Cultura
La crescita
resuscita
il greggio
«Il prezzo della benzina qui è impossibile. È alto, sale sempre e non scende mai». A dirmelo non è stato un imbufalito tassista romano, uno stressato cittadino di Los Angeles e nemmeno un loquace guidatore di Uber a Londra. Il lamento è venuto da una guida turistica dell’Oman, Paese che pompa come se piovesse e dove il carburante costa meno di 50 centesimi di euro al litro.
Benvenuti nel nuovo boom del petrolio, dove pure i cittadini del Golfo si lagnano dei prezzi alti. Dopo un periodo in cui l’oro nero non faceva più notizia, negli ultimi dodici mesi i prezzi sono balzati a livelli non visti da anni. Siamo già sopra ai 60 dollari al barile e gli esperti di Wall Street dicono che potremmo superare gli 80 dollari nei prossimi mesi.
All’inizio dell’anno scorso il greggio costava meno della metà e i benpensanti dei mercati pontificavano sulla fine del «superciclo» delle materie prime e l’arrivo di una nuova rivoluzione industriale alimentata dall’energia a poco prezzo.
Ora a ridere sono solo i Paesi produttori, dall’America all’Arabia Saudita, mentre chi il petrolio lo deve importare - l’Europa intera più la Cina e gli altri Paesi emergenti - si chiede come si riuscirà a mandare avanti la crescita mondiale se il carburante costa così tanto.
La prima cosa da stabilire è cosa stia succedendo in un mercato che era stato dato per morto nel 2016. A differenza di altri strumenti finanziari, quali azioni e obbligazioni, il petrolio si muove in maniera abbastanza semplice: domanda e offerta. Entrambe stanno cambiando in maniera drammatica.
Sul fronte della domanda, il pianeta ha sete di greggio. Il Pil mondiale sta aumentando di circa il 4% all’anno – un ritmo altissimo -, otto delle dieci più grandi economie del pianeta (le eccezioni sono la Gran Bretagna e l’India) sono in crescita contemporanea – un fenomeno estremamente raro. Non è un caso che ci sia bisogno di più energia e che, nonostante i tentativi di ridurre la petrolio-dipendenza, aziende, governi e cittadini siano tutti in fila di fronte alla pompa di benzina.
Purtroppo per loro, l’offerta è stata ridotta da un miracolo nel deserto: il cartello di produttori dell’Opec è riuscito a concordare tagli di produzione per mantenere alti i prezzi.
Non solo, l’organizzazione ha persuaso la Russia, il più grande produttore mondiale di greggio al di fuori dell’Opec, a fare tagli notevoli fino a marzo dell’anno prossimo. E giovedì a Vienna le due superpotenze dell’olio nero potrebbero decidere di prolungare l’accordo fino alla fine del 2018.
Domanda in rialzo, offerta in ribasso: è l’equazione base per un aumento dei prezzi, ma ci sono altri fattori che potrebbero mitigare il boom. Ne cito due. Le aziende Usa, che usano la fratturazione idraulica per estrarre petrolio, tendono a pompare di più quando i prezzi sono alti perché i loro costi sono più elevati. E occhio a Libia e Nigeria, due grandi produttori che sono mine impazzite perché esenti dalle direttive Opec.
Ma non sono abbastanza per fermare la marcia inesorabile del petrolio. La crescita economica ne risentirà ma non immediatamente. La storia insegna che solo un rialzo drammatico e sostenuto del prezzo del petrolio ha un impatto sul Pil. E che solo dopo un lungo periodo questo choc porta a un calo del valore del greggio.
Per il momento, l’economia mondiale è nella stessa situazione della mia guida omana: deve pagare di più per continuare a sopravvivere.
Francesco Guerrera è il Direttore di Dow Jones Media Group in Europa. francesco.guerrera@dowjones.com e su Twitter: @guerreraf72
Francesco Guerrera