Cultura
il conflitto
fra legge e consenso
Giovanni Orsina
Giovanni Orsina
La politica migratoria di Salvini può essere osservata da tre punti di vista: l’efficacia, il diritto, il consenso.
L’efficacia è evidente. Fra l’altro, pone la strategia del leader leghista su una linea di continuità con quella del suo predecessore, Marco Minniti. Ma come – si dirà – quale gran risultato sarà mai, tenere in ostaggio centocinquanta disgraziati nel Porto di Catania? In sé bloccare la Diciotti è ben poca cosa, certo, ed è per tanti versi inaccettabile. Il messaggio implicito in quel blocco e in tutto il disegno che lo circonda risuona forte e chiaro, però: cari migranti, evitate proprio di partire. O, se partite, vedete bene di non seguire la rotta del Mediterraneo Centrale. Quel messaggio – difficile negarlo – è stato ascoltato: il flusso dal Niger alla Libia, ad esempio, si è ridotto del quaranta per cento; mentre gli immigrati che hanno scelto la via del Mediterraneo Occidentale, approdando in Spagna, sono saliti quest’anno a ventiseimila, dagli ottomila del 2017.
Che l’efficacia (di Salvini, ma anche di Minniti) sia stata raggiunta a scapito dei diritti dei migranti, e violando o quanto meno forzando il diritto internazionale, è altrettanto evidente. Non passa giorno che gli avversari del leader leghista non battano su questo chiodo, alternando il martello etico a quello giuridico. La loro opposizione, in linea di principio, è del tutto giustificata – ma trova un limite invalicabile nell’incapacità di dar risposta a una domanda essenziale: come sia possibile coniugare il rispetto sacrosanto dei diritti, e del diritto, con l’esigenza politica altrettanto sacrosanta che i flussi migratori siano governati.
La cultura dei diritti è una straordinaria acquisizione di civiltà che nel corso degli ultimi decenni è cresciuta molto, ma non sempre bene. S’è dilatata, in primo luogo: oggi tutti i bisogni e desideri si presentano travestiti da diritti. È esondata dal suo alveo storico, poi: lo Stato-nazione. Ha messo in ombra le indispensabili contropartite, in terzo luogo – quelle per le quali, se ci son dei diritti, bisognerà pure che ci siano dei doveri. Infine ha esasperato la propria natura, per così dire, perfezionistica: una volta riconosciuto, il diritto dovrà essere soddisfatto per intero, subito, non saranno tollerati compromessi. Con gli anni questi sviluppi, e l’ultimo in particolare, hanno reso il discorso dei diritti sempre meno capace di misurarsi coi limiti di un mondo concreto nel quale, inevitabilmente, non tutti i diritti potranno esser soddisfatti del tutto e per tutti. Chi si chieda per quale ragione le sinistre – che a quel discorso stanno aggrappate da quarant’anni, per convinzione o disperazione – perdano terreno ovunque in Europa e sembrino aver smarrito il contatto con la realtà, farebbe bene a cercare anche da queste parti.
Prese insieme, la concretezza della politica migratoria di Salvini (e Minniti) e l’astrattezza del discorso dei diritti possono render conto, almeno in parte, del consenso raccolto dal leader leghista. Pregiudizi razzisti e razzismo aperto sono diffusi ovunque, e non si vede perché l’Italia dovrebbe esserne immune. Difficile immaginare inoltre che la retorica salviniana non li abbia alimentati, o comunque legittimati. Non mi sembra impossibile ipotizzare, tuttavia, che in moltissimi italiani la convinzione che il flusso migratorio vada arrestato sia maturata sul terreno non tanto del pregiudizio, quanto del buon senso. Lo mostra con una certa chiarezza uno studio demoscopico Ipsos che Federico Fubini ha presentato sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso: più della xenofobia, pesa la persuasione che lo Stato italiano sia troppo fragile per gestire efficacemente i flussi migratori. Ossia il timore che, messa sotto eccessiva pressione dalla purezza adamantina del discorso dei diritti, la ben più prosaica realtà della Penisola finisca per spezzarsi, a danno di tutti.