ebook di Fulvio Romano

venerdì 18 settembre 2015

Azza Filali: “Non è vero che tutti cercano di scappare dal Maghreb”

LA STAMPA

Cultura


La scrittrice tunisina: “Anche dopo le rivoluzioni molti ragazzi sognano di partire

Vogliono tutto e subito. Ma altri, specie le donne, chiedono il cambiamento qui”

Da cosa scappano gli uomini, le donne e i bambini che in queste settimane si ammassano alle porte d’Europa? La domanda aleggia sul Mediterraneo, il sempre più buio cimitero dei migranti. Ma c’è un altro interrogativo che, seppure sotto traccia, accompagna i viaggi della speranza e chi li compie tagliandosi i ponti alle spalle. È quello che pone la lettura di Ouatan. Ombre sul mare, primo romanzo tradotto in italiano (Fazi) del medico e scrittrice tunisina 63enne Azza Filali: partire è davvero l’unico destino possibile? Le vicende intrecciate dei cinque protagonisti che s’incontrano in una villa semi abbandonata sulla spiaggia di Biserta nei radioattivi mesi prima della rivoluzione lasciano intendere che alla fine la vera salvezza sia al di qua del mare, in patria, l’unico luogo che al netto delle mille luci del villaggio globale possa garantire il senso di appartenenza.

L’autrice, molto apprezzata in Francia, ne parla al termine di una giornata di visite, lo spazio in cui ogni giorno si sfila i guanti e il camice della sua professione principale e mette mano alla tastiera.

Dottoressa Filali, il libro risale al 2009, quasi due anni prima che i suoi giovani connazionali scendessero in piazza dando di fatto l’avvio al domino delle Primavere Arabe. Tante speranze per ritrovarsi poi alla soglia del quinto anniversario della rivoluzione con un esodo di disperati grossomodo uguale a quello pre 2011? «Purtroppo è così, dal punto di vista del desiderio dei ragazzi di emigrare non è cambiato molto rispetto a prima della rivoluzione, le giovani generazioni si aspettavano di ottenere tutto e subito e sono rimaste deluse. Ma non è vero che tutti vogliano andar via. Nel mio libro per esempio le donne restano e resta anche Naceur, l’ingegnere ed ex galeotto che in carcere si trasforma e cerca altri valori. Ma sono soprattutto le donne a rappresentare la Tunisia che si batte per il cambiamento, perché si scontrano ogni giorno con gli ostacoli di una paese in cui gli archetipi restano maschili. Le tunisine contemporanee sono più avanti del resto della società, si sono evolute prima, c’è una generazione di viaggiatrici, studiose, personalità forti, sono loro a fare da traino». La rivoluzione ha rapidamente divorato se stessa? «Ci vuole tempo, tanto. Nel 2011 i giovani pensavo di affrancarsi ma non è andata così, ci sono ancora moltissimi disoccupati, l’economia è peggiorata perché l’incertezza ha congelato il turismo. Le domande della rivoluzione erano libertà, lavoro e dignità. A che punto siamo? La libertà c’è, specialmente di espressione e movimento. La dignità non tanto, perché non è stato ancora intaccato l’arbitrio della polizia e il sistema delle torture, ma almeno fioccano le denunce. Sul piano del lavoro non è cambiato niente. Ma la rivoluzione non si compie per magia. Inoltre ai ragazzi tunisini manca è il senso della cittadinanza, dell’appartenenza. La generazione di mio nonno e quella di mio padre hanno conosciuto il colonialismo e la lotta d’indipendenza, si sono battute per la cittadinanza. I loro figli e nipoti invece sono cresciuti sotto la dittatura, sin dai tempo di Bourghiba, e non sentono di appartenere a questa terra, non l’hanno mai sentita loro e non ne fanno una ragione sufficiente per restare. Dobbiamo ripiantare in loro questo sentimento». Nel libro si sente forte in diversi passaggi il gap generazionale tra padri sconfortati e i figli rabbiosi. È in questo vuoto che si sta insinuando l’islam radicale? «Certo. L’islamismo si alimenta della collera dei giovani. E’ un processo cominciato alla fine degli Anni 80. Il fondamentalismo si è imposto come alternativa e contropotere alla politica. Ha dato identità religiosa dove non c’era sentimento di cittadinanza, ha investito sull’appartenenza alla grande famiglia musulmana anziché alla patria». Perché in quel vuoto non sono riuscite a inserirsi invece le spinte democratiche e liberal che pure accendevano le piazze nel 2011? «Abbiamo appena iniziato a capire la democrazia. La strada è lunga e in salita. E comunque anche la rivoluzione francese ha avuto bisogno di decenni per dirsi compiuta». Cosa ha pensato di fronte alla foto del piccolo Aylan Kurdi, ucciso dal sogno di fuggire dall’inferno della guerra? «È stato terribile, ma una foto non basta. Tutti ci siamo commessi e dopo? Il mondo è governato da interessi economici, anche la Germania che oggi appare il Paese più accogliente d’Europa ha il suo tornaconto economico dall’accoglienza dei profughi. Poi per fortuna, in Europa come dovunque, i popoli sono migliori e più generosi dei loro governi».

Francesca Paci