Italia
I franchi tiratori non bastano
Via libera della Camera, una sessantina di voti in meno. Ora tocca al Senato
Via libera della Camera, una sessantina di voti in meno. Ora tocca al Senato
Nemmeno i “franchi tiratori” sono più quelli di una volta. Ieri, che doveva essere il loro grande giorno, hanno fatto flop. La nuova legge elettorale ha superato con discreto margine la prova, poco dopo le ore 21 alla Camera, con 375 favorevoli e 215 contrari, zero gli astenuti. Un lungo applauso dai banchi dei Dem, di Forza Italia e Lega ha salutato l’annuncio del tabellone elettronico. Delusa invece la folla grillina assiepata da martedì in piazza Montecitorio, con il Fondatore che nemmeno si è fatto vedere. Al netto dei 40 deputati assenti alla votazione, lo schieramento pro «Rosatellum» ha registrato una sessantina di voti in meno. Il conto esatto dipende da come si calcola la base di partenza che, in una Camera così frastagliata, è quanto di più aleatorio. In ogni caso siamo lontani dai famosi 101 che silurarono la candidatura al Colle di Romano Prodi, e ancora di più dal tirassegno da cui venne colato a picco il «Tedeschellum».
Il più soddisfatto è Paolo Gentiloni. Se fosse andata male, dopo averci messo la fiducia e la faccia, il premier sarebbe salito sicuramente da Mattarella a dare le dimissioni. Il capo dello Stato gliele avrebbe respinte, ma solo per il tempo necessario ad approvare la legge finanziaria. La legislatura sarebbe terminata nel caos e il conto più salato l’avrebbe dovuto pagare certamente il Pd. Dinanzi allo scampato pericolo si comprende la soddisfazione che trapela da Rignano sull’Arno. Zero reazioni da Arcore, dove il Cav pare non si appassioni di schede, seggi, liste e quant’altro. Tra gli sconfitti, Luigi Di Maio si consola con l’argomento classico: «Loro sono maggioranza nel Parlamento, noi nel Paese». Annuncia manifestazioni davanti al Quirinale per indurre il Presidente a non firmare la legge: un pressing che nemmeno Berlusconi ai suoi tempi ebbe il coraggio di fare. Però intanto la legge si trasferisce al Senato dove la strada si annuncia in discesa. È vero che la maggioranza da quelle parti è più risicata, ma i voti segreti saranno ammessi dal presidente Piero Grasso soltanto se verranno sfiorate le maggioranze linguistiche e stop. Tutto là avviene alla luce del sole, e il ricorso quasi certo del governo alla fiducia sarà finalizzato non a scansare gli agguati bensì a bruciare le tappe. L’approvazione definitiva viene prevista dai renziani entro fine mese. Già oggi, alla luce del passo avanti di ieri, i partiti cominceranno a preparare le liste per le prossime elezioni. Piaccia o meno, il voto segreto ha segnato uno spartiacque.
Fin dalla mattina l’aula registrava il pienone tipico degli appuntamenti imperdibili, ma in un clima di generale distrazione, con un brusio sfacciato di sottofondo durante tutti gli interventi, tranne uno. Quando Pierluigi Bersani si è alzato per parlare, non volava una foglia (salvo ricominciare subito dopo con chiasso e sbadigli). Nessun leader era seduto tra i banchi perché Renzi, Berlusconi. Grillo, Salvini e lo stesso D’Alema non sono membri di questo Parlamento. Fuori dall’emiciclo, facce perlopiù smarrite, nessuno tra i “peones” disposto a scommettere un cent sull’esito del voto segreto, con i due capigruppo più esposti (Ettore Rosato per il Pd e Renato Brunetta per conto di Forza Italia) avanti e indietro nel Transatlantico, occhi vigili, le dita incrociate dietro la schiena. A un certo punto però è transitato con passo svelto un vecchio squalo della Prima repubblica, Paolo Cirino Pomicino: «Ma no, tranquilli, non succederà nulla, figurarsi se questi nominati dall’alto avranno gli attributi per mettersi di traverso». Accanto a lui un altro ex, Angelino Sanza, venuto a godersi la scena: «Sono morti di paura, prevedo al massimo 50 franchi tiratori». Si è sbagliato ma non di molto.
ugo magri