Cultura
La frana
non è finita
Sono passati quasi esattamente sette anni dal 9 agosto 2007 quando la Bnp, grande banca francese, dichiarò la «completa evaporazione della liquidità» di alcuni suoi fondi che avevano investito fortemente in mutui americani subprime. Le banche centrali intervennero subito a fornire nuova liquidità ma i listini delle Borse cominciarono a calare e in pochi mesi il Dow Jones, il principale «termometro» del capitalismo finanziario, perse metà del suo valore. E subito dopo la crisi dalla finanza passò alle fabbriche e agli uffici, creando nei soli Stati Uniti oltre 10 milioni di disoccupati.
Dopo sette anni di vacche magre, possiamo ora sperare nel ritorno delle vacche grasse? In realtà, il quadro generale del pianeta non è per nulla tranquillizzante. In quest’estate piena da un lato di bufere meteorologiche, dall’altro di tempeste politico militari, il tradizionale ordine politico-economico sta franando l’economia mondiale sta frenando sempre di più. Non è un gioco di parole ma una descrizione sintetica della realtà.
La frana politica dovrebbe ormai essere evidente a tutti. Le sanzioni alla Russia; la chiusura «temporanea» dell’ambasciata americana a Tripoli e la fuga degli occidentali dalla Libia; la creazione dal nulla del cosiddetto «Califfato» tra Siria e Iraq, dove ribelli pressoché sconosciuti sono riusciti a controllare città di centinaia di migliaia di abitanti e far saltare raffinerie moderne e monumenti millenari; la difficoltà del mondo esterno di esercitare qualsiasi pressione su Israele e Hamas. Tutto ciò indica la fine di un assetto mondiale al quale eravamo abituati da tempo.
Di fronte a queste turbolenze, la debolezza dell’economia appare meno drammatica ma più importante per la vita di tutti i giorni nei Paesi ricchi. Nella prima metà dell’anno gli Stati Uniti sono complessivamente cresciuti a un ritmo di circa l’1 per cento. L’occupazione recupera in quantità ma non in qualità (il numero degli occupati ha raggiunto i livelli pre-crisi, il monte salari no). Dietro a questa revisione ci può essere, come sostiene «The Economist», una forte caduta del potenziale americano di crescita; anche la Germania, dove la crescita si è pressoché arrestata, vede un futuro fatto di frenate, di vacche magari non proprio magrissime ma certo un pochino sottopeso.
Perché questo fallimento? Perché i moderni sistemi economici producono per oltre tre quarti servizi come istruzione e spettacoli, salute, turismo e sport e solo per un quarto «cose» come abitazioni o frigoriferi. La domanda di questi servizi è sempre più il risultato di un «click», la semplice pressione di un tasto da parte del consumatore che dispone di un computer collegato a Internet. La decisione di dare il via - spesso istantaneamente - alla produzione spetta sempre di più a questo consumatore, influenzato da un’informazione disordinata e nervosa ed economisti e statistici non riescono a prevederla bene. Le decisioni degli imprenditori, dei parlamenti e dei governi richiedono molto tempo e proprio per questo sembrano contare sempre di meno. Con rare eccezioni (Gran Bretagna, più recentemente Spagna), nei Paesi ricchi le politiche di rilancio si sono rivelate poco efficaci.
L’Italia naturalmente non ne poteva restare immune. La somma di tutti questi elementi negativi ha gelato le prospettive di crescita; «gelato» è il termine corretto perché i segnali moderatamente lusinghieri osservabili alla fine dell’inverno ci sono ancora tutti, ma non crescono. Il «bonus» fiscale non ha modificato il loro atteggiamento di spesa dei lavoratori dipendenti, la nascita di nuove, piccole imprese nel terziario prosegue ma non sfonda; non ci stiamo avvitando in una nuova recessione ma siamo quasi fermi, incapaci di scrollarci di dosso quella vecchia. Le famiglie italiane, pur avendo complessivamente un discreto potenziale di spesa lo tengono immobilizzato in banca per paura. E la paura blocca la crescita della domanda interna.
Complessivamente sono tre i «motori» del rilancio italiano che stanno funzionando male o non stanno funzionando affatto. Il primo non dipende da noi ma da una situazione internazionale difficile e pericolosa che sta riducendo la domanda di esportazioni italiane, specie da un Paese come la Russia, da decenni buon cliente dell’Italia. Il secondo è il «motore edilizia», completamente inceppato tra l’indifferenza quasi generale: nel secondo semestre del 2013, la produzione edilizia è semplicemente crollata (-32 per cento). Forse proprio da qualche forma di garanzia o di bonus fiscale sull’edilizia potrebbe partire il governo per controbilanciare le spinte negative. E ora ci si mette anche il clima: si contava sull’estate per un moderato aumento della spesa delle famiglie, ma finora i risultati di vacanze e turismo non sono lusinghieri.
Perché le vacche grasse ritornino, perché ritornino le spighe «grosse e piene» di cui parla il libro della Genesi sono probabilmente necessari incentivi mirati, concentrati sui settori che hanno un forte potere di traino. Questo, però, non sta succedendo. In Italia come nel resto dell’Europa e degli altri Paesi ricchi, la distribuzione a pioggia di risorse finanziarie scarse non produce molti risultati: meglio sarebbe il coraggio di una politica industriale che li concentrasse su alcuni settori e su alcuni ceti sociali.
Mario Deaglio