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giovedì 17 settembre 2015

Facebook scopre le sfumature ne saremo all’altezza ?

LA STAMPA

Cultura


Zero-uno, acceso-spento, bianco-nero. Siamo abituati a pensare a Internet come un’espressione binaria, non solo nel suo codice costitutivo, il digitale, ma anche nei pensieri che la attraversano, che la rendono viva. Spesso la rete viene banalizzata come lo specchio della realtà in cui tutto si polarizza, in cui dividersi tra pro e contro, Guelfi e Ghibellini, in una sorta di urlo del tribuno permanente.

Dalla politica al tifo, il dissenso diventa la versione contemporanea del pollice verso dei gladiatori: colpevole, a morte. Per questo la notizia che Facebook sta pensando al modo in cui realizzare il pulsante dislike, è diventata «arriva il bottone non mi piace». In realtà, quel che ha annunciato il fondatore Mark Zuckerberg è diverso, e se dovesse essere sintetizzato in un bottone, potrebbe essere il «mi dispiace».

«Lo avete chiesto per anni», ha detto, «siamo molto vicini a collaudarlo». Come aveva spiegato in passato, sarà un modo per esprimere un sentimento di vicinanza, di compassione positiva, e «non un mezzo per denigrare le opinioni altrui».

Qualche anno fa, durante il tradizionale summit di Davos, un imprenditore gli chiese come si fa a creare una comunità online. Zuck, l’inventore di un social network da un miliardo e quattrocento milioni di persone, un paese più popoloso della Cina, ci pensò un po’ e poi rispose con un disarmante: «È impossibile. Le comunità non si creano, esistono per rispondere a un bisogno. Puoi solo dar loro strumenti eleganti con cui organizzarsi». Se li fai bene, li adotteranno. Il pulsante «Mi piace» è uno di questi. Arrivato nel 2009, è diventato il modo universale per esprimere il proprio consenso in rete e si è diffuso - in una forma o nell’altra - su tutte le piattaforme digitali. Un gesto per esprimere il proprio sostegno che nel tempo si è attirato critiche da parte di teorici e soloni della rete. Vi hanno visto uno svilimento del suffragio popolare, un insulto alla democrazia a colpi di click, senza capire che a determinarne il successo era stata prima di tutto una ragione di elegante semplicità.

Certo, i like hanno creato un’industria, attraverso la quale Facebook legge le nostre preferenze e le trasforma in informazioni che poi vende agli investitori pubblicitari. Hanno determinato la viralità, il fenomeno per il quale molti di noi trascorrono parte della giornata cliccando compulsivamente sui video di gattini.

Su Facebook - a differenza di altri siti come Reddit, non a caso molto più violenti nella polarizzazione delle opinioni - il pollice verso però non è mai arrivato. I detrattori dicono per ragioni commerciali. Ve la immaginate la pubblicità di un’azienda sommersa da «Buuhhh»? Forse anche per preservare un minimo di civiltà delle conversazioni e per evitare di inibire gli utenti dall’esprimersi, nel timore di ricevere in cambio disgusto. Tuttavia in Facebook - rete di reti dove si condividono tragedie planetarie come i terremoti o la commozione per la vicenda di Charlie Hebdo, a fianco di lutti e angosce personali che solo i nostri amici potranno capire - mancava uno strumento per esprimere vicinanza, dispiacere. È ciò a cui stanno lavorando gli ingegneri di Menlo Park. Non è chiaro se la forma finale sarà un emoticon, una delle faccine che popolano i nostri messaggi per colorarne il tono, o qualcosa di altro genere. 

Ancora una volta i complottisti affermeranno che si tratta solo di un modo da parte dei giganti della rete per curiosare tra i nostri sentimenti, per imparare da quel che facciamo e costruire algoritmi sempre più intelligenti, dai quali estrarre sempre più denaro. Più semplicemente - nella settimana in cui esce anche Inside Out, il cartone Pixar sulle emozioni che ci rendono umani - è bello pensare che anche Facebook abbia deciso di valorizzare le sfumature, parte integrante della nostra vita e del nostro tempo in rete. 

Esserne all’altezza, o ridurre tutto al codice binario, dipende solo da noi.

Massimo Russo