Ne sanno qualcosa gli abitanti dell’Eur abituati alla vista di un ecomostro a pochi metri dalla nuvola di Fuksas. Fu uno dei primi atti della giunta Raggi: la revoca del permesso a costruire per il restauro delle torri. Sembrava la fine di una storia tutta italiana: dopo anni di tira e molla con gli altri azionisti, Cassa depositi e prestiti e Telecom si erano unite nel progetto per la costruzione della nuova sede del gigante telefonico. Il no dell’allora assessore Paolo Berdini ha offerto all’azienda l’alibi perfetto per rinunciare ad un progetto nel frattempo giudicato troppo costoso.

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Alessandro Barbera


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L’effetto rieccolo della politica italiana

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“Se me lo chiede il Paese, mi sacrifico”

L’effetto rieccolo della politica italiana 

Da Berlusconi a D’Alema, da De Mita a Orlando: è la riscossa dei rottamati

Ci si distrae un attimo e rieccoli tutti lì: Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e la sua vecchia costola Umberto Bossi, Leoluca Orlando che non ha nemmeno il buon gusto di incanutire, persino Ciriaco De Mita accompagnato dalla discrezione di un pensiero. Riemergenti per necessità, non loro, ma del Paese che parrebbe spingerli al solito atto di responsabilità, e cioè ancora al sacrificio. D’Alema sembra prendere la parola a nome di tutti: «Noi sentiamo l’urgenza di offrire agli italiani un’altra possibilità». Uno slancio colmo di nobiltà, e un uomo avveduto come D’Alema non avrà trascurato un’opzione: che gli italiani non sentano la medesima urgenza, e cioè di offrirla a lui un’altra possibilità. Ma è la democrazia. La sconfitta di Matteo Renzi al referendum e le trattative non particolarmente auliche né stentoree sulla legge elettorale hanno rimesso fiato a uomini e ambizioni (e spirito di servizio, diciamo): una legge della politica, e della vita, è che col tempo si scoprono le indispensabili virtù dell’esperienza. Compreso De Mita, ognuno dei riemergenti ha avuto la consapevolezza di essere il nuovo, sospinto dalla storia all’incarico del rinnovamento.

Per Berlusconi e Bossi non serve sostanziare, per Orlando nemmeno, forse neanche per Prodi, ma per D’Alema sì. Nel Pleistocene della nostra memoria fu un innovatore sin dai tempi della Federazione dei giovani comunisti negli anni Settanta, e poi del Pci negli anni Ottanta quando si trattò di sostituire Alessandro Natta con Achille Occhetto, e di nuovo un innovatore del Pds quando si trattò di sostituire Occhetto con sé medesimo, cioè il volto nuovo, finalmente. Nel 1992, venticinque anni fa, D’Alema già sentiva le urgenze: «Un governo con programmi diversi e volti nuovi». L’idea che circolava di un altro governo Craxi gli faceva intravedere la «sciagura», poiché, ancora, «servono volti nuovi». Settembre 1997 (poi non vi annoiamo più): «Si sta formando una classe dirigente che ha caratteristiche ben diverse da quella che ci ha preceduto. Una classe dirigente giovane, appassionata, che mostra al Paese intero il volto di una nuova Italia». Ecco, siamo stati tutti rottamatori. Magari con un lessico più contenuto e risultati migliori. E che c’è di più naturale che resistere alla ruota che gira? L’altra sera, a Bari, D’Alema ha spiegato perché non si tira indietro: «È evidente che per un movimento che nasce ci sarà bisogno di candidare delle personalità. Quindi se i cittadini pugliesi mi chiederanno di essere candidato, mi prenderò le mie responsabilità». 

Ecco, la personalità si sacrifica. Non si sottovaluta il rischio di avere affiancato D’Alema a Renzi, e ora di affiancarlo a Berlusconi, ma «sacrificio» e «responsabilità» sono stati i motori, per autodichiarazione, di un’intera carriera politica. «Restare a Palazzo Chigi e alla guida del centrodestra vi assicuro che è un grande, grandissimo sacrificio» (Berlusconi, giugno 2011). «Il senso di responsabilità verso il mio Paese mi ha costretto a scendere in campo anche adesso». Quest’ultima è dello scorso novembre e chissà il novembre prossimo, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrà giudicato l’incandidabilità di Berlusconi. In genere ci vogliono sei mesi (quindi si va a maggio 2018) per la sentenza, ma l’arrivo delle elezioni potrebbe consigliare alla Corte un po’ di sollecitudine. L’idea che il vecchio capo rimetta insieme la vecchia squadra ha innescato la contromossa permanente: Prodi! Il quale Prodi ha sufficiente amor proprio per restare zitto, e vedere l’effetto che fa, mentre a sinistra la potenziale coalizione s’allarga e s’allarga, e più s’allarga più necessita del miglior federatore di tutti i tempi. Prodi! Sembra di tornare ai tempi dei Bellissimi di Retequattro, i film di seconda serata con Cary Grant e Ingrid Bergman, intanto che qui si controllano i rendimenti azionari di Netflix. 

E non è una semplice impressione. Non è soltanto la deformazione della nostalgia. È proprio l’urgenza di cui parla D’Alema. Se Berlusconi ritorna al futuro gli vanno dietro tutti, ognuno con la propria urgenza. «La stella polare del Nord è la Padania, non la Lega. La Lega è uno strumento, e se uno strumento non serve lo puoi fare anche sparire», ha detto Umberto Bossi al raduno del Grande Nord, il movimento dei leghisti intolleranti del sovranismo nazionale di Matteo Salvini. «Siete troppo legati al presente. Inventate una via d’uscita dalla palude che ha creato Renzi, non rassegnatevi. Gli ex democristiani del Pd non parlano, sono muti, non so se sono vivi o morti», ha detto Ciriaco De Mita una settimana fa a Napoli. «Non voglio fondare un quarto polo, voglio stanare i democristiani», ha detto. Visto da qui, e con la folla vociante, De Mita è diventato un colosso, alla cui ombra sognare la rinascita della Dc. Insieme alla rinascita di D’Alema, dell’Ulivo, della Padania, dello spirito forzitaliano del ’94, cose così diverse e così lontane tenute assieme dal vero immarcescibile: Leoluca Orlando, che fu sindaco di Palermo con la Dc nel 1985, e rottama rottama, ancora sindaco è.

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mattia feltri


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sabato 17 giugno 2017

Le fondazioni socialiste europee scaricano il presidente D’Alema (!!!)

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Le fondazioni socialiste europee

scaricano il presidente D’Alema

La motivazione: “Ha sostenuto la scissione dei democratici”

Cari amici, è con «profondo senso di responsabilità» che condividiamo le nostre preoccupazioni: Massimo D’Alema, che in Italia ha sostenuto la scissione dal Pd, non può più essere il presidente della Feps, la Foundation for European Progressive Studies. Firmato, sette fondazioni europee di primo piano. 

Il preavviso di licenziamento del nostro ex premier è stato recapitato via lettera nei giorni scorsi a tutti i vertici dell’organizzazione che, a Bruxelles, riunisce le fondazioni vicine ai partiti socialisti del continente. Incluso lui, che la presiede con un certo compiacimento dal 2010 («mi occupo quasi esclusivamente di questioni europee e internazionali», ripete sovente), riconfermato all’unanimità un anno fa: il 28 di questo mese si terrà l’Assemblea generale che dovrà rinnovare gli organi ma, stavolta, è a un passo dal benservito. Ieri, la fondazione portoghese Res Publica ha avanzato una candidatura alternativa, già sostenuta da molte altre firmatarie della missiva contro di lui: l’europarlamentare di Lisbona Maria João Rodrigues.

D’Alema, scrivono le sette fondazioni, è «figura chiave di un nuovo movimento politico che competerà con entrambi i partiti membri del Pse in Italia: il Pd e il Psi. Riteniamo questa azione incompatibile con il mandato di guida e rappresentante della Feps». I vertici della grande organizzazione europea devono «agire con saggezza, mostrare solidarietà, preservare l’unità e promuovere lealtà ai nostri valori fondamentali»: se non fosse chiaro, aggiungono che «noi, membri della Feps, meritiamo una leadership rinnovata». A firmare le due secche paginette, oltre a Res Publica, la Friedrich Ebert Stiftung tedesca, la francese Jean Jaurès, la spagnola Pablo Iglesias, la svedese Olof Palme International Center, la ceca Masarykova Demokraticka Akademie e la maltese Ideat.

I rapporti tra il promotore di Articolo 1 e il Pse sono burrascosi dai tempi della sua campagna per il no al referendum del 4 dicembre: con il segretario, il bulgaro Sergei Stanishev, c’è stato un fitto carteggio dopo che D’Alema in tv consigliò anche al Pse, schierato per il sì in linea col partito affiliato Pd, oltre a Merkel e Jp Morgan, di «farsi i fatti loro». Peggio ancora dopo la scissione dai dem: «Un errore storico, una totale mancanza di lealtà verso il Pd e verso il Pse», la bollò Stanishev. Tanto che, da quelle parti, si aspettavano spontanee dimissioni del leader di Italianieuropei dalla presidenza della Feps. Non sono arrivate: ora sono alcuni importanti membri a chiederle. Sette fondazioni italiane fanno parte della Feps, quella che rappresenta il Pd è la Eyu, presieduta dal renzianissimo Francesco Bonifazi: ufficialmente non si sono schierati, ma si può intuire come la pensino. Ancora una decina di giorni e si arriverà al voto. E chissà che non sia lo stesso D’Alema, annusata l’aria, a fare un passo indietro: in fondo, ha già dichiarato che «se i pugliesi lo chiedessero in massa» gli toccherebbe fare il sacrificio di ricandidarsi in Parlamento.

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francesca schianchi


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giovedì 8 giugno 2017

Da Albissola a Cosio d’Arroscia Situazionismo la storia in un libro

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Imperia

Da Albissola a Cosio d’Arroscia

Situazionismo

la storia in un libro

«Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo» è questo il titolo dell’ultimo libro di Donatella Alfonso, edito da Il melangolo, racconto di una provocazione artistica nata sessant’anni fa, che ha infiammato il ’68 e resiste ancora.

Luglio 1957. A Cosio d’Arroscia, sulle Alpi Marittime liguri, nella casa di un giovane pittore e della moglie, sposati da poco, arrivano una coppia di intellettuali francesi e un artista inglese che fotografa tutti, un visionario artista danese, la figlia della più famosa collezionista d’arte americana, un musicista geniale che fa preoccupare la mamma e un farmacista che si è fatto teorico dell’arte. In quei pochi giorni nasce, e in un certo senso già deflagra, quella provocazione artistica e culturale che sarà l’Internazionale Situazionista. Un racconto romanzato (che si «beve» più che si legge, tanto lo stile è scorrevole) di quei giorni, quei protagonisti: Guy Debord e Michèle Bernstein, Asger Jorn e Pinot Gallizio, Pegeen Guggenheim e Ralph Rumney, Walter Olmo: tutti artisti che frequentavano la «piccole Atene», ovvero l’Albissola della ceramica e dei ceramisti di livello internazionale, ospiti di Piero e Elena Simondo. 

Tutti a costruire una rivoluzione sotterranea che ha infiammato le strade del Sessantotto e la polemica culturale, si è nascosta ma cova ancora. «E sono le foto, adesso, a tramandare questa storia alla gente del paese che si chiama Cosio, lassù sulle Alpi Marittime dove il mare di Liguria lo senti quando arriva una folata di vento, ma subito sopra c’è la neve e, se ti giri a sinistra, sai che c’è la Francia. La gente: quella che è rimasta insomma, perché quassù la nebbia arriva anche a giugno e il mare è lontano persino per i tedeschi», scrive la Alfonso.

Il libro verrà presentato oggi alle 18 alla Feltrinelli di Genova. Donatella Alfonso, giornalista di Repubblica, già autrice di un bel libro su Felice Cascione, sarà introdotta da Fernando Fasce e Giuliano Galletta. [ste.pez.]

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mercoledì 7 giugno 2017

Dal Fedro di Platone. Thamus a Theuth: il tuo sapere è solo apparente...

LA STAMPA

Cultura

Platone: un sapere

solo apparente

Questa scoperta [la scrittura], per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell’anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da sé stessi; perciò tu [chi parla è l’immaginario faraone Thamus, che si rivolge al dio Theuth inventore della scrittura] hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti.

[dal Fedro di Platone]



Se la nostra memoria emigra nella Nuvola

LA STAMPA

Cultura

Derrick de Kerckhove

Se la nostra memoria

emigra nella Nuvola 

Soffriamo di “amnesia digitale” da uso eccessivo di Google e smartphone

e così ci priviamo di quei riferimenti necessari e condivisi che permettono

di decidere. In questo modo diventa impossibile resistere al populismo

La storia della memoria occidentale comincia con Platone, che considerava l’invenzione della scrittura una «fonte d’ignoranza», perché la gente, contando sullo spostamento della memoria fuori di sé, nelle cose scritte, avrebbe dimenticato di ricordare le cose dentro di sé. Recentemente, Marino Niola ha dichiarato che «siamo davanti a una delocalizzazione della memoria. Essa smette di essere una proprietà personale, un gioco di sinapsi individuali, per trasferirsi su un supporto collettivo. In principio la tavoletta di cera o la pergamena, poi il libro, oggi il disco rigido».

A pensarci, i giovani tassisti di Roma non padroneggiano la città, conoscono solo il navigatore e la dolce voce della guida, «Lei». E tu, lettore, non ricordi il numero di telefono del tuo partner.

Come ha scritto Umberto Eco, la verità è che stiamo perdendo la memoria, «quella personale, inghiottita dall’iPad, e quella collettiva, forse per la pigrizia di non voler comprendere il passato per capire il presente». È stato proprio Umberto Eco a spostare l’attenzione sulla grande differenza tra memoria personale e collettiva. Intanto, che significa il nostro passato? C’è il passato personale, un’accumulazione di esperienze (comprese quelle che ci regala la lettura di un romanzo o la visione di un film), e quello collettivo, accumulazione di fatti, siano essi veri o falsi, immaginati o reali, che condividiamo tacitamente con altri, che abbiamo in mente o teniamo sui nostri schermi. Quando ero giovane, memoria personale e memoria collettiva erano unite nella mia persona, mentre apprendevo sempre più fatti e acquisivo maggiori esperienze. La conoscenza del passato ne faceva parte. 

Esperienze e fatti

Ma adesso, tornando digitale on line, la memoria culturale emigra completamente fuori del mio corpo e se ne va nel cloud. Si chiama «amnesia digitale» da uso eccessivo di Google e smartphone. Uno studio di Kaspersky Lab, una delle società più importanti nella produzione di software per la sicurezza informatica, ha rilevato che il 71% dei genitori non ricorda i numeri dei loro figli. Più della metà dei 16-24enni monitorati nell’inchiesta ha dichiarato di portare con sé tutto ciò che necessita conoscere o ricordare, avendolo messo nei propri device

Ora, la memoria personale è sempre fatta di esperienze, quella digitale sempre fatta di nozioni, di fatti. Il digitale, separando i fatti dell’esperienza, indebolisce la resistenza psicologica della persona. A causa di questa strana separazione tra fatti ed esperienze, i fatti ormai non vivono più dentro di noi. Sono le proporzioni tra memoria collettiva e personale, digitale o mentale, a fare la differenza tra l’avere un passato o meno. I giovani adulti di oggi hanno più esperienze che fatti, questi ultimi sono sempre a disposizione, inutile perdere tempo a ricordarli.

Esiste un problema? Sì. Non avere memoria storica o culturale, o non ritrovare riferimenti senza ricercarli in rete, è un invito alle Brexit e ai Trump di questo mondo. Lo svuotamento della memoria delle persone le priva di punti di paragone, di quei riferimenti necessari e condivisi che permettono di prendere una decisione. Nella partecipazione immediata e permanente che intratteniamo con il mondo digitale, nell’accelerazione continua e nel total surround dell’informazione, sparisce l’intervallo necessario per riflettere e sostenere punti di vista. Come resistere al populismo se non abbiamo un punto di vista? Impossibile. La risposta, certamente pericolosa e altrettanto affrettata, è dunque l’istintiva accettazione della promessa di cambiamento. È paradossale ma tutto ciò sta esplodendo senza che ve ne sia una coscienza diffusa. La domanda urgente da porsi è allora se un qualche tipo di passato esisterà ancora nel nostro futuro.

La conoscenza interna è su base biologica, mentale, quella esterna è tecnica, cioè virtuale. Non si devono confondere accesso e contenuto. La banca dati si chiama (per sineddoche) «memoria», ma la memoria come funzione cognitiva la possiede solo l’uomo. Gli schermi (e le tastiere) sono il punto di passaggio e di scambio tra queste due modalità di conoscenza. Con l’esternalizzazione di tutte le nostre facoltà avviene uno sbilanciamento tra conoscenza interna ed esterna.

Non si può tornare indietro

In principio, nelle culture orali, il sapere comune era più importante di quello individuale. La scrittura, che ha permesso l’appropriazione del linguaggio e del sapere, ha fatto crescere rapidamente le menti, l’intelligenza e l’immaginazione degli scribi. Oggi, la maggior parte delle strategie cognitive acquisite con l’alfabeto sono emigrate in rete, «aumentate», raffinate, e connesse a tutta la memoria del mondo, una memoria digitale che sta cambiando l’equilibro tra memoria personale e memoria pubblica.

Cosa succede a un’umanità senza bagagli? La digitalizzazione della conoscenza sta divorando i contenuti della memoria biologica, personale. Ci svuotiamo dall’interno senza rendercene conto. Non solo la nostra memoria è fuori del nostro corpo, ma diviene proprietà pubblica in un inconscio connettivo digitale. L’inconscio digitale è tutto quello che sappiamo di te che tu non sai! È la totalità, sempre crescente, dei dati che lasciamo con ogni movimento, ogni gesto, ogni parola on o off-line. La summa virtuale di questi dati è la nostra definizione inconscia. Serve a definire il nostro destino, articolato secondo i sistemi dei motori di ricerca e di Data o Predictive Analytics. L’inconscio digitale è tanto potente nel determinare il nostro comportamento quanto quello immaginato da Freud.

Platone non aveva capito che il mettere in comune tanti ricordi individuali, fossero essi conoscenze, storie, miti o altre finzioni, avrebbe fatto crescere molto più velocemente il patrimonio scientifico, politico, economico e sociale di tutti. Così è successo, per arrivare fino a noi, al digitale, quando la tendenza a esportare il contenuto della nostra mente ha raggiunto la rete e le banche dati. Portando lì la nostra memoria a lungo termine, spostando testi, letture, immagini, video, percorsi, sul telefonino e fuori della testa, ancora una volta liberiamo le nostre menti, per innovare in nuove direzioni grazie all’accesso a tutta la conoscenza del mondo. Bene o male, non possiamo tornare indietro. Meglio sapere come andare avanti.

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Derrick de Kerckhove


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