Cultura
Noi siamo
ciò che
mangiamo
Sempre più si parla di cibo e cultura, e della cultura del cibo. E la questione non è fatua, poiché la tavola è forse il simbolo più eloquente del nostro essere una comunità. Se anoressia significa solitudine, la grande tavolata è l’immagine vivente, forse sin troppo pubblicitaria e plateale, della collettività che consuma insieme quanto insieme ha prodotto, evocando così il vincolo che la tiene unita. A tavola, nel succedersi delle portate, si individuano confini e provenienze, l’identità profonda connessa alle fragranze avite, agli odori di sempre che si rinnovano in padella come gustose novità.
Non a caso sul cibo si torna a riflettere intensamente, a partire dalla vicenda della simbolica eucaristica e della sua sofferta storia bimillenaria sulla quale si sofferma Paolo Ricca in un libro molto bello, L’Ultima Cena anzi la prima. La volontà tradita di Gesù, edito da Claudiana. Non si può tra l’altro dimenticare che con l’Ultima Cena si annunzia una comunità nuova, e un radicale rinnovamento dei tempi. In quest’ottica, anche prescindendo dal paradigma religioso, il cibo si rivela come un fattore di integrazione sociale.
Anche per questo motivo è tutt’altro che secondario riflettere sulla cucina in quanto nuova arte come fa Nicola Perullo in La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, edito da Carocci, annettendo il gusto del palato all’Olimpo del Gusto estetico. Proseguiamo dunque nel sondare il gusto come crogiolo di identità nuove. Per creare una comunità vera, ben lo sappiamo, non basta un vincolo istituzionale; ci vuole l’atmosfera giusta. Questo etereo e quanto mai influente sentimento «oggettivo» venne studiato dallo psichiatra e filosofo Hubertus Tellenbach di cui viene finalmente pubblicato in italiano, da Christian Marinotti, L’aroma del mondo. Gusto, olfatto e atmosfere, dove si parla anche delle patologie di questi sensi plebei.
Sembrerebbe così trovare una conferma scientifica il detto antico secondo cui siamo ciò che mangiamo. Viene addirittura da profetizzare che la comunità futura sarà una comunità «metabolica». Non si può in fondo davvero accogliere lo straniero se non si è in grado di condividere il suo cibo. A tavola dunque!
Federico
Vercellone