Cultura
Jonathan Franzen
Jonathan Franzen
L’allarme dello scrittore: “Sui social solo opinioni personali, e chi urla
più forte ha ragione. È la via che porta a una cittadinanza disinformata”
L’allarme dello scrittore: “Sui social solo opinioni personali, e chi urla
più forte ha ragione. È la via che porta a una cittadinanza disinformata”
All’inizio sembra che Jonathan Franzen stia scherzando: «Volete sapere perché ho scelto il giornalismo come professione di una protagonista di Purity? È molto semplice. Io sono estremamente pigro, quando si tratta di condurre il lavoro di ricerca per i miei romanzi. Ma avendo lavorato come giornalista, e conoscendo molti giornalisti, non mi costava alcuna fatica costruire un personaggio che faceva il loro mestiere».
Il pubblico ride, e Jonathan ci resta male. Decide che non era questa la sua intenzione: inviare un messaggio ridicolo su una professione minacciata. Quindi si corregge: «Quello che sta accadendo per colpa di Internet non mi piace per nulla. Senza giornalismo una democrazia non può funzionare, e noi rischiamo di perderlo, perché i professionisti che lo praticano non riescono più a farsi pagare. Dobbiamo assolutamente trovare un nuovo modello, e intanto le fondazioni dovrebbero garantire la sopravvivenza delle testate».
Facciamo un passo indietro. La scena della conversazione è l’organizzazione culturale di Manhattan 92Y, dove Franzen è venuto a presentare il suo nuovo romanzo Purity, rispondendo alle domande di Mark Greif e del pubblico. Si procede tra una chiacchiera sul desiderio di trasmettere come «l’amore e l’odio sono divisi da una separazione sottilissima», e un’altra sulla bellezza dei libri di Elena Ferrante, che «sto divorando. Non racconta solo le sue amicizie napoletane: si capisce subito che dietro c’è una ferita personale, che la spinge a scrivere».
A un tratto Greif si ricorda che Leila, una delle protagoniste di Purity, fa la giornalista non profit tipo ProPublica, mentre Andreas, un altro personaggio centrale, fa il «leaker» alla Julian Assange. Franzen allora si dimentica la ragione per cui è salito sul palco, e parte per la tangente della libertà di espressione: «Il giornalismo è fondamentale per la democrazia. Intendo quello serio, fatto da professionisti. Ora però è a rischio, e non possiamo permetterci di perderlo». Quindi articola il concetto così: «Uno dei problemi che ho con Internet è che sta rendendo sempre più difficile per i giornalisti essere pagati, in particolare i freelance. È un cane che si morde la coda: qualcuno fa un enorme lavoro per trovare dei fatti, ma nell’istante in cui li pubblica vengono subito presi, linkati, twittati, copiati, senza che chi li ha scoperti venga adeguatamente compensato da chi li consuma. Io, come romanziere, ho la fortuna di essere pagato bene per i contenuti che produco, e non vedo perché ai giornalisti non dovrebbe succedere altrettanto».
La replica che il mondo è cambiato, ormai chiunque abbia uno smartphone è quanto meno un testimone, e poi ci sono i blogger e i leaker a informarci, non la beve neanche un po’: «No, così si alimenta solo il rumore, e vince chi grida più forte. Ho seri problemi con chi dice che i giornalisti non ci servono più, perché tanto abbiamo i leakers, i citizens journalist, il crowd sourcing o i blogger. È un cammino che porta a una cittadinanza disinformata, oppressa e uniformata, perché non c’è nessuno che cerca responsabilmente di riportare cosa succede. Solo opinioni personali, spesso opposte e violente, non digerite. Chi urla più forte ha ragione. Penso che sia sbagliato diffondere così l’informazione».
Franzen rivela anche i motivi della sua passione personale per il giornalismo: «Per lasciar vagare i sogni dei miei romanzi, devo chiudermi dentro una stanza e tagliarmi fuori quasi da tutto. Invece il giornalismo, quando lo pratico, mi consente di uscire e respirare. Inoltre permette anche di spiegare in maniera più sana le proprie idee. Molti romanzieri postmoderni, secondo me, hanno commesso l’errore di riempire la loro fiction di politica, ma così hanno soffocato i propri libri. Io penso che sia più sano, e anche più efficace, dividere i due campi, usando i romanzi per dare sfogo alla fantasia, nel mio caso sempre con un tono ironico, e il giornalismo per tirare fuori e sviluppare le idee».
Come il presidente Jefferson, insomma, a uno Stato senza giornali Jonathan preferisce i giornali senza uno Stato. Il problema è che il mondo sembra andare nella direzione opposta, e quindi Franzen ha deciso di lanciare un grido di allarme, mettendo fra i protagonisti di Purity una professionista che va a Denver per costruire una struttura di informazione non profit tipo ProPublica. Davanti all’obiezione dei lettori che non tutti hanno in tasca venti milioni di dollari per finanziare un’impresa editoriale in perdita, Jonathan scrolla le spalle: «È vero che non tutti hanno venti milioni, ma è vero pure che diverse persone li hanno, in questo paese, e farebbero bene a investirli nella difesa del giornalismo».
L’idea di Franzen è questa: «Naturalmente dobbiamo trovare un nuovo modello, che consenta al giornalismo serio di qualità di essere pagato, e quindi di sopravvivere. Nel frattempo, però, bisogna sostenerlo in qualche modo, e io credo che le grandi fondazioni dovrebbero accollarsi l’onere di fare da ponte. In altre parole, pagare per tenere in vita le testate, in attesa di trovare il nuovo modello per stare in piedi con i proprio piedi». Jonathan capisce che ciò provocherebbe subito dei problemi: «Le fondazioni porterebbero con sé le loro inclinazioni ideologiche, influenzando il prodotto, ma questo difetto si potrebbe compensare coinvolgendone un numero consistente con posizioni diverse. Capisco che sarebbe una soluzione imperfetta, ma rappresenterebbe la risposta d’emergenza a uno stato di disperazione. Fino a quando non troveremo la maniera di far rinascere il giornalismo, senza lasciare che muoia».
Paolo Mastrolilli