ebook di Fulvio Romano

venerdì 24 novembre 2017

Claude Monet Il colore della luce

LA STAMPA

Cultura

Claude Monet

Il colore della luce

Un’asta degli oggetti personali a Hong Kong e una mostra

a Roma illuminano l’ultima fase della vita del pittore

Tra gli oggetti più intimi nella collezione molto personale di dipinti, stampe, lettere, cose d’uso e di affezione, appartenute a Claude Monet, che Christie’s metterà all’asta dopodomani a Hong Kong, ci sono un paio di occhiali tondi, dalla semplice montatura dorata. È uno dei lotti meno costosi (valutato intorno ai mille euro) e uno dei più commoventi. Negli ultimi anni della vita, l’artista che aveva inseguito con pennello, tavolozza e cavalletto le variazioni e i capricci della luce, come un instancabile cacciatore di farfalle immateriali, aveva progressivamente perso il senso dei colori a causa di una cataratta bilaterale. «Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo a captare i toni intermedi e quelli più profondi» scrive nel 1914 l’impressionista militante, a 74 anni. L’amico Georges Clemenceau, il primo ministro, lo va a trovare nelle pause della politica nel giardino incantato di Giverny e lo convince ad accettare l’operazione. Monet, dopo la rimozione del cristallino all’occhio sinistro, soffre di distorsioni della vista, ha bisogno di lenti correttive. Poi gli occhi ritrovano un equilibrio, poco prima della morte. La luce torna. Più acuta che in gioventù, forse. Secondo il parere di alcuni medici, nelle ultime opere il papà dell’impressionismo riesce a dipingere l’ultravioletto.

Alcune di queste tele, conservate al museo Marmottan Monet di Parigi, sono ora in mostra a Roma al Complesso del Vittoriano (Monet, capolavori dal Musée Marmottan Monet, fino all’11 febbraio). I sessanta dipinti a olio sono il riassunto di una traiettoria artistica straordinaria, dalla frammentazione dell’immagine alla ricomposizione dello sguardo, dalle scintille volatili di luce sulla Senna e sul Tamigi alle concrezioni di colore nei Viali del Roseto di Giverny negli Anni 20 del secolo scorso, che sembrano ferite che non riescono a rimarginarsi. Sono forse quelle che oggi ci sembrano più vicine. Gli occhi possono non decifrare i toni e i timbri, ma il cuore, l’istinto ci vedono benissimo. Nel crepuscolo di Giverny, Monet appare quale un patriarca - dalla formidabile barba, dall’andatura dondolante, come lo riprende Sacha Guitry nel documentario Ceux de chez nous (quelli delle nostre parti) del 1915, una sorta di pantheon francese in pellicola - ma è un patriarca senza clan. 

Gli amici, i compagni di strada sono scomparsi, prima Gustave Caillebotte, che sapeva amare i fiori quanto lui, poi Berthe Morisot, Camille Pissarro, lo scrittore Octave Mirbeau, il poeta Stephane Mallarmé, e per ultimo Auguste Renoir, con cui aveva diviso i turni delle modelle e i pasti di legumi secchi, la stagione felice di Argenteuil e il viaggio a Bordighera, la mostra fondatrice dell’Impressionismo, nello studio prestato da Nadar, e gli sberleffi dei critici miopi. «Sono rimasto l’unico del gruppo» si rammarica. Tra i pochi pittori ammessi negli ultimi anni a Giverny, è Paul Signac, a cui aveva insegnato a dipingere en plein air. Per il resto, rifiuta discepoli. È custodito come un tesoro dalla nuora e figliastra Blanche Hoschedé. 

Perde la compagna Alice, il primogenito Jean muore nel 1914, alla vigilia della Grande guerra. Anche gli alberi dell’universus conclusus, opera d’arte e di giardinaggio che ha creato con i primi guadagni, sono colpiti da temporali. Le giovani belve della pittura lo sfidano in una gara a distanza: nel 1906, il mercante d’arte Ambroise Vollard invia André Derain a Londra a dipingere una serie di vedute che dovrebbero superare la serie di Monet sulle rive del Tamigi. Intanto, Giverny sanguina sulle tele novecentesche di Monet. Sono quadri che il pittore decide di non esporre, li vedranno solo i pochi visitatori finché lui è in vita.

«La tavolozza di Monet resta comunque differente Da quella dei Fauves, pure nei colori violenti del periodo tardo. Piuttosto, il suo modo di stendere il colore annuncia Pollock e molti pittori contemporanei» ragiona Marianne Mathieu, vice direttrice del Marmottan. Oggi il salice di Giverny pare annunciare certi intricatissimi boschi di Peter Doig, pittore tra i più in voga all’inizio del millennio.

I dipinti esposti al Vittoriano hanno molto in comune con i lotti dell’asta di Hong Kong. Formano insieme il «bagaglio» che Monet decide di portare con sé, fino alla morte, nel 1926, nel suo amatissimo giardino. La sua tavolozza segreta. Questa arca di immagini sarà donata al Marmottan. Ma una piccola parte viene lasciata in eredità da Michel Monet, figlio del maestro, a Rolande Verneiges, sua figlia non riconosciuta, i cui eredi adesso hanno deciso di metterla all’asta. Di alcune opere, come i tre pioppi di Giverny, si conosceva l’esistenza ma non l’ubicazione. Prende di sorpresa, nel catalogo di Christie’s, la sensualità di uno studio di Salomè di Auguste Rodin, donato nell’occasione della mostra congiunta che consacrò definitivamente il successo di Monet. Ma a stupire di più è un rarissimo e terribilmente buio notturno, Yport, la nuit, eseguito a pastello dal pittore che aveva eliminato il nero dalla sua tavolozza. Rimasto nell’ombra, fino a oggi, pare voler racchiudere la luce. È sempre stato accanto al suo autore, come un negativo ineffabile. Accorso a Giverny alla notizia della morte del grande impressionista, Clemenceau, affranto, esclamò: «Niente nero per Monet! Il nero non è un colore!». 

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Fabio Sindici


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