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Dove si uccide anche la speranza
Ciò che regge tutte le novità e le emozioni di ogni ora della giovinezza è il fatto che in quegli anni si pensa che tutto è possibile.
Tutto si possa ottenere e basta allungare la mano: un colore, un profumo, il vento, un gesto di carità, una parola che assorbe la sofferenza degli altri, il Bene. Non si allunga sempre la mano ma si sa che si potrebbe. In altre parole è la speranza. Le due giovani cooperanti scomparse da giorni in Siria lo hanno fatto: hanno offerto la mano agli umiliati e agli offesi di Aleppo, purtroppo in un luogo dove parole come amore, carità, misericordia risuonano con echi di caverna.
Solo così provo a spiegarmi la sublime follia della loro decisione di immergersi, sole, inermi, in quel gorgo, di sfidare una guerra civile dove ormai tutto è torbido, acre, funesto ed è sparito ogni ideale politico e ogni vera fede che non sia strumentale fanatismo. La Siria: un luogo in cui raccontare il dolore o aiutare gli altri è una colpa, equivale alla ricerca del martirio, dove il Male ti contamina come un batterio, un gas mortifero diffuso nell’aria. E marci di questi stupori rancori vergogne quasi stupisci di continuare a viverle.
Prima di giudicarle dissennate o imprudenti sono obbligato a riflettere. So che cosa hanno visto e che ha temprato il loro coraggio temerario: i profughi che sciamano a piedi in auto, carichi di fagotti, che arrancano tra strilli di bimbi voci di uomini di anziani. Più penosa della stanchezza dei visi e della miseria dei panni e dei corpi è la tenacia con cui fuggono artigliati ai loro fagotti. E poi Aleppo, e il suo martirio infinito: i quartieri interi, avvolti nel tetro silenzio della loro rovina. C’è qualcosa di atroce nello sfregio delle schegge portato fin sui cornicioni, nelle saracinesche ingobbite dai risucchi d’aria, divelte e lacerate come fogli di carta.
Dove, mio Dio, cercar refrigerio in questo deserto degli uomini se non nell’obbligo di esser tra loro, di aiutare? Perché è tra essi che bisogna vivere, immersi nel loro dolore, intrisi nella loro mota, sorda materia che odia e soffre.
E’ per questo che padre Dalloglio, il gesuita rapito un anno fa e le due giovani umanitarie italiane hanno accettato la scommessa terribile di varcare quella frontiera, andare dall’altra parte sotto il segno del Male. Bisogna esser stati laggiù, forse, per capire fino in fondo, in Siria il diavolo sembra talvolta più intraprendente e ordinato di Dio nell’amicizia prodigata ai perversi e nella sua opera quotidiana di tentazione per aumentare il numero dei seguaci.
Impuro, tutto impuro anche questa tragedia il fuoco di questa tragedia che non brucia le scorie di cui siamo pieni, che ci appesantisce di odi. Disgusto profondo del fango di cui è fatta una Storia che era iniziata limpida più di tre anni fa: la rivolta contro un regime, la ricerca impetuosa della dignità dopo un lungo silenzio imposto alle coscienze. Oggi, oggi le cose che si vedono e delle quali si sente sono tutte curiosamente deformi, piene come sono di una loro crudeltà fredda, ammorbante. Al posto della rivoluzione ci sono i banditi, per cui lo straniero che viene per aiutare o per documentare la sanguinosa epopea è solo una preda da spolpare, un bottino da cui ricavar denaro. E gli altri, quelli che sventolano le bandiere di una guerra che chiamano santa, in nome di un Dio burrascoso e arrogante? Per loro sono nemici, da ghermire con la crudeltà buia e noiata della belva, per esibirli come prova dell’impegno con cui si affaccendano al servizio di quel Dio.
Domenico Quirico