ebook di Fulvio Romano

sabato 18 agosto 2018

Paoli: “La mia Genova, donna bellissima vestita di stracci troppo usati”

LA STAMPA

Italia

GINO PAOLI “Il crollo del Morandi darà una spinta definitiva al cambiamento che è già partito in città”

“La mia Genova, donna bellissima

vestita di stracci troppo usati”

Lo ha sempre detto: amo e odio Genova. Perché con questa città non si può fare altro. Gino Paoli, padre nobile della canzone d’autore, 83 anni, l’ha vista crescere, cambiare, sbagliare. Riprendersi. Essere lo specchio dei suoi figli, che puntualmente l’hanno ripudiata e rimpianta. Lui no. L’ha sempre fatta vivere nelle canzoni. È uno di quelli che sono sempre rimasti. E oggi guarda le nuove rovine senza perdere la fiducia.

Paoli, cos’è Genova? «Una donna bellissima, vestita di stracci. Va scoperta anche sotto la fatuità, l’apparenza. Ma anche in quel caso, con abiti modesti, talvolta troppo usati, non si mostra gratuitamente come fanno le donne oggi. L’ami e la odi perché è il destino di chi è bella. Senza odio, l’amore non è tale». Anche davanti a una tragedia? «Sì. Lo spirito di una città non cambia. Mia moglie Paola dice che per funzionare Genova avrebbe bisogno dell’intraprendenza romagnola. Da bambino, a Pegli, quando arrivavano i turisti, sentivo la gente: quando se ne vanno? Non è proprio una città nata per il turismo ma ha risvolti straordinari…». Temevo già il peggio… «… no, anzi è una città di cui ti puoi fidare. Non si muove per “belinate”, sciocchezze, ma solo per cose importanti. E quando lo fa, non scherza. Il 30 giugno 1960, in piazza De Ferrari, contro il governo Tambroni e la sua deriva autoritaria, c’eravamo praticamente tutti…». Tutti chi? «Io, Tenco, la compagnia del baretto della Foce, gli operai, i portuali, gli studenti, madri e padri, insegnanti… insomma Genova».Potrebbe riaccadere una mobilitazione così forte? «Certamente, Genova sta zitta per molti anni, si comprime fino a quando non ce la fa più. E quando si ribella è più forte del “maniman”, quel modo insolente di scongiurare le fortune del prossimo, la litania “perché lui si e io no?”. A un certo punto la città decide il proprio destino». Sta succedendo in questi giorni? «Sì, vedo i miei concittadini molto solidali. Davanti a una sciagura, la genovesità fa miracoli». Anche senza segnali inequivocabili sul futuro? «Credo che il crollo del Morandi darà una spinta definitiva, invece, a un futuro che già si intravedeva con questa amministrazione. Dai lavori sul Ferreggiano alla riorganizzazione dei negozi del centro storico. Non è proprio del mio stesso colore politico, ma fa cose che farei anch’io». Lei è stato anche in Parlamento, oggi prevale l’artista o l’uomo politico? «Anche trattare bene moglie e figli è un atto politico, sa? Però proprio nella politica vedo una gran confusione. A Nervi un vecchietto si chiedeva: se sono sempre in televisione, quando lavorano?». E lei cosa risponde? «Chi parla sempre, non lavora per nulla. Su Facebook o in televisione non ci vanno le persone che fanno qualcosa. In giro c’è un partito di persone silenziose molto più grande di chi sproloquia sui social. Un buon politico dovrebbe andare su Facebook solo dopo aver fatto qualcosa di concreto, non prima per raccogliere consensi». Per la verità, è un meccanismo molto ben collaudato dal suo amico Beppe Grillo… «Con lui sono quasi sempre d’accordo su quello che dice, quasi mai su come lo comunica». Sta dribblando un’eventuale polemica… «Antonio Ricci molti anni fa denunciò la mafia dei genovesi, c’è una legge non scritta per cui non sparliamo l’uno dell’altro. Solo uno ha fatto di testa sua, Maurizio Crozza, ma di lui non parlo io…». Il crollo del ponte Morandi è la Ground Zero genovese? «Solo in parte, perché ha riavvicinato i genovesi come non succedeva da tanti anni. Solidarietà, orgoglio e senso di appartenenza sono un’onda potente…». Sarà, ma intanto la città ha subito un G8 violento, due inondazioni, il crollo della torre piloti e adesso il disastro del Morandi… «Genova è molto fragile. Intanto è stretta fra monti e acqua e ti sembra sempre di scivolare in mare. Poi è costruita intorno a mura di cinta, a difese che abbracciano le case. Per viverci e piantare qualcosa devi rubare la terra con le fasce a secco. Quello che succede a Genova è sempre drammatico. E’ la natura che si vendica. In un modo o nell’altro…». Cosa può fare la cultura questa volta? «Noi artisti resistiamo, ricordando quello che è successo e cercando di fermare chi vuole andarsene. Abbiamo avuto grandi personaggi, come Ivo Chiesa, direttore del Teatro Stabile, che sono rimasti e sono stati ripagati dalla città». Ma come faccio a dire a un giovane che deve rimanere, se la città non gli offre nulla? «Dovrebbe chiederlo a chi l’amministra. Ripeto, non sono del mio segno politico, ma sindaco e presidente della Regione stanno facendo bene. A me interessa solo il bene dei miei concittadini». Quale sua canzone rappresenta oggi Genova? «Gliene dico due: “Genova non è la mia città” e “L’ufficio delle cose perdute”. Sono molto realistiche ma c’è anche malinconia. Sentimento ineludibile se ami un posto una persona…». Lei immagina una Genova intollerante? Se non razzista? «Impossibile. Siamo un porto da secoli. La gente si integra. Non si capisce perché ma ci riesce subito». Cos’è il bene pubblico? «Avere cura dei cittadini, lo dice la Costituzione. Quindi se lo Stato controlla gli ospedali che assistono tutti gli italiani, credo che affidare le grandi arterie a una società privata sia contro la Costituzione». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

renato tortarolo