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lunedì 20 agosto 2018

Geremicca: Se per il pd il nome è un peso

LA STAMPA

Cultura

Se per il pd

il nome

è un peso

Federico Geremicca

Sì, è vero: Genova (la città di Beppe Grillo, governata dal centrodestra, come anche la Regione Liguria) non può esser considerata, politicamente parlando, una riduzione in scala dell’Italia. Né vi somiglia in tutto la folla rabbiosa e dolente presente ai funerali di Stato, se solo si considera che oltre la metà delle famiglie delle vittime ha scelto di disertare quella cerimonia. Ciò nonostante, il Partito democratico sbaglierebbe a giudicare i fischi ricevuti dal suo segretario (e dalla genovese Pinotti) un episodio irrilevante o addirittura frutto di una perfida, seppur possibile, regia.   BERTINI P. 10

Quella contestazione, infatti, dà la misura esatta del punto in cui è precipitata la credibilità del Pd (al governo del Paese fino a qualche mese fa) e dell’enorme difficoltà che incontrerà a risalire la corrente. La drammaticità della sua crisi, peraltro, è di una tale profondità da annullare e rendere inesistente - caso più unico che raro - perfino quel piccolo favore di cui sono solite godere le forze d’opposizione: la naturale rendita di posizione insita nel dire che tutto va male e non se ne può più.

Oggi come oggi, insomma, il Partito democratico è nella peggiore delle posizioni immaginabili: né forza di governo (perché punita dagli elettori) né possibile forza d’opposizione (per il discredito, giusto o sbagliato che sia, che ancora lo circonda). È quasi un inedito: che naturalmente rende opportuno - e addirittura tardivo - un dibattito che rimetta in discussione non solo la storia, il profilo e la natura del partito, ma perfino il suo nome.

Poiché il passato insegna sempre qualcosa, quel che resta dello stato maggiore del Pd farebbe bene a guardare alla storia per rintracciare le qualità - politiche ed etiche - indispensabili per un tale cambio di pelle: il coraggio e la pazienza. Fu certamente un’operazione coraggiosa (seppur imposta dalla storia) quella con la quale Achille Occhetto relegò in soffitta nome e simboli del Pci; e ci volle tempo - e appunto pazienza - perché i leader del Pds e del Ppi (originato dallo scioglimento della vecchia Dc) cominciassero ad incassare gli utili della trasformazione compiuta.

Intendiamoci, oggi l’operazione è perfino più rischiosa, e tutt’altro che semplice. Rischiosa perché il pericolo sta nel buttar via comunque un’identità in cambio del nulla, o giù di lì; e non semplice perché i tempi sono quelli che sono: tempi in cui Matteo Salvini, per dire, può chiedere la sospensione del campionato di calcio in rispetto delle vittime genovesi e poi scattare disinvolti selfie a qualche metro dalle bare. Ma per ora è così che va, e non tenerne conto sarebbe un tragico errore.

Cambiare nome, dunque. O addirittura sciogliere il Partito democratico in un inedito «fronte repubblicano», come proposto subito dopo la disfatta del 4 marzo dall’ex ministro Carlo Calenda. Le due operazioni, inizialmente, potrebbero perfino coesistere: ed esser addirittura testate, anzi, nelle elezioni europee della prossima primavera, in vista delle quali il Pd sembra ragionare su una lista senza i suoi simboli e che metta assieme le opposizioni di centrosinistra. Europeisti contro sovranisti, insomma. O democratici contro populisti: una sfida che, a lanciarla nell’Italia gialloverde, può somigliare a Frosinone-Real Madrid. Senza offesa per alcuno.

Ma come si diceva all’inizio, la fase e l’operazione sono tali da reclamare un coraggio che arrivi fino al limite della temerarietà: lo stesso coraggio (seppur obbligato dalla storia e dalla cronaca) che Dc e Pci mostrarono in avvio degli Anni 90. Anche allora, all’inizio non andò come speravano: e arrivò il ciclone-Berlusconi. Ma anche allora - tra lanci di monetine e contestazioni quasi strada per strada - l’agibilità politica dei vecchi partiti finiti all’opposizione era ridotta al lumicino. Come oggi, in fondo, quando Maurizio Martina e Roberta Pinotti sono fischiati per delle morti con le quali non c’entrano nulla. Ma la spiegazione (e la speranza futura) è forse nel fatto che l’elettorato italiano è sì diventato mobile, ma ancora non ha perso la memoria...