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martedì 28 novembre 2017

I generali come riserve della Repubblica

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I generali come riserve della Repubblica

La «candidatura» del generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli a presidente del Consiglio dei ministri, avanzata l’altra sera in televisione da Silvio Berlusconi, di per sé è poco più che una boutade. Non sappiamo nemmeno se nel prossimo Parlamento ci sarà una maggioranza, e - se ci sarà - fatta da chi. 

Figurarsi quale valore può mai avere un nome menzionato a mo’ d’esempio mesi prima del voto. Senza nemmeno consultare l’interessato, per altro. Le boutade di Berlusconi, però, non sono quasi mai casuali. E anche in quest’occasione - avanzando, fra tutti i nomi possibili, proprio quello d’un generale dei carabinieri - il leader di Forza Italia ha mandato al Paese un segnale politico assai chiaro. Ne ha mandati due, anzi: uno nuovo e uno vecchio.

Il segnale vecchio è che la politica devono farla tutti, ma proprio tutti - tranne i politici. Il Cavaliere fu lestissimo ad appropriarsi di questo messaggio, e a farne la pietra angolare della sua legittimità, già dagli anni di Tangentopoli. E non ha mai cambiato canzone. Da allora, però, s’è trasformato il contesto: ciascuno a suo modo, a quel canto antipolitico si sono uniti in coro tutti gli altri protagonisti della vita pubblica. Del Movimento 5 stelle è appena il caso di dire, tanto il loro rifiuto del professionismo politico è esibito. Il cedimento del Partito democratico fa molto più notizia - anche se non è certo una notizia recente, visto che data dall’ascesa di Matteo Renzi alla segreteria e dall’avvio della «rottamazione». Che proprio in questi ultimi giorni però, con la Leopolda 8, sembra esser giunta alla versione 2.0: enfasi crescente sui giovanissimi e rottamazione della prima ondata di rottamatori. Dopo neppure un lustro.

Freneticamente antipolitica e nuovista, nell’ultimo quarto di secolo l’Italia ha consumato così ogni «riserva della Repubblica»: imprenditori, magistrati, tecnocrati, alti burocrati - tutti gli esperti formatisi al di fuori della vita pubblica, ma capaci all’occorrenza di assumere ruoli politici e di governo. Ha bruciato la generazione dei quaranta-cinquantenni col ministero Letta. Poi quella dei trenta-quarantenni col gabinetto Renzi. E nel frattempo non ha saputo dar vita nemmeno a un embrione di nuovo ceto politico - che del resto, in un clima così accesamente antipolitico, non si capisce dove avrebbe mai trovato il modo di attecchire.

Che cosa ci rimane dunque, nel 2017? Be’, ci restano le forze dell’ordine. Lì in effetti la politica ha ancora pescato molto poco. E le forze dell’ordine, poi, hanno un vantaggio mica secondario: non ci parlano di quel che volevamo sentirci dire nel 1994, quando a far politica dovevano essere gli imprenditori - società civile, mercato, crescita economica, libertà. Ma ci parlano di quel che vogliamo sentirci dire oggi: Stato, controllo, regole, protezione. Questa è la parte nuova del messaggio che Berlusconi ha lanciato «candidando» Gallitelli alla più alta carica politica della Repubblica: cari italiani, potete star tranquilli, non vi troverete nelle mani d’un tycoon pirotecnico e anarcoide, come al tempo dell’ottimismo. Ma d’un generale dei carabinieri, come s’addice alla stagione della paura.

Berlusconi dimostra così, per l’ennesima volta, di saper fiutare l’aria meglio di tanti altri. Ma ciò non toglie che, se la politica italiana s’è ridotta a dover pescare nell’ultima sua riserva, una responsabilità non piccola la porta proprio lui.

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Giovanni Orsina