ebook di Fulvio Romano

domenica 19 agosto 2018

Bernard-Henri Lévy su Genova

LA STAMPA

Italia


Genova, per un francese, è la città dove si sono amati Alfred de Musset e George Sand. 

È la Genova della «notte di Genova» in cui Paul Valéry si disse rinato alla vita dell’intelligenza e dello spirito. 

È stata, per l’adolescente che fui, la porta d’ingresso nell’Italia dei pittori e dei poeti, che era un’altra patria per tutti i giovani cittadini d’Europa e la cui scoperta, in genere in autostop, rappresentava un viaggio iniziatico.

Ho perfino un ricordo molto preciso di questa bella, orgogliosa, risolutamente moderna autostrada, di cui si erano appena inaugurate, in quell’inizio d’estate del 1966, a partire da Ventimiglia, le prime tratte e che, perché sposava l’ebbrezza del viaggio e il buon genio dei luoghi, si chiamava l’Autostrada dei Fiori.

Oggi i fiori sono pieni di sangue e Genova la Superba, la città dalla postura regale cantata dal Petrarca, che ci vedeva un’altra Serenissima, è diventata questo luogo di lutto che piange, assieme a tutta l’Italia, le 43 persone sepolte, come il genovese Branca Doria nell’Inferno di Dante, sotto le macerie del Ponte Morandi.

Allora, dinanzi a questo disastro, dinanzi alle immagini di questo ponte sospeso che sfida il cielo, ma che si vede ridotto un ammasso di detriti, di fronte a quest’opera che si voleva magnifica, capolavoro d’ingegneria e di tecnica, ma che in verità era così risolutamente fragile, non si può non porsi la questione, una volta di più, dei terribili paradossi che infestano l’architettura moderna.

Il futuro non resiste

Come al momento del terremoto dell’Abruzzo che vide, una decina d’anni fa, la città nuova dell’Aquila, con i suoi blocchi di cemento, i suoi edifici futuristici e che sembravano così solidi, sgretolarsi come castelli di carta mentre i suoi palazzi antichi, le sue chiese del Rinascimento, le sue mura restavano miracolosamente in piedi, bisogna interrogarsi sulla precarietà di questa modernità imbecille, cioè non soltanto sciocca, senza anima né spirito, ma «in-bacillum», letteralmente «senza bastone», privata di quella buona stampella, che era, secondo un altro grande poeta italiano, Pier Paolo Pasolini, la memoria dei secoli oscuri.

E poi, soprattutto, nessuno può evitare il terribile enigma di chi porta le responsabilità dirette o indirette di questa catastrofe, che mi sembra unica nel suo genere.

È stata messa sotto accusa la società concessionaria che, proprio in linea con quella «speculazione del neocapitalismo» stigmatizzata da Pasolini, sarebbe venuta meno al suo dovere di vigilanza. 

È stato accusato il potere politico e il pessimo patto intrecciato fra imprenditori poco scrupolosi e committenti irresponsabili. 

Si è vista la mano di quello che Roberto Saviano ha chiamato il «Partito del cemento», ossia di una mafia arrivata lì al termine di una lenta risalita verso il Nord, cominciata agli inizi degli Anni Sessanta. Si è parlato di ingegneri che, fin dagli inizi, si sarebbero sbagliati nei calcoli. Si à parlato dell’Europa, la cui burocrazia normativa, le restrizioni di budget e i camion polacchi avrebbero aggravato la situazione. 

L’inchiesta dirà tutto questo. Svolgerà, bisogna sperarlo, la parte del fantasma e della verità. Per il momento ci terremo a due osservazioni semplici e che fin da ora non si possono mettere in dubbio. 

L’Europa, perché se ne parla tanto e può rappresentare, a tempo debito, il capro espiatorio ideale, ha sbloccato, nel 2014, 2,5 miliardi di euro per la modernizzazione delle infrastrutture del Paese; ha convalidato, lo scorso aprile, un piano d’investimenti di 8,5 miliardi per il rinnovo solo delle autostrade e, in particolare, di quelle di Genova; e, lungi dall’aver paralizzato i meccanismi di decisione e i bilanci, ha dato il suo via libera, dal 2017, al progetto Gronda di Ponente, questa bretella che molti genovesi reclamavano da tempo e che doveva, aggirando il ponte, alleggerire il traffico che ha finito per farlo cedere.

Contro le grandi opere

E poi c’è un partito che, al contrario, è venuto meno ai suoi doveri. Al pari di Erdogan, che, al culmine della crisi finanziaria turca, si mette a proclamare di essere «contro i tassi d’interesse», c’è un movimento politico che proclama da sempre che è «contro le grandi opere», dato che queste servono solo, secondo la loro visione, a distruggere l’ambiente e a riempire le tasche dei corrotti; c’è un movimento e uno solo, quindi, che si è opposto, fino all’ultimo minuto, alla costruzione di questa deviazione autostradale, che oggi, si sa, era l’unica alternativa al viadotto. Questo movimento è quello che strilla più forte, è quello che, nel momento in cui non si conoscono ancora tutti nomi e i volti delle vittime, vuole d’urgenza un colpevole, è il Movimento 5 Stelle.

Internet, che non ha soltanto difetti, ha mantenuto la memoria di quel comizio del 2014, a Roma, in cui il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, se la prendeva con i partigiani della Gronda: «Bisogna fermare questa gente! Bisogna fermarli con l’esercito italiano!». 

Ha conservato le tracce della venuta a Genova, in piena campagna elettorale, dell’attuale leader del Movimento, Luigi Di Maio: prometteva che, al suo arrivo al potere, l’avrebbe fatta finita con quest’inutile e funesta Gronda, che il suo ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha discretamente sotterrato in Parlamento il 2 agosto scorso. 

E, se i grillini hanno vergognosamente cancellato dal loro sito un testo che, a posteriori, gela il sangue e che, nel momento in cui i cittadini di Genova cominciavano a veder arrivare la catastrofe, criticava «la piccola fiaba del crollo del Ponte Morandi», i giornali hanno avuto la buona idea di archiviarlo e ripubblicarlo.

Possa l’Italia ricordarsene oltre il tempo che occorrerà per seppellire e piangere i suoi morti. 

Possiamo, tutti noi, valutare correttamente gli errori di valutazione, possibilmente criminali, ai quali conduce talvolta la demagogia populista. 

Traduzione di Leonardo Martinelli

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Bernard-Henri Lévy