Italia
Suggerito da Renzo Piano e promosso dal Pd, ma con proposte non sempre all’altezza
Suggerito da Renzo Piano e promosso dal Pd, ma con proposte non sempre all’altezza
Cento progetti stoppati
L’ingloriosa fine del programma
che voleva debellare il degrado
I sindaci minacciano ricorsi, il governo dice che così si eviteranno costosi interventi solo di facciata. Fatto sta che con l’emendamento voluto da governo e maggioranza nel decreto Milleproroghe, che rinvia al 2020 il finanziamento dei progetti già presentati e approvati, si conclude ingloriosamente la vicenda del Piano Periferie ideato da Matteo Renzi.
Lo spunto iniziale di un intervento generale per «rammendare» le slabbrate e degradate periferie urbane è dell’architetto (e senatore a vita) Renzo Piano, che mette a punto un progetto per il quartiere del Giambellino a Milano. Dopo l’attentato del Bataclan a Parigi, l’allora premier Matteo Renzi lancia il progetto di un vero e proprio «Piano Periferie»: 500 milioni riservati alle città metropolitane (e successivamente anche alle città capoluogo di provincia) per interventi di riqualificazione e «rammendo» urbano nelle aree «caratterizzate da situazione di marginalità economica e sociale, degrado edilizio e carenza di servizi». I progetti - massimo concedibile 40 milioni di euro - dovranno essere presentati dai Comuni, attivando anche risorse proprie.
In sé, si tratta di una rivoluzione urbanistica, accolta con favore dai sindaci (ovviamente) ma anche dal mondo universitario e professionale. A maggior ragione perché - per la prima volta nella storia recente del nostro Paese - il Piano non si limita alla (solita) parte edilizia (scuole, piazze, parchi, mobilità sostenibile, case popolari) ma apre a interventi innovativi per l’inclusione sociale e la «resilienza urbana», a partire dai (carentissimi in periferia) servizi sociali per i cittadini di queste aree spesso degradate, che i Comuni dovranno realizzare.
Ottime intenzioni, che però quasi subito vengono frustrate. «Questi progetti - aveva detto Renzi a novembre 2015 - dovranno essere presentati entro la fine dell’anno e dovranno essere spesi entro il 2016». Macché. Il bando per la presentazione dei progetti si apre soltanto il primo giugno del 2016. Ovviamente arrivano una montagna di richieste, e serve tempo per valutarle. Ne vengono approvati subito 24, e a ottobre il premier - alle prese con l’imminente referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 - decide di finanziare tutti quelli minimamente accettabili, inserendo nella legge di Bilancio 2017 altri 1,6 miliardi.
Il primo gruppo di progetti, 24, parte formalmente il 5 marzo 2017; le altre 96 convenzioni arrivano a dicembre del 2017, premier Paolo Gentiloni. Insomma, tenendo conto che bisogna aspettare la registrazione della Corte dei Conti, poi i Comuni hanno 60 giorni per presentare i progetti definitivi, e altri 60 per quelli esecutivi, è chiaro che solo in pochi casi i lavori sono effettivamente partiti, e i soldi effettivamente spesi.
I 2,1 miliardi che erano stati stanziati per i 120 progetti avrebbero attivato complessivamente (compresi i co-finanziamenti pubblici e privati) circa 3,9 miliardi di euro di investimenti. Bisogna però osservare che molti dei co-finanziamenti indicati dai Comuni sono opere pubbliche o investimenti privati che sarebbero stati realizzati comunque, anche senza la «spinta» del Piano Periferie.
Come noto, con l’emendamento votato al decreto Milleproroghe, solo i primi 24 progetti inizialmente approvati - quelli che avevano ricevuto dalla commissione di valutazione un punteggio superiore a 70 su 100, sulla base di diversi e complessi criteri di giudizio, potranno andare avanti senza problemi. Negli altri 96 casi, ha detto il sottosegretario all’Economia del M5S Laura Castelli, verranno rimborsati i soldi spesi per la progettazione; ma i progetti saranno rinviati al 2020, e i fondi già stanziati verranno riutilizzati per altri investimenti pubblici degli Enti locali.
Qual è il livello qualitativo dei 120 progetti a suo tempo approvati? Non uniforme, dicono gli esperti, e ammettono a mezza bocca anche negli uffici dell’Anci, l’associazione dei Comuni d’Italia. Accanto a diversi progetti con elevata qualità e creatività e un buon mix di interventi edilizi e interventi «sociali», in molti casi i Comuni - nel tentativo di mettere le mani sui fondi - hanno proposto praticamente tutto quel che avevano di già «cotto». Basti pensare che lo scorso marzo 2017, secondo dati ufficiali, solo il 10% degli interventi aveva già pronti i progetti esecutivi, il 13% aveva la progettazione definitiva, mentre ben il 77% aveva solo la progettazione preliminare o lo studio di fattibilità.
I progetti migliori sono dunque tra i primi 24, e in generale quelli delle Città metropolitane. Milano prevede 35 interventi diffusi con misure di sostegno e servizi per l’abitare, borse lavoro, aiuto all’inserimento lavorativo, spazi per la cultura. Firenze punta su spazi per lo sport, la cultura e la socialità aperti tutto il giorno. Napoli invece voleva completare la demolizione delle Vele di Scampia. E Torino (con 41 milioni, di cui 7,6 dai privati) aveva preparato un mix tra spazi pubblici e servizi di inclusione, anche con il contributo di fondi privati, come nel caso del progetto Incet Polo dell’innovazione.
roberto giovannini