Cultura
Piemonte 1300-1800
Solo la peste riduce
le diseguaglianze
Uno studio su fonti dirette mostra una società
di grandi patrimoni circondati da masse indigenti
Uno studio su fonti dirette mostra una società
di grandi patrimoni circondati da masse indigenti
L’1% più ricco della popolazione possiede il 6% di tutto il patrimonio immobiliare a Cherasco, il 10% a Carmagnola, il 12% a Moncalieri, il 18% a Ivrea e addirittura il 20% a Chieri. Siamo ormai abituati a simili bollettini della disuguaglianza. Solo che in questo caso, le cifre si riferiscono al Piemonte attorno all’anno 1450 - un anno peraltro relativamente «egalitario», visto che nei secoli successivi la concentrazione della ricchezza sarebbe aumentata ovunque. Già attorno al 1700, l’1% più ricco possedeva il 15% a Saluzzo, il 22% a Cherasco, mentre a Chieri la quota dei più ricchi aveva raggiunto un livello davvero elevatissimo, pari al 28% - di cui il 3 e mezzo per cento nelle mani di un solo uomo, il colonnello di cavalleria Antonio Maurizio Turnetti. Per contro, la metà più povera della popolazione possedeva appena, al 1700, il 6% della ricchezza a Saluzzo, il 4% a Cherasco, e solo il 2 e mezzo per cento a Chieri.
Il Piemonte è, ad oggi, l’unica regione dell’Europa - anzi, del mondo - per la quale sono disponibili misure non puramente speculative delle dinamiche della disuguaglianza economica su un periodo di cinque secoli, un risultato reso possibile dalle attività del progetto «Einite - Economic Inequality across Italy and Europe, 1300-1800», finanziato dallo European Research Council. L’obiettivo della ricerca è gettare luce su aspetti che gli storici hanno a lungo trascurato ma che la crisi economica in corso contribuisce a imporre all’attenzione degli scienziati sociali d’ogni genere.
L’indagine si basa su antiche fonti fiscali e in particolare sugli estimi, che elencavano tutti i beni immobili (edifici e terreni) posseduti dalle famiglie di una data comunità e attribuivano loro un valore, a partire dal quale si procedeva poi al riparto di svariati tributi. L’idea di fondo era che chi possedeva di più doveva contribuire maggiormente - ma in una società stratificata e divisa per ordini com’era quella del tardo Medioevo e dell’Età Moderna, il principio non si applicava a tutti e in particolare le proprietà dei nobili e della Chiesa erano esenti. Il campione di comunità include molte delle principali città del Piemonte sabaudo (Carmagnola, Cherasco, Chieri, Ivrea, Moncalieri e Saluzzo) oltre a una dozzina di centri minori.
Tutti i dati raccolti confermano l’impressione che la disuguaglianza economica nelle società antiche fosse elevata e che pochi fortunati individui disponessero di enormi patrimoni. Si tratta di quella l’élite della ricchezza che, un po’ in tutto il Piemonte, comprendeva «gentillhomini», professionisti (avvocati o «dottori di leggi», notai, medici), pubblici ufficiali e grandi mercanti (questi ultimi meno numerosi di quanto ci si potrebbe attendere). Il loro patrimonio tendeva ad avere composizione similare: una vasta e nobile casa d’abitazione, altre case ed edifici in città, e infine terre nelle campagne circostanti che costituivano di solito l’investimento principale.
Ad esempio a Ivrea, nel 1544, lo «spettabile signor» Giovanni Pietro Scaglia, un gentiluomo, dichiarò di possedere un palazzo d’abitazione del valore di 350 denari (pari a circa tre volte la ricchezza media complessiva di un capofamiglia eporediese dell’epoca), altre quattro case per ulteriori 350 denari, e infine una lunga serie di fattorie, vigne, campi e pascoli per oltre 2000 denari: in totale, ben il sei e mezzo per cento di tutti gli immobili d’Ivrea, campagne circostanti comprese. Nella medesima città, nel 1632 due soli uomini possedevano tra loro quasi il 9% della ricchezza: Filiberto Reverdino, erede del patrimonio del padre Teodoro che era stato a lungo rappresentante dei Duchi di Savoia in città, e Francesco Crotti, che dei Duchi era invece il locale tesoriere - apparentemente, in passato l’esercizio di una funzione pubblica non era del tutto sfavorevole all’arricchimento personale.
I pochi dati presentati sono già sufficienti a intravedere uno dei risultati principali ottenuti esaminando il caso del Piemonte: sul lunghissimo periodo, la disuguaglianza cresce costantemente, sia in fasi di sviluppo economico sia in periodi di stagnazione, come fu ad esempio il Seicento. Si tratta di una circostanza estremamente interessante, per le sue conseguenze teoriche e per le implicazioni per il dibattito relativo all’Età contemporanea. Infatti, la crescita di lunghissimo periodo della disuguaglianza preindustriale sembra saldarsi perfettamente con ipotesi recentemente formulate per il diciannovesimo e ventesimo secolo, in particolare dall’economista francese Thomas Piketty, oggetto di vivaci dibattiti.
Si tratta di una crescita che pare inarrestabile - salvo per un periodo molto specifico, vale a dire gli anni immediatamente successivi alla Peste Nera che colpì anche il Piemonte nel 1348 eliminando fino alla metà dei suoi abitanti. Ad esempio a Chieri, se prima della peste la metà più povera della popolazione possedeva appena il 7% della ricchezza, ancora a inizio Quattrocento contava su un molto più confortevole 10% circa, con un incremento «finanziato» dal corrispondente declino della quota dei più ricchi. Di fatto, sull’arco dei cinque secoli esaminati, la peste pare essere l’unico fattore capace di produrre una sostanziale e duratura riduzione della disuguaglianza (poi ampiamente recuperata a partire dalla metà del Quattrocento), in modo non dissimile da come le due Guerre Mondiali sembrano aver determinato l’unico declino sostanziale della disuguaglianza patrimoniale in tempi più vicini a noi.
Un’ultima domanda merita almeno di essere posta: perché, se la disuguaglianza nelle società preindustriali era così elevata, la popolazione non si ribellava o almeno non avanzava richieste di tipo redistributivo? Una risposta adeguata richiederebbe di considerare le numerose sfaccettature della questione. Tuttavia, un punto fondamentale è senz’altro che una società strutturalmente diseguale, così come lo era quella piemontese nel periodo sotto esame, non era necessariamente percepita dai suoi membri come ingiusta: vale a dire, che in un regime ordinato dal principio della giustizia distributiva - ognuno riceve quanto gli è dovuto in base al proprio status - la disuguaglianza economica è, strettamente, un non-problema. Sarebbe occorsa la Rivoluzione Francese affinché l’uguaglianza (di diritti) divenisse un cardine delle società occidentali, nonché un lungo percorso successivo perché si sviluppasse un principio di uguaglianza in senso più sostanziale (di opportunità, se non di accesso alle risorse), principio che peraltro sembra ben lontano dal trovare realizzazione. Ma questa è un’altra storia.
* Docente al Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico all’Università Bocconi
Guido Alfani *