ebook di Fulvio Romano

martedì 29 settembre 2015

Se la politica perde consenso sorteggiamo le cariche. La provocatoria tesi di Van Reybrouck

LA STAMPA

Cultura


“Perché votare non è più democratico”: la provocatoria tesi 

di David Van Reybrouck, intellettuale progressista sul solco di Rousseau 

Si può scrivere un libro proclamandosi contrari alle elezioni? Evidentemente sì, se ci si chiama David Van Reybrouck, uno degli intellettuali più originali oggi in Europa, il quarantenne studioso (insegna all’Università di Lovanio), scrittore (presidente del Pen Club) e giornalista belga che, con le oltre 700 pagine del suo potente libro-reportage Congo (Feltrinelli), si è imposto all’attenzione del pubblico internazionale (vincendo, da ultimo, anche il premio Terzani 2015).

Ora torna a gettare un sasso nello stagno cimentandosi con uno dei temi più delicati e scivolosi e pubblicando un volume che verosimilmente farà discutere, provocatoriamente intitolato Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli, pp. 158,  14). Dalla sua, in ogni caso, ha delle credenziali di fede democratica a prova di bomba - nel 2011 ha varato in Belgio la piattaforma di innovazione democratica e partecipazione civica G1000 - e le sue analisi sulla crisi della democrazia, in un’epoca di populismi dilaganti, sono rivolte innanzitutto ai progressisti. 

Da tempo è in corso nella scienza politica un intenso dibattito sulla qualità e i problemi delle democrazie rappresentative (si pensi, tra gli italiani, a studiosi come Leonardo Morlino, Sergio Fabbrini, Roberto D’Alimonte e, su un piano che incrocia la sociologia della comunicazione, Michele Sorice), e adesso Van Reybrouck aggiunge un altro tassello. Muovendo da una suggestione celebre (quella di Jean-Jacques Rousseau, il quale considerava il sorteggio il metodo migliore per l’assegnazione delle cariche pubbliche in un sistema che attribuisce la sovranità al popolo), si avventura in una sorta di inchiesta sul malandato stato di salute delle nostre democrazie liberali diventate «democrazie del pubblico» (secondo la formula di Bernard Manin, tra i numi tutelari dell’autore, nonché il politologo che ha riportato alla luce la frattura esistente in seno al pensiero repubblicano, ancora lungo tutto il ’700, tra i fautori dell’elezione e quelli dell’estrazione a sorte dei rappresentanti).

Le istituzioni democratiche sono pazienti assai sofferenti, condizione che è sotto gli occhi di tutti, e che statistiche e istituti di ricerca (a partire da Eurobarometro) continuano drammaticamente a certificare, dal 33% appena di fiducia nei confronti dell’Unione europea dell’anno 2012 (contro il 50% del 2004) sino al 28% di quella nei parlamenti e al 27% di quella nei governi nazionali.

In buona sostanza, la democrazia vive oggi più che mai un paradosso: suscita, in linea teorica, entusiasmo - attualmente nel mondo ci sono 117 democrazie elettive su 195 nazioni -, ma è affetta contestualmente da diffidenza e sfiducia (corredate dalla crescente domanda di leader forti). Se la politica perde di senso (e consenso), anche la democrazia ne risente parecchio, subendo gli effetti di una crisi di legittimità che si esprime sotto forma di astensionismo, calo inarrestabile della militanza nei partiti e volatilità elettorale. Come pure quelli di una crisi di efficienza, tra consultazioni lunghissime per formare gli esecutivi e tempi sempre più dilatati per l’approvazione di una legge o la realizzazione di una qualche opera pubblica, e le forze politiche che stanno al governo - al contrario di quanto avveniva in passato - vedono i loro consensi erodersi sempre più velocemente. 

Il risultato coincide con una sorta di «sindrome di stanchezza democratica», al cui riguardo, nella nostra società eccitata (definizione del filosofo tedesco Christoph Türcke), vengono illustrate quattro diagnosi. Quella populista che dà la colpa ai politici; quella tecnocratica che attribuisce la responsabilità alla medesima democrazia (per la lunghezza e complessità dei processi decisionali al suo interno) e quella della democrazia diretta che ritiene colpevole la democrazia di tipo rappresentativo (tesi che va da Occupy Wall Street agli Indignados). Infine, c’è un «giudizio clinico» innovativo, quello sposato dall’autore: la disaffezione sarebbe provocata non dalla democrazia rappresentativa in quanto tale, bensì dalla sua variante elettiva. 

Contro il «fondamentalismo elettorale» (caratteristico, in particolare, della diplomazia internazionale, che attribuisce al voto una «funzione salvifica»), vengono passati in rassegna una serie di esperienze (dal Canada all’Islanda, dall’Olanda all’Irlanda) e di progetti di innovazione democratica che vanno dalla democrazia deliberativa (e «informata») ai modelli elaborati da vari teorici e scienziati politici (come Yves Sintomer, Terrill Bouricius, Hubertus Buchstein) di «democrazia del sorteggio», spesso con l’idea di Camere suppletive da aggiungere a quelle esistenti. Perché bisogna sempre aver presente, dice Van Reybrouck sulla scorta di Rousseau, che «la democrazia non è un regime dominato dai migliori elementi della nostra società» e, dunque, la sua finalità fondamentale dovrebbe essere quella di assicurare il pluralismo e un uguale diritto di decidere delle questioni politiche a tutti i suoi membri. E scusate se è poco…

Massimiliano Panarari


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