ebook di Fulvio Romano

giovedì 7 agosto 2014

Quando Mussolini mandava " in vacanza" al confino i suoi oppositori

LA STAMPA

Cultura

Quando Lussu, Rosselli e Nitti

andavano in “vacanza” a Lipari

Esce un monumentale studio sul confino durante il fascismo

Condizioni durissime, ma per il regime era «villeggiatura»

Alle volte, bastava una parola, un gesto, un’imprecazione mormorata a denti stretti. Il rifiuto del saluto romano o un «Muoia Mussolini!», sfuggito magari davanti all’ultimo bollettino di morti della guerra coloniale. Bastava questo, per meritarsi il confino durante il fascismo. Perché da qualche parte c’era sempre un solerte cittadino che per paura, o per cieca fede nel regime, cambiava strada e infilava la porta di un commissariato per fare delazione. L’epoca del confino e le voci dei confinati rivivono nella collana I quaderni del confino, a cura dello storico liparese Giuseppe La Greca, pubblicati dalle Edizioni del Centro Studi Eoliano di Lipari, e composta da sei volumi dedicati ai primi anni, i più duri, di attuazione di questa misura repressiva da parte di Mussolini.

Accadeva, ad esempio, il Primo Maggio, in quella che era stata la festa dei lavoratori. C’era una speciale mobilitazione di attivisti fascisti, militi e poliziotti per denunciare il tale che magari aveva indossato un vestito elegante, o mangiava con amici, o aveva addosso, nascosto, un fazzoletto rosso. Anche questo era sufficiente per essere spediti al confino. E la formidabile rete spionistica, affidata pure a cittadini comuni, non limitava le sue attenzioni ai comportamenti politici o alle dichiarazioni pubbliche: non erano consentite critiche al fascismo neppure se contenute in diari chiusi nei cassetti delle scrivanie o affidate a lettere private. Non c’era processo, la misera autodifesa scritta che veniva richiesta agli inquisiti funzionava il più delle volte da conferma delle accuse. E la condanna veniva formulata già prima dell’arresto.

Dal 1926 al ’43, negli anni in cui il confino rimase operante, furono oltre diciassettemila gli oppositori del regime ad essere deportati nelle isole Tremiti, Eolie, Egadi, e a Ponza, Ventotene, Ustica. Arrestati spesso senza spiegazioni, partivano da soli, dalla sera alla mattina, approdando su questi scogli, allora ben lontani dalla vocazione turistica maturata in tempi più recenti. Per loro cominciava così una specie di Odissea da senza tetto, a cui era riservato, non sempre, un posto in un dormitorio e una sedia in una mensa comune, mentre i contatti con famiglie, amici e compagni di partito restavano affidati a lettere forzatamente purgate nella scrittura, per via di una censura invadente.

Il primo dei sei volumi, che sta per uscire, è illustrato con immagini dei luoghi del confino realizzate dalla fotografa Maria Vittoria Backhaus e arricchito da una prefazione di Bernardo Valli. Contiene il racconto della nascita e dello sviluppo di quella che diventò, a Lipari - «l’isola del Diavolo», la «Siberia di Mussolini nel Mediterraneo», come la definiva il giornale berlinese Vossische Zeitung -, la più affollata colonia di confinati. Un migliaio di personaggi di primo piano dell’antifascismo italiano, dal tirolese Josef Noldin, al gran maestro della Massoneria Domizio Torrigiani, ad Emilio Lussu, a Ferruccio Parri, a Carlo Rosselli. Il quale, con la sua rocambolesca fuga dall’isola, insieme a Francesco Nitti e a Lussu, nel ’29, giocò, sì, un grande scacco al regime, ma diede involontariamente vita a una pesante campagna di repressione, che lo inseguì fino in Francia, dove poi venne assassinato insieme al fratello Nello, per ordine dell’Ovra, la polizia segreta del Duce.

Ma mentre appunto la vita dei confinati e i loro limitati tentativi di opporsi alla privazione dei diritti operata d’autorità, senza alcuna garanzia processuale, procedevano stentatamente, Mussolini, in canali riservati, dal momento che alla stampa era inibito di occuparsene, cominciava a far circolare già dal 1927 l’idea del «confino come villeggiatura». Nei colloqui con giornalisti stranieri, con diplomatici, imprenditori e intellettuali di altri paesi, ambasciatori e funzionari del regime lasciavano intendere che si doveva soltanto alla magnanimità del Duce, se tanti oppositori non venivano sterminati e neppure incarcerati, ma mandati a soggiornare in accoglienti e splendide isole dal clima mite.

Di vero, c’era solo la generosità con cui i confinati, molti dei quali in precarie condizioni di salute, venivano accolti dalle popolazioni isolane. Eppure Mussolini non esitò a rendere pubblica questa singolare versione dei fatti in un famoso intervento, pronunciato il 25 maggio 1927 in quella che dopo l’Aventino dei parlamentari antifascisti era diventata la Camera dei soli deputati fascisti. Nel «discorso dell’Ascensione», il Duce illustrò le ragioni che lo avevano spinto, l’anno prima, a instaurare il regime di polizia e s’intrattenne a lungo sul tema del confino. Spiegò che i confinati erano pusillanimi e incapaci, la loro opposizione essendo «più bagolinistica che altro» (una metafora per dire carnevalesca). Pertanto, nella sua visione, era inutile massacrarli, andavano piuttosto isolati dal contesto sociale come persone «infette». Così dipinse l’ondata di arresti che a migliaia aveva tolto di mezzo gli antifascisti come un’operazione di «igiene sociale, profilassi nazionale. Si levano questi individui dalla circolazione, come un medico toglie dalla circolazione un infetto».

Ovviamente, il Duce fu molto cauto sul numero dei confinati. Quanto al carattere afflittivo degli allontanamenti forzati, lo negò, dicendo che a ogni confinato venivano date dieci lire al giorno per le sue necessità. Lesse anche delle lettere, scegliendone accuratamente tra quelle che mostravano segni di cedimento politico. In conclusione presentò il confino, se non proprio come una villeggiatura, come un ricovero forzato di malati con qualche disturbo psichiatrico: a fin di bene, nel loro stesso interesse. Né più né meno come quasi ottant’anni dopo, nel settembre 2003, lo descrisse Berlusconi, in un’indimenticabile intervista in cui una delle sue tante voci dal sen fuggite, come altre volte, fu poi fatta passare come gaffe.

Marcello Sorgi


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