Cultura
L’estate 2015 - all’inizio, con la crisi greca -, s’è incaricata di rimettere in discussione, se non proprio di rendere inutilizzabile, il primo slogan dei populisti europei: quel «No euro» che ha campeggiato per mesi anche in Italia sulle felpe e sulle magliette di Salvini. E prima di lasciare posto all’autunno, con l’esplosione del fenomeno immigrazione e le reazioni imprevedibili del governo ungherese o di quello ceco, ma soprattutto con la svolta della Merkel sull’accoglienza, rischia di mandare per aria anche il secondo caposaldo della strategia dei movimenti populisti, la parola d’ordine del respingimento dei migranti su cui uno dopo l’altro, dalla Francia all’Inghilterra, all’Austria, alla Svezia, alla Finlandia e al Belgio, leader come Le Pen o Farage, gli eredi austriaci di Haider e il tedesco Frei, per citare i principali, avevano costruito le loro fortune elettorali; o come Orban in Ungheria, erano riusciti ad arrivare al governo.
Lo svolgimento della crisi di Atene, consumatosi in sei mesi, tra la vittoria di Tsipras, il controverso inizio d’attuazione del suo programma anti-austerità, le pressioni della Commissione Europea seguite dalla rottura, dal referendum sul protocollo della Ue e poi dall’improvviso capovolgimento del risultato delle urne, dall’accettazione del piano della Merkel, dalla scissione di Syriza e dalla nuova chiamata alle urne del popolo tra poche settimane, ha rivelato la sostanziale impraticabilità di politiche economiche alternative a quelle europee, a meno di non uscire dall’Unione e avventurarsi nell’incerta alleanza con Putin e in una prospettiva simile a quelle dell’Ucraina o della Crimea. Ma c’è di più: i drammatici giorni della campagna elettorale referendaria per il voto di giugno sono rimasti indelebilmente impressi negli occhi e nella memoria di tutti i cittadini europei: tal che sarebbe difficile ancora oggi trovare un pensionato italiano del Nord da 500 euro al mese, come quelli a cui si rivolge la Lega, disposto a cambiare perfino la condizione miserabile a cui lo costringe da otto anni la durezza della crisi economica con quello che capitava al suo collega greco nei giorni del voto sulla Grexit: banche chiuse, file ai Bancomat razionati a venti euro quotidiani, blocco dei conti correnti, e una situazione di incertezza e di instabilità che si protraggono, quasi senza soluzione di continuità, da un voto all’altro, referendum o elezioni anticipate. Insomma, piuttosto che continuare a vivere con l’incubo che assilla Atene e rassegnarsi a un’uscita dall’euro di cui adesso si conoscono gli effetti, meglio tirare la cinghia e sopravvivere aspettando la ripresina italiana e il taglio delle tasse annunciato da Renzi.
Un analogo ragionamento - sebbene si tratti di un quadro e di questioni più complesse -, si può fare sul fenomeno dell’immigrazione. A partire da una semplice domanda: per quanti giorni Orban potrà continuare a tenere segregati nella stazione di Budapest immigrati dotati di un regolare biglietto ferroviario e diretti in Germania, dove tra l’altro la Merkel ha messo a punto un piano di accoglienza? L’idea di cancellare, con una cinica e assai rischiosa operazione di propaganda, il sostanziale fallimento della costruzione del muro ai confini con la Serbia, s’è rivelata un boomerang per il leader ungherese, uscito vittorioso dalle recenti elezioni e circondato dall’invidia degli altri movimenti xenofobi nazionali. E la sua resa, ormai attesa ad ore, sarà la dimostrazione che, un conto è predicare dall’opposizione il respingimento, la chiusura delle frontiere ai migranti e il rifiuto delle politiche di solidarietà, e un altro è metterle in pratica dal governo, scontandone l’effettiva irrealizzabilità. Al prossimo vertice europeo Orban dovrà scegliere tra la sua improbabile ridotta ungherese e la perdita dei diritti di paese membro della Ue: con un prezzo, in termini di fondi comunitari, che gli risulterebbe molto complicato pagare e far accettare ai propri elettori.
Questo non vuol dire, ovviamente, che l’ondata inarrestabile di immigrati porti con sé la conseguenza che l’unica via razionale per affrontare il problema sia l’accoglienza, o almeno un’accoglienza quasi incondizionata come sta avvenendo nei giorni in cui le dimensioni dell’esodo si impongono all’attenzione dei governi europei, arrivando a far temere un genocidio. La strada è, nuovamente, quella scelta dalla Germania: un’apertura studiata, programmata, mirata, dei profughi; una loro rapida, per quanto realistica, istruzione e formazione professionale, e un utilizzo all’interno del sistema economico e imprenditoriale nazionale. Il quale, va ricordato, pur avendo rallentato negli ultimi mesi, in Germania continua a correre a un ritmo superiore a quello di altri Paesi partners, fermi o rallentati dalla crisi, o con appena un soffio di ripresa come l’Italia.
Da questo punto di vista, è inutile nasconderlo, mentre Frei e il suo Npd per cui sembravano aprirsi destini radiosi a Berlino dovranno fare i conti con la svolta della Cancelliera, Salvini, che da un po’ ha dismesso le felpe «No euro», potrà prendersi del tempo prima di ammainare del tutto la bandiera dei respingimenti. Quanto tempo, dipenderà dal governo di Renzi e dalla sua capacità di capovolgere il sistema dell’immigrazione italiana. Fatta salva la nostra professionalità nei soccorsi e il sacrificio umanitario continuo delle nostre Marina e Guardia costiera, nel tratto di mare tra Lampedusa e la Libia, finché la capacità di affrontare il problema resterà legata al centro di Mineo, con il buco nella rete per garantire le fughe, e alle tangenti di un euro al giorno a immigrato rivelate dall’inchiesta su Mafia Capitale, infatti, il leader della Lega potrà continuare indisturbato a soffiare sul fuoco della più grande guerra tra poveri mai vista in questo secolo.
Marcello Sorgi