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giovedì 14 agosto 2014

Lepri: il falso dibattito sul lavoro

LA STAMPA

Cultura

Il falso

dibattito

sul lavoro

Comincia male il dibattito sulle grandi riforme se si parte dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per la sinistra è un totem intangibile, per la destra è un feticcio da abbattere; ma, nell’analisi della Banca d’Italia, ha scarso peso macroeconomico. Scontrarsi su quello ci fa dimenticare perché abbiamo bisogno di una profonda riforma del mercato del lavoro.

Facile sospettare che si tratti del solito giochetto di schermaglie politiche: escogitare argomenti che dividono gli avversari, compattano gli alleati. Poco importa che aggredendo da quel lato una materia delicata si rischi un braccio di ferro alla fine del quale non cambierebbe, nel concreto dell’economia, nulla: è ai risultati di schieramento che si mira.

Si guardi all’esperienza spagnola. Lì il governo Rajoy nel 2012 ha ridotto le tutele in caso di licenziamento per i lavoratori a tempo indeterminato. La misura non ha provocato le catastrofi paventate dalla sinistra né i massicci effetti benefici predetti dalla destra.

L’ultimo rapporto del Fmi, un mese fa, nota che non è risolto il dualismo del mercato del lavoro tra precari e garantiti, dannoso alla produttività perché spinge a non investire sui giovani.

In tutti i Paesi dove esiste un precariato di massa giovanile, dalla Spagna che inventò la formula all’Italia alla Francia e al Giappone, il problema è appunto questo. All’ingiustizia di escludere i giovani si somma un danno per la società intera. Sbattuti da un impiego temporaneo a un altro, i giovani imparano poco; se restano senza lavoro a lungo, anzi, possono impigrirsi.

Una volta che si è creato questo dualismo, è molto difficile uscirne. I lavoratori garantiti si rinserrano in una fortezza dove sono sempre meno numerosi; più si generalizza il precariato più è arduo emergerne. Meglio va la Germania che una fascia di lavoratori di second’ordine ce l’ha («mini-jobs»), ma non su base generazionale.

Esperti di tutto il mondo hanno contribuito a progettare la formula del «contratto di inserimento», che però deve essere adattata alla realtà per funzionare. Di questo si dovrà discutere nel nostro Parlamento, durante l’esame (troppo lento) del disegno di legge del governo chiamato all’inglese «Jobs Act», quando se ne esaminerà l’articolo 4.

Già in partenza sembra che si sia rinunciato a fare di questa novità legislativa un contratto «unico» come nelle intenzioni dei suoi proponenti, ossia sostitutivo del contratto a tempo determinato almeno nella maggior parte dei casi. Può darsi che nelle condizioni attuali non si possa fare altrimenti; ma allora si chiarisca perché le imprese dovrebbero preferirlo.

Il testo attuale parla di introduzione «in via sperimentale». In mancanza di divieti, l’incentivo ai datori di lavoro potrebbe venire da sgravi di contributi; ma mancano i soldi. Accade così che qualcuno pensi a novità normative più ampie del periodo di prova triennale durante il quale l’articolo 18 non sarebbe applicato (questa è finora la formula, accettata anche dalla sinistra Pd).

Le imprese potrebbero essere attratte da una facile licenziabilità; ma occorre dimostrare che questo fattore sarebbe risolutivo, ossia che muterebbe a fondo il nostro mercato del lavoro. Tendono a farlo escludere i dati Istat, secondo cui non c’è nessun anomalo addensamento di imprese alla soglia dei 15 dipendenti oltre la quale l’articolo 18 scatta.

La questione vera è come ridare alle imprese la voglia di offrire una prospettiva di carriera, oltre che di stabilità, ai giovani che lo meritano, invece di addossare per intero a loro, in quanto precari, la riduzione dei costi. Solo in questa chiave si può poi esaminare se alcune tutele siano eccessive, e per chi.

Stefano Lepri


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