Cultura
Dalle urne del referendum di Veneto e Lombardia, oltre a un risultato politico che influirà anche sulle prossime elezioni, esce un modello di leadership destinato a far riflettere, a destra come a sinistra. È quello del trionfatore del Veneto Zaia e del - già, come definirlo, vincitore o vinto? - sindaco di Bergamo Gori, schierato con il «Sì» dei leghisti promotori delle consultazioni, ma contraddetto dalla posizione ufficiale del suo partito, il Pd, che con il vicesegretario nazionale e ministro dell’Agricoltura, il milanese Martina, aveva lanciato alla vigilia del voto un appello all’astensione.
Al di là della possibile - e dall’interessato sempre negata - candidatura alla guida dell’eventuale, e adesso sempre più possibile, prossimo governo di centrodestra, ipotesi lanciata tempo fa da Berlusconi, Zaia, che in una tempestosa domenica di pioggia ha portato la maggioranza dei veneti alle urne e a esprimersi a favore di una maggiore autonomia locale, ha alcune caratteristiche in comune con Gori. Il quale ha raccolto le firme dei sindaci lombardi per lo stesso obiettivo, e magari avrebbe preferito rinunciare al referendum, perché non gli era sfuggito che a incassarne i vantaggi sarebbe stata soprattutto la Lega, compreso il governatore lombardo Maroni, che lo stesso sindaco si prepara a sfidare alle prossime regionali, e che pur non avendo eguagliato il successo di Zaia, ne ha comunque ricavato una bella lucidatura della propria immagine. Ma una volta avviata la macchina, appunto, Gori non s’è tirato indietro, né ha atteso di aver indicazioni dal confuso vertice del Pd, che oscillava tra il dare la libertà di voto ai propri elettori, vale a dire non prendere posizione, e il tardivo schierarsi per l’astensione, cioè a scommettere sulla sconfitta dell’avversario, senza entrare in partita. Al contrario il sindaco, coerente con l’impegno preso insieme ai suoi colleghi primi cittadini dei comuni della Lombardia, s’è messo lo zaino in spalla, è andato in campagna elettorale, e dopo aver condiviso in parte la vittoria, ha proposto al Pd di votare all’unanimità in consiglio regionale con il centrodestra, per avviare la trattativa con il governo.
Siccome anche Salvini, leader del partito di Zaia, non era proprio entusiasta del referendum nordista proposto dai presidenti leghisti delle due regioni, e lo ha digerito con qualche difficoltà, è abbastanza facile capire qual è la caratteristica che accomuna il governatore veneto e il sindaco lombardo: essere allo stesso modo rappresentanti del territorio, conoscerne i problemi e il comune sentire, e soprattutto comportarsi di conseguenza, senza piegare il capo - o piegandolo il meno possibile - alle scelte nazionali del proprio partito, e sapendo ascoltare la propria gente anche quando questo potrebbe risultare non esattamente conveniente.
La questione settentrionale - ma non solo: basti pensare alla Puglia di Emiliano, e per certi versi anche alla Napoli di De Magistris o alla Palermo di Orlando - sta tutta qui. Quando i cittadini di un determinato territorio percepiscono che i loro rappresentanti, o quelli che li governano, non hanno a cuore i loro problemi specifici, li trascurano e come soluzioni cercano di applicare astratti modelli nazionali, che faticano a produrre effetti in periferia, o scelgono di farsi rappresentare da altri, oppure, se non trovano nessuno o nulla di convincente, si buttano nell’astensione o nelle braccia dell’antipolitica.
Ecco perché una politica moderna, non inutilmente ideologica, dovrebbe partire di qui per ridefinire i propri obiettivi e governare con sapienza le inevitabili spinte centrifughe di questo sistema.
Stupisce che ci riesca il centrodestra, seppure, come abbiamo visto, un po’ a dispetto di se stesso. E non ci riesca invece il centrosinistra, e all’interno di esso il maggior partito di governo: con un leader come Renzi, che aveva costruito la sua fortuna facendo il sindaco di una grande città come Firenze, arrivando a incontrare Berlusconi premier per fare gli interessi della propria città, e diventando poi, chissà perché, centralista a Palazzo Chigi; e ancora, tra i suoi dirigenti, un uomo come Chiamparino, già primo cittadino di Torino e attuale governatore del Piemonte, che qualche anno fa era arrivato a proporre l’eresia di un Pd del Nord, e per questo era stato politicamente - e inutilmente - massacrato.
Marcello Sorgi