Cultura
la sfida in africa
dell’Unione Europea
al rivale cinese
Oggi e domani, Europa e Africa celebrano la partnership col 5° vertice Ue-Unione africana (Ua) ad Abidjan. Contemporaneamente, una delegazione economica cinese ad alto livello è in Marocco, che da un paio d’anni Pechino ha individuato come porta dell’Africa, accoltavi col tappeto rosso. La gara fra Cina ed Europa si corre (anche) in Africa.
Prima ai blocchi di partenza, l’Ue sta subendo il sorpasso di Pechino che opera con una spregiudicata penetrazione di massicci progetti e investimenti , come la città industriale di 300 mila abitanti che il gruppo Haite intende costruire ex novo nei pressi di Tangeri, con la benedizione di re Mohammed VI e del presidente Xi Jinping. Con la stessa rapidità e risolutezza la Cina si sta insediando da un angolo all’altro del continente, dal Kenya all’Angola, dalla Nigeria al Congo.
Abidjan può essere una risposta europea a due condizioni: che sia alleggerito il ciarpame declaratorio; che seguano, in tempi ragionevoli, iniziative concrete e tangibili. Non sarà facile. Ue e Ua sanno come soddisfare le rispettive esigenze politico-burocratiche ma non hanno il controllo dell’effettivo impatto su economia e investimenti. Pechino opera invece al contrario. L’onere dei seguiti sarà soprattutto europeo. A fronte di una penetrazione cinese spesso capillare (basta pensare a Huawei), occorre che gli africani vedano crescere la presenza europea e ne avvertano i benefici.
L’Africa è importante per più di un motivo. È la parte del mondo con il maggior potenziale di crescita e di sviluppo; può essere il miracolo della prima metà del secolo XXI, come l’Asia lo è stato negli ultimi 30-40 anni. I partner naturali sono Europa, Cina e, forse, Brasile, più che Stati Uniti o la psicologicamente lontana Russia. Il legame con l’Europa è geografico, con il Mediterraneo da anello di congiunzione (pensiamo ai viaggi di Ulisse), e storico; pur controverso, il passato coloniale ha lasciato una rete di collegamenti culturali ed economici. Il rapporto con la Cina è meno diretto (l’Oceano Indiano è ben largo) ma risponde a una logica d’interdipendenza. L’Africa è il versante Sud della variante marittima della nuova via della Seta; Pechino è affamata di materie prime e di energia che il continente possiede.
La Cina ha bisogno dell’Africa; è ormai una potenza globale ma la sua sfida è più debole in altre parti del mondo, come l’America Latina, vuoi perché si misura con altri grandi Paesi emergenti come Brasile e Messico, vuoi per la concorrenza Usa. Per motivi diversi, l’Europa ne ha altrettanto (se non più) bisogno. Si possono ridurre a tre: demografia, stabilità politica e sicurezza.
Con un tasso di natalità su punte del 40-30 per mille in alcuni dei Paesi più popolosi, come la Nigeria (poco meno di 200 milioni), si stima che l’attuale circa miliardo di africani possa raddoppiare in trent’anni. Rebus sic stantibus non c’è verso che questa crescita non si traduca in un’ondata migratoria, spinta anche da cambiamenti climatici, Stati falliti, penetrazione jihadista e rivalità tribali. Per ridurre la pressione ed evitare focolai di minaccia, l’Europa ha bisogno di un’Africa prospera e politicamente stabile. Questo il senso di un’autentica parthership fra i due continenti.
Con un’agenda che parla di giovani, occupazione, governance, pace e sicurezza, vertice di Abidjan lo ha ben presente. In questi campi l’Ue è certamente davanti alla Cina e gli africani lo sanno. L’imperativo categorico rimane però far crescere l’Africa attraverso commercio e investimenti. Senza sviluppo economico e sociale, il resto, per quanto importante, rimane solo parole.
La concorrenza cinese è brutalmente spregiudicata perché Pechino fa poche domande su democrazia, diritti umani, stato di diritto o su trasparenza degli affari e corruzione. Per l’Ue sono invece linee rosse da rispettare. Tenerle ferme è anche nell’interesse dell’Africa, lo dimostra la gioia nelle strade di Harare dopo la caduta di Robert Mugabe. I principi vanno tuttavia accompagnati da un radicale snellimento e alleggerimento delle procedure e da un pragmatismo che guardi all’impatto sulle condizioni di vita e ai risultati nella crescita. In Africa l’asticella della trasparenza e della governance non può essere collocata alla stessa altezza dell’acquis comunitario. Altrimenti si fa un torto agli africani e un regalo alla Cina.
Stefano Stefanini