Cultura
Una tassa
che farà male
alla crescita
Chissà se Matteo Renzi, prima dell’uscita in cui ieri sera ha annunciato la digital tax da Lilli Gruber a Otto e Mezzo, ha almeno chiamato Francesco Boccia per scusarsi. Due anni fa fu proprio Renzi ad affondare la proposta di web-tax di Boccia, suo collega di partito e presidente della commissione Bilancio della Camera. Allora il Renzi 1 sostenne che il tema avrebbe dovuto essere regolamentato in sede europea. Contrordine, ora la tassa rispunta dal cappello del Renzi 2, anche se a scoppio ritardato. «Sarà legge dal 2017», ha spiegato il premier in televisione. «Abbiamo deciso di attendere tutto il primo semestre del 2016 l’Ue, ma da questa legge di stabilità già immaginiamo una digital tax che vada a far pagare le tasse nei luoghi dove vengono fatte le transazioni e gli accordi». Come se l’Europa che tentenna nel decidere fosse altro da noi. La presa di posizione ha spiazzato gli stessi colleghi di governo, anche quelli che si occupano di digitale, che ieri sera sono caduti dalle nuvole, attribuendo la paternità dell’iniziativa al ministero dell’Economia.
Ma di che si tratta? È presto per dire come sarà articolato il provvedimento, anche perché lo stesso presidente del Consiglio ha affermato che sarà diverso da quanto immaginato in passato. Ma si può almeno fare chiarezza sui termini della questione. Sotto accusa sono le piattaforme digitali che offrono servizi e prodotti in Italia come Google, Amazon, Facebook, Apple, accusate di adottare sistemi leciti che consentono loro di eludere di fatto il fisco italiano. Ciò è possibile perché le sedi di queste società sono in Paesi Ue che pongono loro condizioni più favorevoli, come Olanda, Lussemburgo, Irlanda. In realtà in alcuni casi queste nazioni vengono utilizzate come via d’uscita per ribaltare gli utili conseguiti fuori d’Europa, in regimi fiscali ancora più benevoli. Tutto legale. Interpellate sul tema, le aziende replicano di utilizzare gli strumenti che la stessa Unione mette a loro disposizione.
In realtà le cose stanno cambiando. Già dal gennaio di quest’anno l’Iva si paga nel Paese in cui risiede l’acquirente, e dunque le transazioni sono tracciate dal fisco italiano. A questo punto - ma qui siamo alle congetture - dall’Iva l’erario italiano potrebbe risalire a una presunzione di imponibile, e su questo richiedere alle società di pagare.
È la soluzione a un problema reale? No. L’unica sede possibile per trovarla è Bruxelles. Ogni regolamentazione unilaterale che ci allontani da un quadro unico europeo condiviso non fa che impedire la nascita di un solo mercato. Ventotto Paesi e altrettanti regimi hanno come conseguenza un labirinto di adempimenti per le imprese, non un’Unione che sfrutti a pieno la più potente economia del pianeta. Un mal di testa di regolamenti che forse le grandi piattaforme possono permettersi di affrontare, ma che di sicuro penalizza i piccoli, e dunque la crescita del digitale europeo. Con il rischio ulteriore che il costo della tassa sia ribaltato sui consumatori, con un aumento dei prezzi di beni e servizi.
Vale la pena di adottare una scorciatoia di questo genere? È lo stesso presidente del Consiglio a rispondere durante la trasmissione: «Non si tratta di grandi cifre, non basteranno a risollevare l’economia, ma è una questione di giustizia». Per ora si compiace soprattutto Boccia, che - felice per la decisione del Renzi 2 - ieri sera ha dichiarato: «La politica sana ha il dovere di intervenire sulla mostruosa base imponibile erosa e di far pagare alle multinazionali dell’economia digitale imposte che oggi eludono». Sarà, ma il Renzi 1 - più che preoccuparsi di escogitare nuove tasse - avrebbe preferito capire perché le grandi imprese digitali non nascano da noi. E applicarsi a rimuovere gli ostacoli che oggi lo rendono così difficile.
@massimo_russo