Cultura
11 settembre 1973, golpe in cile
11 settembre 1973, golpe in cile
Quel che resta di Salvador Allende
40 anni dopo, i fantasmi non si placano. Come i dubbi sul ruolo degli Usa
40 anni dopo, i fantasmi non si placano. Come i dubbi sul ruolo degli Usa
Il golpe che l’11 settembre 1973 abbatté il governo di Unidad Popular del presidente socialista Salvador Allende Gossens è talmente marchiato nella mitologia politica del XX secolo che provare a ricostruirlo, separando fatti da propaganda, leggende, tradizione, utopia, è impossibile.
Ancora oggi non sappiamo neppure se Allende si sia ucciso quel giorno, come assicura il suo medico, sparandosi un colpo con il mitra AK 47 che gli aveva donato Fidel Castro, o sia stato ucciso dai soldati traditori del generale Augusto Pinochet, da Allende stesso nominato a capo delle forze armate, anche se la prima ipotesi è più probabile. Vecchio socialista, grande oratore, Allende comprende che, rifiutando trattativa e salvacondotto dei generali, si emancipa da un patetico esilio, magari scambiato dall’Urss con un dissidente sovietico perbene come Bukovsky, come toccherà invece al leader comunista Corvalan.
Nella memoria popolare la regia del colpo di Stato viene assegnata al segretario di Stato americano Henry Kissinger, anche se l’ambasciatore Usa di allora a Santiago, Nathaniel Davis, kennediano dei Peace Corps che si dimetterà nel 1975 protestando contro le operazioni clandestine di Kissinger in Angola, ha sempre negato, con un bel libro, The last two years of Salvador Allende, e con una querela contro il film di Costa Gavras Missing.
In realtà Kissinger e la Cia furono assai più coinvolti nei primi movimenti di militari contro Allende, documentati da Peter Kornbluh nel saggio The Pinochet File. Il piano Track I doveva minare l’appoggio popolare a Allende favorendo, anche tramite il giornale di destra El Mercurio, disordini e disagi economici. Il piano Track II provava a far convergere i militari contro il governo. L’esercito in Cile non aveva tradizioni golpiste e, nel 1970, molti ufficiali avevano reagito con disgusto all’assassinio del generale Schneider, un lealista che ordinò alle forze armate di non muoversi dopo l’elezione di Allende, ucciso dagli scherani dell’ex generale Viaux, mentre la Cia puntava su un generale ancora in servizio, Valenzuela.
Quando il generale filogovernativo Carlos Prats lascia il comando, il 24 agosto 1973, e Allende nomina ingenuamente Pinochet, l’esperimento di Unidad Popular è fallito. Allende era stato eletto nel 1970, con una piccola maggioranza relativa, 36,2% sull’ex presidente Alessandri, 34,9%, e sul democristiano Tomic, 27,8. La legge costituzionale cilena permette al Congresso di nominare il presidente e Allende diventa capo dello Stato. Vara una politica socialista classica, nazionalizzazioni, spesa pubblica, riforma agraria ed esproprio del latifondo, in un Paese arretrato, con la risorsa del rame e poche industrie spesso in mano agli americani, come la Itt. Molte riforme sono opportune, le scuole, la sanità, la campagna contro l’analfabetismo, e l’entusiasmo delle squadre «allendiste» affolla i barrios popolari, le campagne, con brillanti murales a vivaci colori, corsi di cultura, cinema, asili di base.
Allende è un riformista, il suo motto è «con la forza della maggioranza, e con la passione del rivoluzionario» e nel libro-intervista con Régis Debray (ex studente del filosofo Althusser, catturato in Bolivia mentre tentava di raggiungere Che Guevara) La via cilena (Feltrinelli) sintetizza una politica di alti salari e monopoli statali, non di dittatura castrista. Intorno a Unidad Popular tanti pensano invece che la «via cilena» debba portare all’insurrezione, come a Cuba. La sinistra socialista di Altamirano non accetta compromessi, e gli estremisti del Mir, gemellati in Italia al gruppo di Lotta continua, discutono di via armata. I sovietici danno qualche piccolo aiuto ai comunisti, mentre la Cia sponsorizza la destra e la Dc, ma non pensano a rompere le plumbee regole della Guerra fredda. Castro invece approfitta della nuova tribuna e, verso la fine del 1971, si lancia in una folle visita in Cile lunga 4 settimane, dove ritrova l’applauso vero dei militanti fedeli che ormai a Cuba è coro di regime. I collaboratori di Allende non sanno come invitare il leader cubano a ritornare a casa, il regalo del mitra imbarazza Allende, la borghesia cilena, gli imprenditori e i consiglieri americani temono il peggio. Lo studioso cileno Carlos Valenzuela, poi collaboratore del presidente Obama, scrive amaro: «A forza di dire che senza rivoluzione arrivava il golpe, la sinistra estrema ha creato l’atmosfera del golpe».
Quando i camionisti del sindacalista Vilarin bloccano il Paese e le casalinghe vanno in piazza a far fracasso con i tegami, Allende è alle corde. Molti diplomatici Usa suggeriscono a Nixon e Kissinger di attendere la caduta del governo, ma i militari agiscono quel tragico 11 settembre. Di testa propria? Su ordine, tacito o esplicito, di Kissinger? Le prove documentarie divergono, le polemiche storiche durano da allora. Il presidente Allende muore in prima linea, migliaia di cileni a lui fedeli vengono uccisi, torturati, deportati. Pinochet trasforma il Paese in un Lager e, senza opposizione, può ammodernare l’economia. Oggi il Cile è un Paese robusto, democratico, uno dei primi a crescere in America Latina. Ma i fantasmi del sangue, che inseguiranno fino alla fine Pinochet, echeggiati nella letteratura di Dorfman, della Allende, nel toccante documentario Allende del regista Gúzman, non si placano.
In America porteranno, con l’elezione del presidente Carter nel 1976, alla Commissione Church, che indaga sulle operazioni clandestine della Cia, e, secondo il senatore Church, conclude che gli Usa, se non attori del golpe, ne sono almeno stati le comparse. In Europa l’impressione è drammatica, la musica andina degli Inti Illimani diventa per una generazione di ragazzi la colonna sonora del sogno infranto, una politica elementare, emotiva, come un murale nel barrio. In Italia due errate e parallele analisi della caduta di Allende paralizzeranno la sinistra per un quarto di secolo. Il segretario del Pci Berlinguer, temendo la deriva cilena, stila in tre saggi per la rivista Rinascita la strategia del «compromesso storico con la Dc» che fallirà con l’assassinio del suo interlocutore, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse nel 1978. Nella nuova sinistra la stessa errata analogia tra caduta di Allende e destino italiano induce nichilismo: certi che la via legale porterà al golpe «fascista» tanti quadri si arruolano nel terrorismo, da Prima Linea alle Br. Ma l’Italia non è il Cile, più fertile la democrazia, più ricca la società, più moderna l’Europa. L’errore costa anni di stagno, morti, dolore.
Salvador Allende Gossens, cadendo alla Moneda a 65 anni, è un martire della democrazia, ricordato e amato da tanti, che pur comprendendone oggi gli errori di strategia, ne apprezzano la dedizione agli ultimi della Terra. Nel discorso trasmesso alla radio 40 anni fa disse: «La storia li giudicherà. Sicuramente Radio Magallanes sarà zittita e il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Starò sempre insieme a voi. Perlomeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale con la Patria. Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi annientare né crivellare, ma non può nemmeno umiliarsi. Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore».
Twitter @riotta
Gianni Riotta