ebook di Fulvio Romano

martedì 29 maggio 2018

“ È di Di Maio la fiera delle bugie”

LA STAMPA

Italia

Ora il Quirinale è convinto di avere concesso troppe aperture e credito al capo politico del M5S

Davanti al Presidente, si era quasi scusato: “Mi dispiace, ma su Savona si è impuntato Salvini”

Il Colle deluso da Di Maio:

“Da lui la fiera delle bugie”

Sergio Mattarella non è più solo. Per la prima volta dopo settimane in cui neppure il suo partito d’origine (il Pd) muoveva un dito per sostenerlo, ecco all’improvviso scattare la contro-mobilitazione dei dem, piazza di sinistra contro piazza grillina, narrazione contro narrazione, e Matteo Renzi che smette di mangiare popcorn rituffandosi nella mischia. Sul web le minacce di morte al Presidente sono accompagnate dagli insulti più volgari, ma va pure forte l’hashtag #iostoconMattarella che abbozza una resistenza al pensiero unico della Rete. E se tanto Luigi Di Maio quanto Matteo Salvini vengono ospitati dalle tivù berlusconiane, tornate megafono populista, sul centralino del Quirinale si rovesciano in poche ore a migliaia le telefonate di solidarietà, di incoraggiamento al Capo dello Stato che, comunque finirà, ha saputo reagire ai «diktat» nel nome della Carta e delle regole. È come se pianeti in sonno si fossero di colpo risvegliati. Le asserzioni di Paolo Flores D’Arcais circa i presunti abusi del Colle sono state rintuzzate da frotte di costituzionalisti convinti che Mattarella abbia agito nel pieno delle proprie prerogative, sicuri che la minaccia di «impeachment» sarà un boomerang.

Dr Jekyll e Mr Hyde

Certo, da Di Maio un voltafaccia così clamoroso il Presidente non se lo sarebbe aspettato. Se c’è qualcuno che al Quirinale ha sempre riscosso la giusta attenzione riservata al nuovo, di cui i Cinque Stelle si sentono portavoce, quel qualcuno è stato proprio il loro capo politico. Addirittura, in piena campagna elettorale, Di Maio aveva potuto consegnare la lista dei potenziali ministri, in questo modo legittimandosi quale forza di governo al di là dei legittimi dubbi. C’è addirittura chi, tra i frequentatori del Colle, oggi abbozza un’autocritica per quella come per altre prove di fiducia, nell’insieme tali da attirare su Mattarella svariate critiche come egli stesso ha segnalato nel suo drammatico discorso domenicale alla nazione. Va bene che in politica la riconoscenza è il sentimento della vigilia, però Di Maio ha esaurito sul Colle il proprio credito e, fino alla fine del settennato nel 2022, verrà trattato come un bugiardo: forse per questo lui sta tentando la via disperata dell’impeachment, sapendo che al Quirinale non se ne fideranno mai più. Al punto ieri da smentire Di Maio pubblicamente («Non risponde a verità») sui presunti nomi suggeriti al posto di Savona. Addirittura, se i verbali dei colloqui nello Studio alla Vetrata venissero resi pubblici in nome della trasparenza, il leader pentastellato faticherebbe a spiegare a Grillo, a Casaleggio o a un Dibba come mai in presenza di Mattarella fosse stato così mansueto, ossequioso e perfino remissivo («Ci dispiace, Presidente, per questa insistenza su Savona ma sa, purtroppo la Lega si è impuntata in quel modo»), salvo trasformarsi subito dopo da dr. Jekyll in mr. Hyde. Meglio Salvini, allora. Con Mattarella ha avuto domenica un dialogo franco, e proprio per questo apprezzato dal Presidente che, forse, si sarà rammaricato di non aver colloquiato più spesso e direttamente con un leader spigoloso ma, perlomeno, in privato non così diverso da come appare alla gente.

Il pasticcio della data

Comunque sia, è il passato. Il futuro resta da scrivere, incominciando dalla data delle elezioni. Mattarella sa che non appena il governo Cottarelli verrà bocciato dal Parlamento, la prossima settimana, lui scioglierà le Camere. In quel caso dovremmo tornare alle urne il 20 agosto, e sarebbe una data assurda. Ma stavolta toccherà ai partiti trovare un modo di rinviare a settembre o a ottobre. Con una mozione parlamentare o altri escamotage. Sul Colle alzano le spalle: «Decidano loro come preferiscono, a noi andrà comunque bene».

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

ugo magri

martedì 8 maggio 2018

Vezzolano, il segreto delle mele ritrovate

LA STAMPA

Italia


Nel giardino dell’abbazia si recuperano le antiche varietà

Il meleto dell’abbazia di Vezzolano ad Albugnano (Asti) compie 22 anni. È una storia antica fatta di mani, sapienza, amore. In quel meleto, nato nel 1996 quasi per scherzo da un comitato di amici con la benedizione di Paola Salerno, Soprintendente ai Beni architettonici del Piemonte, si trovano le più antiche varietà di mele piemontesi. Un «saluto giocoso» avvisa il visitatore: «Benvenuto pellegrino che sei giunto da Torino, dall’Europa, da lontano, per mirare Vezzolano… nel frutteto i cultivar più svariati puoi trovar. Sono mele di un passato davvero ritrovato nello sguardo di chi cura la memoria e la natura».

Guai a dire: «A son mac pom» (sono solo mele), come fece un paesano all’inaugurazione, offendendo un po’ i nobili e gli studiosi riuniti in comitato: Roberto Radicati, Ludovico Radicati di Brozolo, il professore universitario Dario Rei, Leonardo Mosso di Cerreto, Claudio Caramellino e il «papà» delle mele, il chierese Luigi Dorella, alfiere del paesaggio monferrino, che a 86 anni cura ancora il frutteto. I «pom» sono diventati gustosi e famosi. Le piante sono una cinquantina, le varietà 24. Il meleto è stato preso a esempio dagli svizzeri ed è diventato strumento didattico. «Il meleto è nato per recuperare un patrimonio storico, per strappare all’oblio una tradizione piemontese. Nessuno ha pensato a un profitto economico: non business ma cultura», spiega il sociologo Dario Rei.

Eccola la scommessa del giardino delle mele nato all’ombra dell’abbazia di Santa Maria di Vezzolano. Recuperare quelle antiche varietà. Passeggiando nel frutteto in prima fila, come compagne di scuola, ci sono le mele Carla e la rossa Calvilla. Poi la «Ciocarina» che tra le mani sembra tintinnare come un sonaglino. Per la gioia degli agri-chef ecco il pom Rusnent e con cui si cucina la torta monferrina. In terza fila il pom dla Bota e la Matan che nelle vecchie cascine conservavamo nelle damigiane o in cassette al buio. Ogni pianta ha la sua targhettina con i nomi piemontesi: si passa dal pom del re ( piaceva a Carlo VIII e casa Savoia) al pom ad San Gioann, dal vanitoso pom Marcon al pom Giraudet. 

Molto di questo meleto si deve a Luigi Dorella che alla natura ha dedicato la sua vita. Conosce il linguaggio che nasce dal cuore ed entra in empatia con animali e piante. Mentre pota e insegna l’arte dell’innesto spiega: «Mai avvicinarsi ad una pianta brandendo le forbici, bisogna procedere con determinazione, ma con calma e rida pure chi non ci crede ma se si mormora alla pianta qualche parola d’amore, rassicurandola, la potatura riesce e l’albero dona fiori e frutti». Per arricchire il meleto è andato su e giù per le vigne, negli orti, nei prati. «I contadini mangiavano la frutta e buttavano via il torsolo, per questo in campagna ci sono piante selvatiche». Dorella, per 22 anni, ha curato il frutteto fortificandolo e trasformandolo in una meraviglia. 

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

selma chiosso

venerdì 4 maggio 2018

Dal manicomio alla libertà L’ultima paziente di Trieste “Salva grazie a Basaglia”

LA STAMPA

Italia

Reportage

Dal manicomio alla libertà

L’ultima paziente di Trieste

“Salva grazie a Basaglia”

Antonella, dal padiglione dei bimbi a quello delle agitate

“Oggi ha una casa per sé, senza di lui sarebbe morta”

Antonella è stata l’ultima a lasciare la città dei matti. È così che chiamano ancora oggi, bonariamente, l’ex manicomio di Trieste, perno della rivoluzione guidata da Franco Basaglia e culminata, 40 anni fa, nell’approvazione della legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia. A guardarlo oggi, questo complesso vivace di padiglioni giallo ocra incastonato nel parco collinare di San Giovanni, con il suo viavai di studenti e professori della vicina Università, triestini che fanno jogging con il cane e bambini che giocano a pallone, si fatica a immaginare che per decenni sia stato un contenitore di violenze, diritti negati, identità sradicate. Per trovarne traccia bisogna arrampicarsi per sei chilometri sull’altopiano del Carso e suonare al campanello di una casetta con giardino nel borgo di Opicina, dove abita una delle ultime testimoni di quello che Basaglia definì «l’annientamento dell’individuo messo in atto dall’istituzione psichiatrica». Ci accompagna Carla Prosdocimo, una vita spesa come operatrice all’ex manicomio e oggi amministratrice di sostegno di Antonella. «La Anto - racconta - non è stata riconosciuta alla nascita. Così nel 1951 è finita in un orfanotrofio, dove nel giro di pochi anni le sue condizioni sono precipitate». Il destino di Antonella è racchiuso in due certificati del pediatra. «Il primo, quando ha poco più di un anno, dice che la bambina ha qualche difficoltà di sviluppo del linguaggio ma se inserita in ambiente idoneo può recuperare». La raccomandazione viene ignorata, tant’è che quattro anni dopo il medico dichiara: «Antonella è affetta da frenastesia di grado elevato». Tradotto: intelligenza prossima allo zero, nessuna possibilità di recupero.

A nove anni, ancora bambina, Antonella varca per la prima volta le porte del manicomio di Trieste. «L’hanno mandata al Ralli, il reparto infantile. Un ricettacolo di tutta l’infanzia perduta, povera, abbandonata. Ci finivano anche tanti profughi istriani, figli di nessuno. Sai come canta Cristicchi in quella canzone che ha vinto a Sanremo? La mia patologia è che sono rimasto solo. Ecco, la solitudine era la loro malattia». 

Antonella adesso vive insieme ad altri due ex internati in una casa accogliente, con il parquet nella camera da letto e il caminetto nel soggiorno. Alla parete c’è un grande quadro realizzato durante un laboratorio di pittura. Sulla libreria, in file ordinate, gli album delle vacanze: la Maremma, l’isola d’Elba, le gite al borgo carsico di Samatorza, le estati al mare in Croazia. «Adora prendere la tintarella - racconta Carla -. In questo è proprio una triestina doc, perché qui tutti stanno al sole da marzo a ottobre e anche nelle giornate limpide d’inverno. Credo che per lei rappresenti finalmente l’opportunità di vivere il proprio corpo come veicolo di benessere e non di dolore». 

A 13 anni Antonella passa dal padiglione dei bambini a quello delle donne agitate. «Il famigerato “O”, dove elettroshock, camicie di forza e celle di isolamento sono la quotidianità». Per i medici però la terapia non è sufficiente. La ragazza continua ad essere inquieta, aggressiva verso se stessa e gli altri. Chiedono che venga sottoposta a lobotomia frontale. «L’hanno mandata a Torino per l’operazione, poi è tornata qui», spiega Carla.

Nel 1971 a dirigere il manicomio di Trieste arriva Franco Basaglia, chiamato dall’allora presidente della Provincia Michele Zanetti a completare l’opera di smantellamento dell’istituzione psichiatrica già avviata dal medico veneziano durante la precedente esperienza a Gorizia. «Quando mise piede per la prima volta in manicomio fu colpito dall’assenza», ricorda Peppe Dell’Acqua, uno degli allievi e divulgatori del pensiero basagliano. «Vide davanti a sé centinaia di corpi ma nessuna persona. Gli individui erano ridotti a oggetto, non c’era altro che la loro malattia».

Inizia così una lenta opera di restituzione dell’identità, a partire degli effetti personali, gli abiti, le fotografie, le spazzole per i capelli. Basaglia chiede a medici e infermieri di liberarsi del camice e del loro ruolo di carcerieri, di semplici tutori della tranquillità sociale. «Per la prima volta - spiega Dell’Acqua - veniva messo in discussione l’approccio positivistico alla medicina e il rapporto di sottomissione gerarchica tra medico e paziente».

Nel 1973 Basaglia rilascia un certificato su Antonella, che allora ha 22 anni e ha smesso da tempo di parlare. «La paziente non può restare in cattività nel padiglione agitate. Bisogna iniziare con lei un graduale percorso di recupero». Viene trasferita in una casetta all’interno del parco di San Giovanni, insieme ad altri casi difficili. «Era completamente assente - ricorda Carla - passava la giornata seduta su una panchina a dondolarsi. Aveva assunto quell’atteggiamento di rinuncia tipico di chi sa che la propria parola e la propria esistenza non hanno alcun valore». 

Giorno dopo giorno, lentamente, Antonella recupera il coordinamento motorio, inizia a partecipare ad attività e laboratori e trasforma i pochi suoni gutturali che escono dalla sua bocca in parole e frasi di senso compiuto. «Non esistono persone con cui non è possibile intraprendere un percorso terapeutico - spiega Roberto Mezzina, attuale direttore del dipartimento di salute mentale -. Con Antonella è stato fatto quello che ancora oggi caratterizza il “modello Trieste”, scelto come riferimento dall’Organizzazione Mondiale della Sanità». Un modello che mette al centro la guarigione non in senso puramente clinico, ma della persona nel suo complesso. «Ci riusciamo grazie a una struttura di intervento ramificata sul territorio, con quattro centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno, a cui ogni anno si rivolgono circa 5000 utenti. Abbiamo medici e operatori che seguono le persone a domicilio e una rete di associazioni e Cooperative sociali che organizzano attività finalizzate all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo. Grazie a questo approccio siamo riusciti ad abolire ogni forma di contenzione fisica, purtroppo ancora diffusa in Italia, nonostante rappresenti una delle più terribili violazioni di diritto che la psichiatria possa compiere». Oggi Antonella ha una casa con nome e cognome sul campanello, due volte alla settimana va a trovare i suoi amici al «Posto delle fragole», l’affollatissimo bar del San Giovanni gestito da pazienti con disturbi psichiatrici e frequentato da tutti i triestini. «Ogni tanto - racconta Carla - la sera va a cena fuori. Sa che cosa ordina? Gli spaghetti. Per lei sono il frutto proibito. In manicomio non glieli davano, perché le forchette erano considerate oggetti pericolosi. Si mangiava solo riso o pasta corta, col cucchiaio». Per Antonella gli spaghetti sono simbolo di libertà. «Quella libertà che senza la battaglia combattuta da Basaglia non avrebbe mai potuto assaporare».

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Lidia Catalano


Level Triple-A conformance icon, W3C-WAI Web Content Accessibility Guidelines 1.0           Copyright 2018 La Stampa           Bobby WorldWide Approved AAA