Cultura
L’Europa
che decide
con i dadi
Comunque le si guardino, le decisioni che portano l’Agenzia del farmaco sui canali di Amsterdam e quella bancaria a Parigi si rivelano figlie di un meccanismo surreale e sciagurato che farà a lungo discutere sull’Europa che si affida ai sorteggi per decidere il proprio futuro.
A valutarle dall’alto, scrivono un copione che consolida l’Ue a matrice franco-tedesca: è un doppio evento che rafforza il potere condiviso da sempre al comando di un’Unione sbilanciata, facendo sponda sui sodali del Benelux e i cugini del Grande Nord.
Misurata col cuore e la ragione, la beffa farmaceutica di Milano coniuga infine la rabbia alla delusione, perché il sistema Italia ha giocato bene come non si vedeva da tempo. C’erano le condizioni per vincere, Milano aveva le carte in regola. In caso di sconfitta sul campo, se si fosse finiti fuori nel gioco delle intese fra le capitali, non ci sarebbe stato bisogno di dimissioni.
Alla fine le speranze nazionali di ottenere l’Ema sono state cancellate da una pallina pescata da un ministro estone. Certo si sarebbe potuto «vincere prima» e tuttavia il «non aver perso prima» è già un progresso per la qualità diplomatica dell’Italia.
La candidatura di Amsterdam ha coagulato gran parte dell’Europa carolingia e nordica, gli olandesi hanno ereditato in automatico i consensi sino a un certo punto raccolti da Copenaghen. È un risultato che pesca in vecchie intese, in patti consolidati fra popoli che amano rigore, welfare e protestantesimo. La Francia è un’eccezione in tale morfologia, però si impone con una Grandeur e un europeismo che le consentono di accompagnare e bilanciare la Germania. E ottenere l’Eba, l’agenzia bancaria, sfilandola proprio agli amici tedeschi.
Nell’impostare la partita dei farmaci, Roma ha recuperato buona parte della credibilità dissipata in quasi due decenni di europeismo distratto che l’hanno allontanata dal centro dell’azione a Bruxelles. Allo svoltare del secolo, abbiamo cominciato a minacciare più veti di quante intese siamo riusciti a favorire. Una componente della classe politica ha eroso il patrimonio di credibilità del Paese favorendo al contempo il diffondersi di scetticismo e nazionalismo.
Sono cose che si pagano, più delle inimicizie e delle diffidenze storiche, quelle con gli olandesi, i danesi e gli scandinavi, litigiosi pure loro se poi gli svedesi hanno finito per schierarsi con Milano. Eppure stavolta il governo aveva fatto le cose per bene, partendo lento, smarrendosi appena quando pensava che la missione fosse compromessa, e recuperando nel finale. È stato corale il lavoro degli uomini di Gentiloni e del luogotenente Gozi, vi hanno partecipato tutti, imprese, governatori regionali, istituzioni locali, associazioni di categoria, parlamentari e, non ultimo, il Quirinale. Il profilo di Milano è stato cesellato con cura per centrare i requisiti. Al punto che persino Salvini ha girato lungamente intorno al carro dei negoziatori sperando di abbordarlo in caso di vittoria.
Invece no. È stata la sorte a favorire i Paesi Bassi oltre che la coesione politico-regionale. Così il primo risultato della Brexit che la spartizione delle agenzie londinesi sembra rendere davvero inevitabile, è un «rafforzamento degli altri da noi». L’Europa della moneta e della vigilanza resta in Germania, banche e Borsa saranno pilotate in Francia, i farmaci dagli olandesi, Frontex dai polacchi e via dicendo. L’Italia si difende con la sua Agenzia per la sicurezza alimentare, che detta così sembra quasi una barzelletta, e la consapevolezza che, si dovesse presentare un’altra occasione, partiremo due passi avanti. È stato un brutto stop. Ma è una lezione importante. Marca un precedente di qualità.
Resta il meccanismo che ha portato alla mancata affermazione. Sarà facile per gli scettici dire che l’Europa non sa decidere e che, per farlo, deve indire una lotteria. Ci sarà pur stata una soluzione più tecnica, ma - nel caso - è stata impedita dai veti politici incrociati di un’Unione che i suoi partecipanti non vogliono davvero coesa per ragioni interne. Si è deliberato mettendo due palline in un contenitore. A quel punto, sarebbe stato meglio che la si giocasse a dadi. Avrebbe generato comunque un impatto poco democratico e stucchevole, ma almeno, lì per lì sarebbe apparsa una contesa parecchio più avvincente.
Marco Zatterin