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sabato 11 agosto 2018

Scalatori o passeggeri di aerei Quei 150 inghiottiti dal ghiacciaio

LA STAMPA

Italia

Sul massiccio del “tetto d’Europa” cresce il numero degli scomparsi

Ogni tanto emergono indumenti, lettere, gioielli. Perfino una “mummia” 

Scalatori o passeggeri di aerei

Quei 150 inghiottiti dal ghiacciaio

Aveva lasciato una scritta incisa sul bordo della brandina di legno del bivacco. Si chiamava Angelo. È scomparso in un ghiacciaio. Anima vagante che compare nell’immaginifico e poetico cortometraggio del francese Christophe Galleron nell’ambito del Film festival del Cervino. Angelo è parte dell'umanità inghiottita dai ghiacciai. Sul massiccio del Monte Bianco, quelli che a Chamonix chiamano «fantôme», sono 150 dal Dopoguerra ad oggi. Fra loro ci sono ancora gli ignari passeggeri di due voli dell’Air India: gli aerei esplosero a distanza di 16 anni (nel 1950 e nel 1966) contro lo stesso spigolo granitico, la «Tournette», una sorta di faro maligno in un mare candido. Entrambi precipitarono alla vigilia dell’inverno e furono le nevicate a ricoprire frantumi e orrore, poi i crepacci e altra neve inglobarono quanto restava. E il lento scorrere dei ghiacciai o il ritiro per la febbre del pianeta, ogni tanto restituiscono sciagure, come parti, indumenti. Così è stato a distanza di anni per quei passeggeri: lettere, gioielli, brevetti di pilota, cappelli, perfino una treccia. Ma a qualche chilometro dall’impatto. 

I crepacci, soprattutto quando ancora la neve ne ricopre l’apertura, sono la porta per un altrove misterioso. Fra le grandi insidie ci sono le «bergerunde», i crepacci terminali, che appaiono molto sovente come gigantesche smorfie. Gli alpinisti devono superarli, a volte aggirarli per centinaia di metri, trovare il ponte di neve. Proprio quel passaggio rappresenta il rischio. È probabile che proprio un ponte abbia tradito gli ultimi due alpinisti iscritti nel macabro registro degli «scomparsi» sul versante italiano. Erano sul ghiacciaio del Miage, fra nubi vaganti di quella mattina dell’11 luglio 2014, in un punto imprecisato, quando hanno trovato il vuoto sotto i loro piedi. Una guida valdostana, Ferdinando Rolando e il suo giovane cliente, figlio di un amico, Jassim Mazouni, che aveva 16 anni. Erano soli su quel grande e tormentato ghiacciaio che è la via italiana al tetto d’Europa. Il soccorso alpino li ha cercati per giorni. In questi quattro anni il Miage si è tenuto tutto di loro. E neppure una loro impronta era rimasta sul bordo di un crepaccio, su un pendio.

Il massiccio del Monte Bianco ha un’ampiezza di oltre trenta chilometri e, soprattutto sul versante Nord, francese, ha bacini glaciali di dimensioni gigantesche, come quello dell’Argentière, dell’Aiguille Verte, dove sono morti i tre piemontesi. 

Nel 2012, sulla grande spalla di ghiaccio del Mont Blanc du Tacul, confine geografico tra Francia e Italia, emerse un corpo: pareva una mummia posata nella neve. Liberata dopo mezzo secolo, a giudicare dai vestiti. L’esame del Dna lo confermò. A qualche decina di metri di lì, nel 2008, una valanga di blocchi di ghiaccio rapì otto alpinisti fra i 47 che erano partiti poco dopo la mezzanotte dal rifugio Cosmiques, alla base dell’Aiguille du Midi, dove approdano le funivie dei due versanti, da Courmayeur e da Chamonix. Sono stati sbalzati dal pendio come foglie in una tormenta, gettati fra i seracchi verso Nord. Corpi rimasti lì. Ombre fra il bianco, l’azzurro e il verde dei profondi crepacci. 

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enrico martinet