ebook di Fulvio Romano

martedì 19 agosto 2014

Meno di 100 euro sl mese: quanto rende una nuova app

LA STAMPA

Economia

Il Far West delle app

I creatori guadagnano

meno di 100 euro al mese

Diseguaglianze e zero regole: fare soldi è un’utopia

Un milione o addirittura 1,8 milioni di posti di lavoro complessivi, solo nell’Ue. Un giro d’affari tra 12,5 e oltre 17 miliardi di euro, destinato a crescere ancora. I dati variano a seconda di chi li ha calcolati, ma lasciano pochi dubbi: tutto ciò che gira intorno a creazione, sviluppo e vendita delle applicazioni per smartphone e tablet è in crescita vertiginosa. E ormai si parla di «app economy» come di un’industria e di un settore a sé stanti.

È un mondo sbocciato in piena crisi economica, ma solo per coincidenza. L’anno del disastro, il 2008, è anche quello che ha visto nascere l’App Store di Apple e – poco dopo – l’Android Market, attuale Google Play. Ad oggi, le app scaricate sono oltre 125 miliardi e aumentano a vista d’occhio. Un’occasione d’oro per i programmatori che hanno saputo reinventarsi sviluppatori. Nel mondo se ne stimano 2,9 milioni, oltre 400 mila solo nell’Unione Europea. Aggiungendo l’indotto, si arriva a oltre un milione di posti già creati da questa giovane industria digitale.

Attenzione, però: fare soldi in questo campo non è affatto facile. E i dati parlano di grandi squilibri. Il 54 per cento dei ricavi da app finisce nelle casse di appena il 3,6 per cento di privati e aziende che le producono. Al contrario, c’è una lunga coda di sviluppatori che arrancano e il 47 per cento dei professionisti del settore non arriva a 100 dollari al mese per app. «Oggi conta non solo la qualità, ma anche la capacità di comunicare in modo efficace», spiega Andrea Rangone, responsabile scientifico dell’Osservatorio Mobile&App Economy. «Un’app è come una brioche in mezzo a 500 mila brioche simili, dentro un supermercato infinito. Il problema è: come far vedere che quella è la più buona?».

I segreti sembrano essere quattro. Partorire l’idea giusta al momento giusto. Realizzarla prima di tutti. Infilarci qualità tecnologica e grafica. E saper parlare agli investitori. Ma, anche così, il rischio di crederci tanto e raccogliere poco c’è. «La mia prima app era stata piratata e in un attimo sono passato dal farci circa ottanta euro al giorno a zero», racconta Luca Micheli. Romano, 25 anni, è già uno startupper di successo grazie a QuizPatente!, ricca alternativa digitale ai libri e alle crocette, per diciottenni alle prese con l’esame di guida. «Ho iniziato a lavorarci per aiutare la mia fidanzata a prendere la patente. Poi ne ho capito le potenzialità e questa volta l’ho messa sugli store gratis. Punto tutto sulle pubblicità e per fortuna gli inserzionisti hanno risposto».

I giochi restano una bella fetta del mercato e qui l’Italia ha esportato una vera eccellenza: Riccardo Zacconi, romano classe 1967, Ceo e co-fondatore di King.com. Un colosso valutato sette miliardi di dollari, molti frutto di «Candy Crush Saga», il giochino ossessione globale sul web. Ma a funzionare sono soprattutto le app che soddisfano un’esigenza pratica. Vale per «Fantapazz», guida all’asta del fantacalcio tutta per smartphone. Oggi, col campionato alle porte, è tra le prime dieci app per iPhone e per Android. E a crearla è stato Guido, italiano che sta in Germania da anni.

Ma vale anche per «Stylect», nuovo servizio di e-commerce al femminile, che si ispira all’app per incontri «Tinder», ma serve a trovare la scarpa perfetta, non l’anima gemella. A idearla è stato Giacomo Summa, 28enne italiano che vive a Londra. «Per far scoprire un’app servono campagne molto precise: noi l’abbiamo fatto usando Facebook Ads e mirando alle donne tra i 18-35 anni e con la passione per le scarpe. Così ci hanno scoperto le prime mille utenti. Abbiamo raggiunto 250 mila download e raccolto 500 mila dollari di finanziamenti, tutti a Londra». Nel bagaglio Summa ha una laurea al Mit di Boston, qualche mese a Google a Dublino, due anni in un colosso dell’e-commerce brasiliano. «L’esperienza fatta in Brasile mi è servita tanto – ammette – mentre quella al Mit mi ha lanciato in un’ottica tutta diversa: quella di costruire qualcosa in proprio, invece che pensare solo a che lavoro fare».

stefano rizzato


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