LA STAMPA
Cultura
Anna Bravo
“Partecipai perché
era rivoluzionario partire
dal nostro quotidiano”
«Eravamo in tanti, c’era buon umore, voglia di fare cose nuove, un bel clima coeso». Anna Bravo, studiosa di storia delle donne e della Resistenza, era all’epoca una giovane assistente volontaria di Storia contemporanea con Guido Quazza. Non erano solo studenti gli occupanti di Palazzo Campana. Lei aveva già avuto un’esperienza nel Pci, poi era entrata in rapporto con il gruppo di Mondo Beat, un foglio milanese anti-autoritario, legato ai Provos olandesi, e in seguito avrebbe vissuto fino in fondo la parabola di Lotta continua. «Ero appena tornata da Parigi, dove avevo fatto una ricerca sull’emigrazione antifascista. Quando vidi cosa stava succedendo lasciai perdere i miei studi e mi dissi: bisogna starci».
Che cosa l’aveva colpita? «Innanzitutto la mescolanza di persone diverse, unite dal rifiuto dell’università com’era. Adesso è difficile immaginarselo. C’era gente come Mario Allara, il rettore, professore di diritto civile, un terribile signore che pretendeva dagli studenti che imparassero a memoria le sue dispense - anche maleducato: insultava, scagliava in aria i libretti, girava con l’assistente che gli portava la cartella… E poi mi piaceva il fatto che si partisse da se stessi anziché dalle ideologie - una concezione che doveva molto a Rudi Dutschke, il leader del movimento studentesco a Berlino».Ossia? «Si partiva dalla presa di coscienza della propria condizione. Un giorno, durante l’occupazione, Allara riuscì a entrare e nell’aula trovò Guido Viale in piedi sulla cattedra. Gli intimò di scendere, gli disse che stava violando la legge. “Ma vattene via tu, imbecille, che hai tormentato gli studenti fino adesso!”, fu la risposta. Cioè non disse “Va’ via, fascista”, ma “Va’ via perché ci hai tormentati”. Era rivoluzionario partire dalle condizioni di vita». Ricorda episodi di violenza? «Questo no. Giravano tante immagini di Palazzo Campana - dicevano che eravamo ignoranti, che perdevamo tempo, “Non sanno cosa vogliono” - ma violenza mai. Anche quando il 27 dicembre venne la polizia a sgombrarci - un paio di giorni dopo avremmo rioccupato - ci fu soltanto resistenza passava, come nei sit-in americani contro la guerra in Vietnam. Mentre i poliziotti sollevavano gli studenti e li portavano via, tutti cantavano “Mamma, solo per te la mia canzone vola” - chissà perché, era una cosa buffa. Anche da parte della polizia non ci fu violenza. La violenza orribile sarebbe esplosa dopo, nel ’69 e poi negli Anni 70». Tra i leader dell’occupazione, oltre a Viale, chi ricorda? «Viale aveva il talento di dire sempre la cosa giusta. Poi c’era Luigi Bobbio, e la sua compagna Laura Derossi che era molto vivace, interveniva nelle assemblee - cosa non semplicissima allora per una donna». Qual era il ruolo delle ragazze durante quei mesi? Soltanto vivandiere e «angeli del ciclostile»? «In assemblea e sul piano pubblico erano meno visibili, ma nei piccoli gruppi contavano, tenevano su la lotta. Restavano pure di notte, con i sacchi a pelo. Anche se le notti erano molto corte, perché si chiacchierava, si cantava…». Sesso? «Meno di quanto si pensasse da fuori. C’era per fortuna anche quello, ma non era la cosa principale. Però su questo piano permaneva qualche cosa di vecchio: alcuni dei nostri compagni ripetevano l’idea che la libertà della donna si misura sulla sua disponibilità sessuale. Non si diceva più “Vieni a letto con me perché ti amo”, ma “Vieni a letto con me perché sei una brava compagna”. Non c’era niente di violento, ma una ragazzina poteva essere influenzata. Avevamo spogliato il rapporto sessuale del suo sovrappiù emotivo, del suo mistero. E questo è stato uno dei limiti del ’68». E gli altri? «Non essere andati fino in fondo. A un certo punto ci siamo accontentati, l’università e il sistema dell’istruzione sono passati in secondo piano, a vantaggio di un impegno politico più complessivo, che poi è sfociato nella riproposizione dell’idea di partito con le sue strutture di potere, a partire dal servizio d’ordine. Abbiamo cominciato a pensare che si dovesse uscire dall’università per andare incontro agli operai, e così la nostra è rimasta una rivoluzione a metà. Ma non rimpiango nulla, voglio bene a quegli anni. Anche se in politica abbiamo perso, alla grande». [M. AS.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Copyright 2017 La Stampa