ebook di Fulvio Romano

mercoledì 22 agosto 2018

Vincino, vignette nell’anima delle cose

LA STAMPA

Cultura

Morto a Roma il disegnatore: da “Lotta Continua” al “Male”, da “cuore” al “Foglio”

Vincino, vignette nell’anima delle cose

In quei grovigli di linee qualcosa più della satira

Noi non avevamo bisogno della fisica quantistica, per cui non ha senso chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: noi ci eravamo già arrivati, sapevamo che non aveva senso chiedersi se Vincino fosse così perché si era tirato fuori da una sua vignetta, o se le sue vignette fossero così perché ci si era infilato dentro. Lui era spettinato o scapigliato, difficile dire, come un suo pupazzetto, aveva un corpo dai confini incerti e tremolanti come un suo svolazzante omino, avanzava al rallentatore, ondulato, curvilineo, una chicane umana, camicie a quadri, maglioni a quadri, giacche a quadri, in un’architettura technicolor che rendeva reale il surreale, e viceversa, cara fisica quantistica. 

Telefonava una mattina dall’auto al desk del Foglio di Milano: sono a Orte verso Firenze, per Saint Moritz vado bene? Spediva via fax vignette blasfeme, il Pontefice in tendenza weinsteiniana, artigli lussuriosi su suorine discinte, armamentari voluttuari ovunque, per mandare ai matti il caporedattore che ci cascò per mesi, e lo chiamava disperato: non è pubblicabile, me ne serve un’altra, e lui, in un andirivieni tra sé e la sua arte, rispondeva che non era possibile, sto andando a comprare le melanzane. 

Ci abbiamo vissuto così, con Vincino, anni dopo anni all’alba dei quali avevamo rinunciato a distinguere il vero dalla narrativa, la posa dall’essenza, e avevamo capito alla svelta che confinati in quel quadratino turbinavano tratti, linee, grovigli che, come ha di recente scritto Giuliano Ferrara, non erano satira, erano qualcosa di diverso, che la precedeva e la seguiva, era un altrove, il disegnino infantile che filava dritto non al cuore, ma all’anima delle cose. Un mondo a parte, compresi gli errori di ortografia che i primi tempi gli correggevamo - ingenui - con la tracotanza dei perfettini, e lui l’indomani chiamava, eccezionalmente digrignante: lasciatemi gli errori, sono i miei errori. 

Scompariva e ricompariva dalle nostre vite, noi che lo avevamo conosciuto, da lettori, ai tempi di Tango e del Cuore di Michele Serra, e per Il Male Ottovolante saremmo andati negli archivi, tutti giornali nati in un frastuono di opinioni folli e sagge, una sinfonia di dissonanze, una meravigliosa cacofonia perché come diceva Vincino si lavora soltanto per giornali scritti da nemici, siccome le idee nascono dal contrasto e non dalla consolazione. Sapevamo delle sue imprese deliranti, le prime pagine dei giornali - sul Male - con la notizia dell’arresto di Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse, l’apparizione, vestito da Bettino Craxi, a un comizio di Bettino Craxi. Gli chiedevamo dettagli che lui liquidava in un sussurro insensato - «Mi era avanzato un garofano e non sapevo che farne» - e piuttosto ci consigliava di trovare il modo di finire in galera qualche settimana, l’esperienza più formativa della sua vita. 

Avremmo pagato oro per vederlo - leggero anzi svanito nella sua inafferrabile solidità - negli anni duri di Lotta Continua con Adriano Sofri, ma lui non si concedeva al sussiego della memoria, l’unico modo di prendersi sul serio sembrava il non prendersi sul serio, con risultati serissimi, e gli ultimi tempi capitava di incontrarlo sui divanetti di Montecitorio, coi polmoni dentro cui aveva aspirato di tutto già malati del cancro di cui - ma va? - non parlava per nulla. Faceva un cenno da sotto e da sopra la sequela di occhiali schierati per mettere a fuoco ogni distanza, accennava l’implacabile sorriso - un fremito di irresistibile dolcezza - e introduceva la conversazione a modo suo: secondo te va bene se disegno Renzi con sei cravatte? Si inchinava al taccuino e disegnava - aspetta, stai qua, diceva - e infine mostrava. È bellissima, Vincino. Spalancava la bocca, e lentamente strappava il foglietto, e negli occhi balenava la beffa, e la gioia, ed era a quel punto che evaporava per fare di sé un diluvio nella nuova vignetta. 

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MATTIA FELTRI