Cultura
Così l’Italia
dimentica i suoi fiumi
L’Italia scopre drammaticamente di essere una nazione dai mille corsi d’acqua: come mai se ne erano stati tranquilli fino a poco tempo fa e oggi si ribellano? Che cos’è veramente un fiume? Perché da padre fondatore di civiltà è diventato portatore di disastri?
Nella risposta a queste domande sta tutto il problema del Paese a più grave rischio idrogeologico dell’intera Europa. Gli italiani sembrano non sapere che cos’è un fiume.
Se lo sapessero non registreremmo una quantità così grande di infrastrutture e insediamenti nelle aree di pertinenza fluviale. Dall’Arno all’Adige, dal Crati al Bacchiglione, non c’è un solo corso d’acqua che non sia stato aggredito e soffocato dalle costruzioni. Valga per tutti il caso di Borghetto Vara: un letto ampio quasi un chilometro alla fine del XIX secolo che si è trovato ad assommare poco meno di 300 metri nell’alluvione del 2011. Gli argini sostituiti dalle case, il rischio idrogeologico creato ex-novo. Nessun nostro antenato avrebbe commesso errori simili. E per ripararsi amministratori e cittadini moderni non hanno trovato di meglio che innalzare argini. Ma gli argini non funzionano più, se cambiano le piogge, e in realtà non funzionano quasi mai ai fini dell’equilibrio naturale: sono frammenti di rigidità su un elemento, il fiume, che è invece tipicamente dinamico. Più lasci in pace un corso d’acqua, meno danni fa, anche se è sorprendente da credere. Ecco perché dalle aree più pericolose si può soltanto andare via: nessuna opera potrà azzerare il rischio.
Ma ci sono casi in cui non ci si può più spostare: 14 aree metropolitane a rischio d’alluvione, Genova in testa, in cui gli italiani hanno fatto ancora peggio che altrove, decidendo di vivere dove già i nostri antenati non lo avevano fatto (e non era un caso), tombando i fiumi sotto le strade e le case. A Genova lo abbiamo appena constatato per l’ennesima volta, ma dove sono finiti i fiumi di Napoli, Palermo o Bologna? Possibile che chi ha costruito quelle città potesse farlo lontano da un corso d’acqua? Certo che no: il Sebeto a Napoli esiste ancora, ma passa sotto i quartieri spagnoli ed è dimenticato a Ponticelli, dove secoli fa la sua acqua era preziosa e dove oggi c’è solo un rigagnolo fangoso. Il Papireto e il Kemonia, i fiumi di Palermo, isolano la collina della cattedrale di Santa Rosalia, ma sopra ci sono le strade. E a Bologna l’Aposa riposa sottoterra, ponte romano compreso. Completamente cancellata la memoria, seppellita sotto la fantastica cifra di otto metri quadrati di cemento al secondo, il ritmo con cui si sta costruendo nell’ex-giardino d’Europa all’inizio del XXI secolo. Una follia le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Le piogge sono cambiate e anche le piene: ci preoccupiamo per quella del Po, ma possiamo ragionevolmente anticiparla di almeno 24 ore. Mentre oggi sono i corsi d’acqua minori a creare maggiori problemi, come si vede a Genova, a Parma, a Vicenza, all’Ofanto, perché la maggiore intensità di pioggia su tragitti così brevi permette al massimo decine di minuti di anticipo sul colmo, reso poi disastroso dall’impossibilità delle acque di infiltrarsi in profondità dove tutto è ormai cemento e asfalto. Un fiume non è solo acqua, è tutto il suo territorio (il bacino idrogeologico) che è sempre molto più vasto di quello che si pensa e parte dagli spartiacque montuosi, cioè dai crinali lungo cui le piogge si ripartiscono sulla regione. E il rapporto del fiume con il sottosuolo è dinamico: l’acqua delle falde alimenta i fiume e i fiumi alimentano le falde, proprio lì dove noi abbiamo deciso di metterci, interrompendo quello scambio portatore di vita e di equilibrio. Liberare i fiumi è la parola d’ordine: riportarli vicini alle condizioni originarie ridurrebbe il rischio e permetterebbe di recuperare quella convivenza antica e più saggia.
Mario Tozzi