Cultura
Per citare il titolo di un film di Almodóvar, la Spagna è sull’orlo di una crisi di nervi, e forse ci è già dentro. A pochi giorni dalla data delle elezioni regionali in Catalogna, 27 settembre, lo spettro - per alcuni il miraggio - di una secessione catalana è al centro di dibattiti aspri, di divisioni, di polemiche.
Per un osservatore straniero prevale un senso di incredulità. Non perché esistano spinte indipendentiste in un Paese democratico e pluralista (dopo tutto, esistono anche in Scozia), ma perché il tono dell’indipendentismo catalano, e delle repliche del governo di Madrid, è molto più aspro, e rivela una scarsa disponibilità al compromesso che fa temere che, comunque vadano le elezioni, la situazione possa produrre tensioni istituzionali difficilmente risolvibili.
La prima peculiarità della situazione dipende dal fatto che la consultazione del 27 settembre non sarà un referendum, non permesso dalla vigente costituzione spagnola, ma un’elezione a livello di autonomia alla quale il Presidente regionale Artur Mas e i partiti che lo appoggiano hanno peraltro attribuito un valore quasi-plebiscitario nel dichiarare che se emergerà una maggioranza a favore dell’indipendenza, questo si dovrà interpretare come «un mandato legale e politico» per dare avvio al calendario che dovrà portare alla proclamazione di uno Stato indipendente. Va precisato che la maggioranza di cui parlano gli indipendentisti sarà misurata in termini di seggi nel parlamento regionale, e non di voto popolare. Un voto indipendentista che, secondo gli ultimi sondaggi, non dovrebbe andare oltre il 45 percento. Significherebbe dichiarare l’indipendenza sulla base del consenso di meno della metà della popolazione.
Ma da dove viene la spinta all’indipendenza? A differenza dalla Scozia, non siamo in presenza di una divergenza di orientamenti politici di fondo fra centro e periferia, dato che sia a Madrid che a Barcellona il governo è nelle mani di partiti di destra. Ragioni economiche, allora? Per noi italiani non risulta difficile capire, ma anche vederne limiti e pretestuosità, come possa nascere la polemica di una regione economicamente più avanzata nei confronti del resto del Paese, e soprattutto della capitale, di cui si denuncia un sostanziale parassitismo. Il «Madrid ci deruba» della polemica degli indipendentisti catalani corrisponde esattamente al «Roma ladrona».
E’ importante considerare la dimensione internazionale, a partire da quella europea. Le ripetute affermazioni dei dirigenti indipendentisti secondo cui la Catalogna indipendente resterebbe nell’Unione Europea sono state smentite non solo dal governo di Madrid, ma dalla stessa Commissione con una dichiarazione del 17 settembre che non permette equivoci: «Se una parte di uno Stato membro diventa indipendente, i Trattati smetterebbero di applicarsi ad essa, che si convertirebbe in uno Stato terzo che risulterebbe automaticamente fuori dall’Unione e dovrebbe chiedere l’adesione». E non può sfuggire che a quel punto la necessaria unanimità degli attuali membri a favore dell’ingresso nella Ue della Catalogna indipendente risulterebbe del tutto ipotetica. Va ricordato che la Spagna, proprio per le sue preoccupazioni anti-separatiste non riconosce nemmeno il Kosovo indipendente.
Ma allora? Se i vantaggi economici della secessione sono tutt’altro che chiari, e se sarebbe più che a rischio la possibilità di appartenenza all’Unione, che senso ha la prospettiva dell’indipendenza? Possibile che i catalani, famosi, oltre che per la loro laboriosità e la loro concretezza, per il loro essere attenti alla convenienza e all’utile (per capirci, in Spagna i catalani hanno una reputazione simile a quella che i genovesi hanno in Italia) si stiano imbarcando in un’avventura obiettivamente azzardata?
Certo, la spiegazione può essere ricercata tenendo presente che è un classico universale, per una classe politica in difficoltà, fare appello al nazionalismo. In concreto, la classe dirigente catalana è stata ultimamente coinvolta in vari casi di corruzione - in questo, senza molte differenze dalle vicende politico-giudiziarie che hanno interessato esponenti del potere centrale - e certo sventolare la bandiera può risultare un’utile diversione. Ma c’è qualcosa di più. C’è il fatto che, come disse una volta Raymond Aron, «se pensiamo che la gente non sia disposta a sacrificare i propri interessi alle proprie passioni, ci sbagliamo di grosso».
Le passioni indipendentiste catalane vengono da lontano. Si basano soprattutto sulla lingua - una lingua dalle antiche radici e con una ricca produzione letteraria a partire dal Medio Evo che, sottoposta a repressione durante il franchismo e il suo tentativo di imporre il monopolio del castigliano è sopravvissuta nelle famiglie e, a differenza dal basco, è una realtà maggioritaria e radicata. Ebbene, gli indipendentisti catalani denunciano oggi una discriminazione del tutto inesistente, dato che anzi è la lingua spagnola ad essere discriminata nel sistema educativo catalano. In Catalogna esiste oggi un bilinguismo di fatto, ma una sistematica egemonia, promossa a livello ufficiale, della lingua catalana, fra l’altro con il crescente rischio della «provincializzazione» di una regione che finora era stata uno dei centri più vitali della cultura spagnola a livello mondiale: basti pensare alle attività editoriali, e al numero di intellettuali latino-americani che avevano scelto Barcellona per lunghi anni di esilio creativo.
Colpisce anche, e preoccupa per le sue conseguenze, la rivisitazione nazionalista della storia, con l’immagine di una Catalogna come proto-Stato fin dai tempi più antichi, e soprattutto sempre sfruttata, sempre martire. Viene in mente Benedict Anderson e il suo libro «Comunità immaginate» – immaginate e non immaginarie, nel senso che tutte le entità nazionali sono prodotti culturali e politici con un loro profilo e una loro legittimità, ma tendono ad essere rappresentate dal nazionalismo in termini storicamente insostenibili, schematici, semplificati, con il risultato di aumentare il potenziale conflittuale nei confronti dell’Altro e di accantonare il rispetto delle regole esistenti e la considerazione degli interessi altrui. Solo un’evoluzione federale potrebbe garantire il mantenimento di uno Stato spagnolo unito ma capace di dare spazio a tutte le realtà che lo compongono.
Purtroppo, il discorso federale è arrivato tardi, e oggi è troppo per i centralisti e troppo poco per gli indipendentisti.
Il pericolo è che il nazionalismo catalano, con la sua scomposta provocazione, possa ridare spazio a un nazionalismo spagnolo che la Spagna democratica del post-franchismo ha certamente esorcizzato, imbrigliato e rimosso dalla propria identità politico-culturale, ma che, per reazione, potrebbe tornare a mostrare il suo volto peggiore. Quello contro cui il nazionalismo catalano sta conducendo una battaglia anacronistica che potrebbe però rivelarsi una profezia auto-realizzata.
Roberto Toscano