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Mitraglietta rosa
Probabilmente sono sbagliato io, ma se avessi una bambina di nove anni l’ultimo posto dove la porterei a giocare è un poligono di tiro al confine tra Arizona e Nevada. Dipenderà dal fatto che non abito in Arizona e neppure in Nevada, per cui nella gerarchia dei miei piaceri «respirare dal vivo l’atmosfera di una battaglia nel deserto iracheno» non rientra tra le priorità immediate. Se però fossi un padre dell’Arizona o del Nevada, dunque smanioso di travestire mia figlia da guerrigliera del terzo millennio, almeno mi accerterei che non corresse pericoli e non diventasse lei stessa un pericolo. Per questo, forse, eviterei di metterle in mano una mitraglietta Uzi munita di regolare caricatore. E magari mi accerterei che l’istruttore che l’assiste non sia così pazzo da lasciargliela usare.
Come avrete intuito, i miei sono classici pregiudizi da europeo decadente, in bilico perenne tra desiderio di libertà e bisogno di protezione. Eppure immagino che anche in Arizona, e persino in Nevada, i gesti producano delle conseguenze. E di conseguenze, una bambina che perde il controllo della mitraglietta e trapassa la testa del suo istruttore, riesce a produrne parecchie. Un cadavere. Una micro-assassina inconsapevole che si trascinerà il peso di quell’attimo per tutta la vita. E un padre che non potrà imputare solo all’imprudenza dell’istruttore l’esito catastrofico di quella che rimane anzitutto una sua decisione: portare una bimba a sparare. Nemmeno le immagini dei califfi islamici bastano a farmi dimenticare che di fanatici ne abbiamo una discreta collezione anche in Occidente.
Massimo Gramellini