Cultura
Da Cervantes a Proust a Dostoevskij, sonde morali
che l’autore invia in luoghi oscuri della sua coscienza
Da Cervantes a Proust a Dostoevskij, sonde morali
che l’autore invia in luoghi oscuri della sua coscienza
A gennaio del 2012 io e lo scrittore Santiago Gamboa abbiamo avuto il piacere di tenere una conversazione pubblica con Carlos Fuentes, autore di molte delle pagine che hanno dato forma alla nostra vita di lettori. Verso la fine della conversazione, Gamboa chiese a Fuentes di nominare i cinque romanzi che tutti dovrebbero leggere. Fuentes, che vestiva interamente di bianco, si stirò le lunghe dita da chiromante, una per una, dita torte dall’età e dalla resistenza opposta dai tasti che contribuirono alla stesura delle ottocento pagine di Terra nostra, e disse, come se stesse recitando un mantra: «Il Don Chisciotte, il Don Chisciotte, il Don Chisciotte, il Don Chisciotte e il Don Chisciotte».
Virginia Woolf disse che leggere Amleto una volta l’anno, prendendo nota delle nostre impressioni nel corso della lettura, è come scrivere la nostra autobiografia, perché vivendo ogni giorno ci accorgiamo che Shakespeare parla anche di ciò che abbiamo appena imparato. A proposito del Don Chisciotte, gli anni e le letture mi hanno indotto la scandalosa convinzione che il romanzo non è, come credevo in passato, il miglior strumento mai inventato dall’uomo per esplorare sé stesso, ma che in realtà è tutto molto più semplice: l’essere umano è la migliore invenzione del romanzo stesso.
Uso la parola invenzione senza dimenticare ciò che piaceva tanto a quel grande erede di Cervantes che fu Henry Fielding: nella sua origine latina, inventio vuol dire scoperta. Inventare è scoprire, ed è quello che facciamo noi scrittori (a quanto pare): scoprire la dimensione umana, scoprire zone occulte di tale dimensione, addentrarsi nei meandri della condizione umana e della sua coscienza, ove sarebbe impossibile arrivare in qualsiasi altro modo, e poi ritornare per raccontare a tutti cosa si è trovato: è questa la grande virtù del romanzo, la caratteristica che lo rende importantissimo e insostituibile.
I romanzi sono sonde morali. Le inviamo in luoghi oscuri o sconosciuti; e grazie alle conclusioni che traiamo dalle loro scoperte rinnoviamo la nostra conoscenza del mondo, dei suoi aspetti complessi e anche dei nostri, dell’ambiguità, della molteplicità e dell’instabilità del nostro carattere. Joseph Conrad ricorda nelle sue memorie un episodio della propria infanzia, quando aveva circa nove anni. Guardando una cartina dell’Africa, mise il dito su uno spazio bianco, simbolo del mistero che quel continente rappresentava per gli Europei e disse: «Quando sarò grande ci andrò».
E lo fece, chiaramente. Un quarto di secolo più tardi, risalì il fiume Congo e prese nota delle sue esperienze e dei suoi ricordi in un diario; nove anni dopo in Inghilterra apparvero le tre parti di cui era composto un breve romanzo dal titolo terrorizzante, Cuore di tenebra, la storia di un uomo che risale un fiume, entra in un territorio sconosciuto per cercare un altro uomo e infine scopre cose (su quell’uomo, ma anche su sé stesso) tremende e a volte imprescindibili. Questo è quello che fa qualsiasi romanzo di qualità: osservare una mappa, la mappa di un territorio che non è stato mai esplorato, per raggiungerlo e colmare gli spazi in bianco con le scoperte della sua esplorazione. La mappa in bianco è quella della condizione umana, quel continente misterioso che il romanzo, con le conquiste ottenute nel corso del tempo, ha continuato a scoprire e a illuminare, e noi, i lettori, siamo a bordo di quella nave.
Intere province della nostra mappa ora non costituiscono più uno spazio bianco, perché i grandi romanzi le hanno già attraversate. Il passato è un territorio meno sconosciuto da quando Marcel Proust intinse una madeleine in una tazza di tè; alcuni meandri della nostra coscienza, spesso i più terribili, sono meno minacciosi per chi ha familiarità con il sottosuolo descritto da Dostoevskij. Con Il processo e Il castello viaggiamo in territori che non avevamo mai visitato, e lo stesso accade con Cent’anni di solitudine: sono romanzi che hanno arricchito o hanno ampliato il mondo conosciuto. Senza di loro, quei luoghi continuerebbero a rimanere nascosti; non sapremmo vederli; oppure, se li trovassimo per una fortunata coincidenza, non saremmo in grado di riconoscerli. E per questo saremmo più poveri. «Il romanzo», dice Elizabeth Costello, la scrittrice inventata da John Coetzee, «è il tentativo di capire il destino umano, caso per caso».
I pensatori illuministi, che avevano cominciato a studiare ogni possibile aspetto della natura grazie alle nuove scienze - la botanica, la zoologia, la chimica, la fisica -, proposero un tesi azzardata: se le scienze potevano fornire tutte le risposte sulla natura, pensarono, allora si poteva sicuramente creare una scienza della dimensione umana, capace di rispondere a qualsiasi quesito riguardante la nostra natura. Era possibile conoscere l’uomo grazie al contributo delle scienze? Era possibile stabilire i suoi bisogni e i suoi desideri scientificamente, in modo da dare loro una risposta, sempre in modo scientifico?
Questo impulso razionale, che ha determinato notevoli passi avanti nel mondo della politica e dell’economia, ha messo in evidenza una lacuna. Quando si cercò di studiare la dimensione umana per mezzo delle scienze della ragione, ci si accorse di trovarsi di fronte a un territorio insondabile da quel tipo di scienze: uno spazio irrazionale, contraddittorio e oscuro, impossibile da esplorare con quegli strumenti. Si tratta della terra dei nostri demoni, dei nostri segreti inconfessabili, delle nostre emozioni discordanti. Quel luogo dove accadono cose, anche se invisibili, capaci di stravolgere una vita. Quel luogo che non potremmo esplorare e nemmeno comprendere, se non esistesse questa invenzione che lo illumina, e così facendo, ci rivela la nostra vera natura: quest’invenzione che ci inventa.
Traduzione di Raoul Resta
Juan Gabriel Vásquez