Cultura
Berlusconi è tornato. Anzi, visto che non è mai davvero andato via, è più corretto dire ch’è uscito dall’ombra e si sta riscaldando alle luci della ribalta. Appare in forma smagliante e si diverte, come di consueto, a far battute.
In alcuni casi, come di consueto, di cattivo gusto. Allo stesso tempo però - e per la terza volta: come al solito - sembra pure assai lucido nel valutare la situazione politica e nel calcolare in quale modo potrà massimizzare la propria rilevanza nel prossimo parlamento.
Questo signore di ottantun anni, così - presidente del Consiglio per la prima volta più di due decenni fa; colpito a fondo dal modo in cui è caduto il suo ultimo governo nel 2011; condannato e decaduto da senatore; passato attraverso seri problemi di salute -, questo signore, dicevamo, continua a essere uno dei quattro protagonisti principali della scena pubblica italiana. E se non ne è, né sarà mai più il protagonista indiscusso, non è invece affatto impossibile che, dei quattro, un domani quello con più carte da giocare sia proprio lui.
Le pagine più recenti della già straordinaria biografia di Berlusconi ci insegnano ancora qualcosa su di lui. Prima di aprire quel capitolo, però, vale la pena leggere ciò che quelle pagine ci dicono delle condizioni in cui versa la politica italiana. Pessime da tanti punti di vista, e destinate con ogni probabilità a peggiorare dopo le prossime elezioni, quelle condizioni lo sono anche perché è venuto meno qualsiasi meccanismo di riproduzione ordinata del ceto politico.
Nel nostro spazio pubblico si muove un numero sempre crescente di politici giovani, scarsi o del tutto privi d’esperienza, disancorati da qualsiasi retroterra storico e culturale, ma capaci di calamitare i voti di legioni d’elettori inferociti e convinti (ahinoi, quanto erroneamente) che peggio di come va non possa andare. E si muovono poi alcuni politici «vecchi». Quelli che, quando li si vede in tv, fanno esclamare un affranto «Oddio, ancora lui!» - ma in fin dei conti rassicurano la parte del Paese che teme invece il salto nel buio. Gli unici due veri partiti rimasti in Italia, il Partito democratico e la Lega, hanno in verità provato a rinnovarsi nella continuità. Ma ne è uscita fuori una sorta di emulsione rissosa di vecchio e di nuovo, più che un vero e proprio processo di rigenerazione. Nel caso del Pd, poi, l’emulsione è pure impazzita. Fra l’altro, anche perché Renzi è riuscito a trasformarsi nel brevissimo giro di tre anni da giovane rottamatore a emblema dell’establishment, rendendosi inviso così agli «anziani» come ai «giovani».
Il fallimento del processo di ricambio del ceto politico ha reso possibile la risurrezione dell’ottantunenne Berlusconi. Di quest’opportunità il Cavaliere ha saputo approfittare in maniera magistrale. Ha potuto giovarsi naturalmente delle risorse mediatiche e finanziarie di cui dispone, e far forza sul proprio consenso politico personale. Ha aspettato che il giovane che aspirava a riempire il suo vecchio posto, ormai vuoto, al centro del sistema politico - Renzi, ovviamente - fallisse. Aiutandolo a fallire. Ha capito prima e meglio del leader del Pd che, se al centro non c’è più nessuno, allora bisogna cambiar schema di gioco. E da ultimo - complice una riforma elettorale della quale il Partito democratico sopporterà il prezzo politico - sta lavorando a un’alleanza competitiva con la Lega che avvantaggerà entrambi.
Non mi meraviglierei affatto se alle prossime elezioni Berlusconi prendesse parecchi più voti di quanti non gliene diano i sondaggi, staccando significativamente la Lega. Per i milioni di elettori moderati che non intendono schierarsi coi «giovani» Di Maio e Salvini né optare per la sinistra, del resto, l’unica alternativa a Berlusconi è Renzi. Che per tanti versi, paradossalmente, rischia di apparire ancora più vecchio e meno rassicurante.
gorsina@luiss.it
Giovanni Orsina