ebook di Fulvio Romano

martedì 3 ottobre 2017

Dopo le violenze si disgrega il fronte del “No” composto da intellettuali e ceto medio-alto

LA STAMPA

Esteri

Reportage

Tra il popolo silenzioso che sta con Madrid

“Censurati e accusati di essere fascisti”


L’Università è occupata da due settimane. Una bandiera della Catalogna scende giù dalla navata centrale. Lo striscione più grande dice: «Cosa ci fate qui, avvoltoi, se questa carne è così viva?». La carne viva degli studenti, adesso, è illuminata dalle luci delle telecamere. Gli avvoltoi sono arrivati tutti a vedere cosa sta succedendo a Barcellona. Ecco Marta Rosique, 21 anni, iscritta a Scienze Politiche, maglietta larga, capelli corti, ciuffo lungo sugli occhi verdi: «Noi chiediamo pace e democrazia, loro rispondono con la repressione. Domenica mattina, il mio amico Pep era al seggio, quelli della polizia nazionale gli hanno spaccato un tavolino sulla testa, lo hanno picchiato, sbattendogli la faccia contro il muro, lo hanno mandato all’ospedale. Ci sarà uno sciopero generale. Faremo vedere a tutti come la pensiamo. Poi verrà dichiarata l’indipendenza della Catalogna». Quando ha finito l’ennesima intervista piena di frasi senza appello, le chiediamo di raccontarci qualcosa della sua storia: «Mio padre è un chirurgo, mia madre lavora come ispettrice in un’azienda di alimentari. Mio fratello Mark era completamente contrario al referendum, ma dopo quello che è successo domenica ai seggi mi ha detto testuali parole: “Non passo crederci, sono pazzi. Avevi ragione tu”. Abbiamo sempre discusso di questo argomento, da molti anni». Ecco, se questa città fino a pochi giorni fa poteva essere divisa in due, quasi plasticamente, ora lo è meno. Gli arresti del 20 settembre e la domenica degli 844 feriti hanno sortito l’effetto di riunire molte famiglie e spingere gli indecisi al voto. «Anche mio padre ha cambiato idea», racconta Marta Rosique. È di sinistra, ma non si sente a disagio in una protesta nazionalista che racchiude molte altre anime: «Il nostro è un movimento trasversale. Non ci interessa creare nuovi confini, noi non alziamo barriere. Io credo che qui sia in gioco la nostra libertà». «Domenica di sangue» è stata definita dal leader degli indipendentisti Carles Puigdemont. Ha citato una canzone degli U2 sui fatti di Derry, Irlanda del Nord, 1972, quando l’esercito britannico sparò sui manifestanti uccidendone 13. Tutto è molto esasperato nei toni. Si cerca l’epica. Con il risultato che adesso, al terzo piano dell’università, si possono riscontrare gli effetti. Nell’aula professori, davanti a un computer, Meritxell Joan Rodriguez sta lavorando alla sua tesi dal titolo «Immigrazione e identità». Ha 29 anni, ha sempre votato Cup, il partito dell’ultra sinistra, assai più radicale di Podemos, in teoria quindi sarebbe per il «No», non avrebbe nulla a che spartire con gli indipendentisti. Ma adesso… «Non è possibile usare la violenza. Sono sconcertata per quello che è successo. Fino ad agosto avevo molti dubbi e credo che sia ancora giusto rimanere critici. Ma il governo ha avuto un atteggiamento totalitario inaccettabile. A questo punto, non è più in gioco il referendum per l’indipendenza della Catalogna, ma la democrazia di questo Paese. Ecco perché sono andata a votare Sì». Ma come, anche lei? «Bisogna mettere il concetto di nazione nel giusto contesto. Questa è la Catalogna. Non siamo nei Balcani, non ci sono questioni etniche e religiose. Non siamo l’Austria che alza nuovi muri per paura dei migranti. Qui è in gioco una forte identità sociale, linguistica e culturale». La città del «Sì», allora. Sono Marta Rosique e Meritxell Joan Rodriguez. Sono queste bandiere ai balconi. Le urla ad ogni passaggio di una camionetta della polizia nazionale. È il Barcellona schierato, i suoi calciatori, l’ex allenatore Guardiola. I quartieri centrali più che quelli periferici, le classi medie più che quelle povere o ricche. Trovare la città del «No», invece, quella che non vuole l’indipendenza e ritiene sbagliato questo referendum, è molto più complicato. Ma, finalmente, incontriamo la signora Miriam Tey, 57 anni, responsabile di una casa editrice e vicepresidente dell’associazione «Società Civile Catalana». «Non è facile fare sentire la nostra voce a Barcellona», spiega. «Alle volte siamo discriminati, puntati a dito come fascisti o persone che stanno facendo qualcosa di ingiusto. C’è ostracismo nei nostri confronti. E c’è questo nazionalismo strano, unico in Europa. Un nazionalismo che ha fatto questa alleanza con la sinistra. Noi non urliamo. Non siamo bravi a farlo. Siamo scesi in piazza portando a manifestare 40 mila persone, ma non è facile e specialmente in questi giorni. Noi siamo aperti al mondo. Ci interessa più il futuro del passato. Pensiamo che il nazionalismo sia come una religione, quindi vogliamo difendere la laicità del nostro Paese. Pensiamo che questo referendum sia stato una farsa. E anche se abbiamo minore visibilità, siamo in tantissimi in Catalogna a pensarla in questa maniera». Si potrebbe dire: la collina ricca di Barcellona. Molti scrittori: Javier Cercas, Javier MarÍas, Eduardo Mendoza, Fernando Savater, Arturo Pérez Reverte. I grandi centri periferici come Hospitalet de Llobregat, dove cinquant’anni fa arrivarono moltissimi lavoratori da altre regioni della Spagna, dall’Andalusia, dall’Estremadura e dalla Galizia, in cerca di un lavoro. Sono i «chernegos», migranti interni. Che adesso vorrebbero tenere unita, come in un abbraccio, tutta quanta la loro storia. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

niccolò zancan


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