Cultura
Così il sasso
diventò una valanga
A mezzo secolo di distanza, storicizzare quel che avvenne nel ’68 vuol dire confrontarsi con uno dei primi «eventi globali», singoli avvenimenti, cioè, la cui portata politica e sociale e la cui dimensione territoriale non possono restare confinate all’interno di un singolo Paese, interagendo direttamente con l’esistenza collettiva di uomini e donne diffusi su tutto il pianeta. Oggi ci siamo abituati alle connessioni che si intrecciano in un universo unificato dai flussi delle comunicazioni, degli uomini, delle merci.
Ma allora c’era da restare quasi attoniti di fronte alla simultaneità in cui, in tutti gli angoli del mondo, esplose la contestazione.
In Italia tutto cominciò a Torino, il 27 novembre 1967. Nel mondo, le sue premesse risalivano al 20 novembre 1964, quando 5.000 studenti occuparono il campus universitario di Berkeley, sede dell’Università della California. Un anno dopo, il 17 aprile 1965, a Washington, ci fu la prima manifestazione contro la guerra del Vietnam; nel 1966, il 5 agosto, in Cina, fu pubblicato il documento di Mao Tse-tung (Bombardare il quartier generale) che dava inizio alla Rivoluzione culturale; il 1967 fece registrare l’uccisione di Che Guevara in Bolivia (9 ottobre).: tre eventi che incisero profondamente nell’immaginario e nelle scelte politiche degli studenti.
Poi arrivò il ’68 vero e proprio, con una cronologia improvvisamente sovraffollata di episodi. I fatti presero a rimbalzare sulla carta geografica come la pallina di un flipper impazzito, dal Vietnam agli Stati Uniti (dove furono assassinati Martin Luther King, 4 aprile, e Bob Kennedy, 5 giugno), da Berlino (l’11 aprile, in un attentato, fu ferito il leader degli studenti Rudi Dutschke) a Praga (il 20 agosto arrivarono i carri armati sovietici). Erano episodi che riguardavano la politica, ma anche il costume e la cultura: ritornò sulla scena Bob Dylan, uscì l’album dei Rolling Stones Sympathy for the Devil (5 dicembre), cominciarono i grandi raduni giovanili ai concerti (Woodstock). Non tutti questi episodi ispiravano allegria e gioia di vivere: nella piazza delle Tre Culture, a Città del Messico, il 3 ottobre, la polizia sparò contro gli studenti, facendo una strage (500 morti).
L’epicentro di questo terremoto fu, però, nel cuore dell’Europa, in Francia, dove tutto era cominciato il 2 maggio con la chiusura dell’Università di Nanterre occupata dagli studenti. Poi scesero in campo anche gli operai e la protesta sembrò mettere in discussione l’intero sistema politico. Non fu così: il 30 maggio il generale De Gaulle sciolse le Camere per indire nuove elezioni politiche; contemporaneamente un milione di persone sfilò per Parigi, inneggiando al suo nome, gridando slogan contro gli studenti e in pratica soffocando definitivamente la protesta.
In Italia il ’68 durò molto più a lungo (i suoi effetti più significativi si sarebbero protratti fino al cuore degli Anni 70) e coinvolse organicamente la stragrande maggioranza del movimento operaio. Così, agli scontri e alle occupazioni delle università che videro come protagonisti gli studenti, si intrecciarono le prime significative agitazioni operaie (alla Marzotto di Valdagno, il 19 aprile, al Petrolchimico di Porto Marghera, il 21 giugno, alla Pirelli di Milano, il 3 ottobre) e i moti contadini che ad Avola, il 2 dicembre, costarono la vita a due braccianti, uccisi dalla polizia.
Il sasso lanciato a Berkeley diventò quindi una valanga. In California la mobilitazione era iniziata quando le autorità accademiche del campus limitarono l’attività politica degli studenti. Poi, alle rivendicazioni di carattere strettamente universitario si affiancarono la ribellione contro le segregazione razziale, la guerra del Vietnam, la fame nel mondo, e la rivolta diventò una critica generale all’intera società statunitense. Fu così successivamente negli altri Paesi del capitalismo maturo, in Italia, in Germania, in Francia. Ma fu così anche nella Spagna fascista di Franco, in Polonia e nella Jugoslavia comunista di Tito, nel Brasile della dittatura militare e nel Giappone attraversato da un vertiginoso sviluppo economico, in un unico grande movimento unificato dalle parole d’ordine della solidarietà, dell’antiautoritarismo, del pacifismo, dei diritti civili, dello spontaneismo, della libertà di parola e di espressione.
La dimensione globale del ’68 ci lascia molte domande. Perché proprio allora? Perché in tutto il mondo? Quale fu l’impatto sulle storie dei singoli Paesi? Nonostante una bibliografia sovraffollata di titoli, non esiste una interpretazione che dia conto fino in fondo di questa sua storicità: da un lato libri che avviano un grottesco processo a una generazione di scansafatiche che avrebbe prodotto guasti senza pagare nessun prezzo e anzi costruendo sul ’68 molte carriere di successo; dall’altro il tumultuoso affollarsi delle memorie dei protagonisti, tutti più o meno incapaci di sottrarsi al fascino di un passato che «non passa».
C’è, in questo senso, un forte bisogno di «documenti» sul ’68, la necessità di renderlo finalmente accessibile a una conoscenza storica che non sia il riflesso condizionato della demonizzazione o dell’esaltazione. Le testimonianze e i ricordi possono essere importanti, ma solo se li si mette a confronto con altre «tracce» di quel passato, se si ha la capacità di avviare una ricerca che non si arresti di fronte alla mole straripante di manifesti, scritti, film, canzoni, rappresentazioni teatrali appartenute al mondo del ’68, che abbia il coraggio e la determinazione per affrontare una valanga di fonti, complesse ed eterogenee esattamente come il movimento che servono a studiare.
Giovanni De Luna